Le proteste di piazza, iniziate i primi giorni di ottobre, con il passare delle settimane hanno raccolto consensi, trasformandosi in una rivolta popolare. Quello che sta avvenendo in Libano, e in particolare nelle città più grandi del paese, come la capitale Beirut e Tripoli, è un terremoto politico e sociale per il governo e per l’intero sistema istituzionale libanese. Questa mobilitazione sociale, nella dinamica e nelle modalità di svolgimento, sembra inserirsi perfettamente nel solco di quella stagione passata alla storia con il nome di “Primavera araba”. Questo sillogismo, tuttavia, negli ultimi anni ha permesso di definire “Primavera araba” praticamente ogni protesta durata più di qualche giorno. Quel movimento popolare, che ha scosso dalle fondamenta il mondo arabo, provocato migliaia di morti e ondate di arresti e fatto cadere regimi decennali era tuttavia un movimento di ben altra dimensione socio-politica.
Se proprio si vuole ricercare una variabile dipendente che colleghi i movimenti del 2011 a quello che sta accadendo oggi nel paesi dei Cedri, bisogna innanzitutto osservare alcuni indicatori sociali ed economici. I dati macro-finanziari evidenziano uno stato di povertà della popolazione molto diffuso, con diseguaglianze sempre più crescenti assieme a un debito pubblico che è tra i più grandi del mondo, pari al 153% del Pil. Il reddito medio mensile non supera i 300 euro, mentre un terzo degli abitanti del paese vive con meno di 3,5 euro al giorno. La disoccupazione giovanile è inoltre molto alta, aggravata dalla stagnazione economica dovuta soprattutto all’instabilità politica regionale e in primis alla guerra civile in Siria. Come per le precedenti rivolte regionali – e le attuali come quella irachena – anche in Libano, parte delle ragioni scatenanti si possono ritrovare in un quadro economico negativo. I giovani – la maggioranza della popolazione – sono stati gli attori principali in questa fase. La pressione che hanno esercitato attraverso le loro pacifiche proteste ha paralizzato il paese e il sistema politico nel suo insieme. Il 29 ottobre il Presidente Saad Hariri, dopo giorni di incessanti proteste, ha consegnato le proprie dimissioni nelle mani del Presidente della Repubblica Micheal Aoun. Questo primo risultato ottenuto dalla piazza non ha certo placato le proteste, anche se lentamente il Libano sta cercando di tornare alla normalità. Il Presidente della Repubblica Aoun, nel suo discorso al popolo a reti unificate, ha lasciato intendere un grado di apertura nei confronti delle richieste della piazza per uscire da questa impasse,assicurando la veloce nomina di un nuovo governo, senza tuttavia entrare mai nei dettagli. Un nuovo governo che sia di unità nazionale per evitare elezioni immediate, un nuovo esecutivo composto per metà da ministri tecnici che sia in grado di trovare soluzioni alla crisi economica. Questo anche per dare un messaggio di discontinuità. Qui sta la ragione della scelta di affidarsi ai tecnici visto che i politici hanno ormai perso la fiducia del popolo.
Da alcune indiscrezioni trapelate sui giornali arabi, sembra che il Presidente Aoun voglia tuttavia conferire un nuovo incarico al Primo ministro uscente Hariri, il quale riceverebbe un nuovo mandato per rispondere alle richieste della piazza, ma soprattutto per rispettare quel delicato equilibrio politico/sociale/confessionale faticosamente raggiunto negli accordi di Taif nel 1990, dopo 15 anni di guerra civile.
Proprio in questi ultimi giorni le consultazioni tra il Capo dello Stato e i partiti sono state serrate, ma una soluzione sembra ancora lontana. Quello che emerge è una situazione di stallo. Da una parte vi è infatti la proposta del presidente dimissionario Hariri di formare un governo tecnico senza politici di professione, dall’altra la proposta di Hezbollah, di Amal e dell’ala più liberale del paese di affidare il governo a una guida prestigiosa sostenuta da ministri tecnici e politici. Ad oggi nessuna delle due parti sembra disposta a mediare rispetto alla propria proposta.
Interessante è il ruolo assunto in questo momento da Hezbollah. Il suo leader, Hassan Nasrallah, ha mosso una pesante accusa nei confronti di non ben identificati attori esterni – leggasi Israele – accusati di fomentare le proteste per disgregare il paese. Tuttavia, oltre a queste accuse, il capo del Partito di Dio ha anche chiesto nuove azioni politiche per rispondere alle “giuste” richieste del popolo libanese. Ha altresì ribadito che se non si è arrivati al caos è grazie ai tanti libanesi che hanno supportato il paese in questo delicato momento e grazie ad alcuni movimenti politici, come appunto Hezbollah. Non bisogna dimenticare che il Partito di Dio è ormai parte del sistema politico libanese, essendo dentro il governo, il Parlamento, i servizi segreti e l’esercito. Le attuali proteste, dunque, anche se non apertamente sono indirizzate anche contro il movimento sciita che in questi anni ha guidato l’azione di governo.
La geografia delle proteste conferma inoltre la trasversalità delle componenti che la formano. Forse mai prima d’ora si era visto nel paesi dei Cedri un movimento di questa portata. La mobilitazione, oltre ad essere molto partecipata nelle città più popolose come Beirut e Tripoli – roccaforti dell’ex Presidente Hariri – si è diffusa anche nel sud-est del paese, nelle zone più povere feudo di movimenti sciiti come Amal e Hezbollah così come nelle aree abitate dai cristiani maroniti come Jbeil e Kisrawānzona. Questa mobilitazione nazionale così trasversale, che ha accumunato un intero popolo, sta ponendo delle forti domande sulla capacità di tenuta del sistema politico libanese così come lo abbiamo conosciuto in questi ultimi anni. Basato su fragili equilibri, esso con il tempo si è trasformato in un sistema condizionato da gruppi di potere, soprattutto economici e clientelari. La crisi economica ha portato a galla tutto il malcontento sociale e ha fatto emergere come unico responsabile l’attuale classe politica. La via sembra tracciata dal Presidente della Repubblica, ma gli ostacoli sono molteplici. La recente storia del paese insegna che nulla va sottovalutato. Le proteste contro un sistema politico giudicato inefficace, corrotto e di casta hanno prodotto un primo risultato e la seconda fase sarà determinata dalla nomina del nuovo governo, con tutte le incognite del caso. Fin quando le proteste continueranno a essere trasversali e senza colore politico o religioso l’attuale movimento potrà tuttavia rappresentare una valida sentinella in grado di controllare l’operato del nuovo esecutivo tutto.
Mohamed el Khaddar