Israele, tra Usa e Iran
L’uccisione del generale Qassem Soleimani avvenuta il 3 gennaio 2020 da parte degli Stati Uniti ha avuto, come era naturale aspettarsi, molteplici effetti. Pur non portando il mondo sulla soglia delle Terza guerra mondiale, ha sancito la fine definitiva della credibilità di qualsivoglia norma internazionale e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, consacrato il principio della forza nelle attuali dinamiche geopolitiche, dato il colpo di grazia al moribondo JCPOA e ridicolizzato il peso dell’Europa – rimasta di fatto silente di fronte all’azione – in ambito internazionale. Ovviamente, le ricadute maggiori si sono concentrate sulla regione, data l’importanza del generale Soleimani, percepito in modo diametralmente opposto tra i due blocchi contrapposti, quello anti-iraniano e quello filo-iraniano. Per i primi un terrorista destabilizzatore, per i secondi un vero e proprio eroe, colui che ha sconfitto Daesh sul campo. La sua morte e la crisi che ne è seguita, hanno anche fornito ai governi della regione – in particolare a quelli di Iraq, Libano e, soprattutto, Iran – un’ottima motivazione per reprimere con maggiore forza le proteste popolari in corso all’interno dei loro paesi, o quantomeno per distogliere l’attenzione da esse.
Il gesto di Trump, motivato, secondo Chuck Freilich (già vice consigliere alla Sicurezza nazionale di Israele), dalla necessità di reagire a diverse azioni iraniane occorse nell’ultimo anno, ha avuto come unico risultato un maggiore caos nella regione, limitato solo dal fatto che l’Iran, accortamente, ha evitato di innescare una seria escalation, limitandosi a colpire delle basi Usa in Iraq, in prossimità di Baghdad, nella notte fra il 7 e l’8 di gennaio, senza provocare perdite fra gli statunitensi. La reazione iraniana poteva essere di gran lunga più incisiva e colpire i principali proxy di Washington nell’area, quali gli Stati arabi del Golfo e Israele. Per quanto non molto probabile, il rischio di una ritorsione iraniana sugli alleati degli Usa nella regione rende particolarmente miope la reazione di entusiastico appoggio a Trump dei principali rappresentanti politici dello Stato ebraico nei giorni immediatamente successivi alla morte del generale iraniano. Le autorità saudite ed emiratine, ad esempio, hanno sì mostrato soddisfazione, ma in misura molto più contenuta.
Non si può, infatti, non notare che, accanto a questa azione di forza, l’amministrazione Trump persegua una strategia di fondo, che consiste in un più complessivo disimpegno dall’area Mena. Solo tre giorni dopo l’attacco, ad esempio, in una lettera del comandante statunitense delle operazioni in Iraq, William H. Seely, al ministero della Difesa iracheno, veniva annunciato un ritiro delle forze statunitensi dal Paese, tuttavia immediatamente smentito dalla Casa Bianca. Questo episodio, unitamente al recente abbandono delle forze curde da parte dell’amministrazione Trump, hanno reso i Paesi del Golfo – soprattutto gli Emirati arabi uniti – molto prudenti nei confronti delle intenzioni dell’alleato statunitense. In sostanza, hanno preso coscienza che l’attuale amministrazione Usa è sì capace di perseguire delle azioni anche molto decise nei confronti della Repubblica islamica, ma che è anche in grado di lasciare che i propri alleati subiscano i contraccolpi delle ritorsioni iraniane.
La reazione israeliana, soprattutto per quanto riguarda i principali esponenti politici, è stata notevolmente diversa, a tratti di vera e propria esultanza. Appoggiando l’azione statunitense nei confronti del generale iraniano, l’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu ha immediatamente affermato, venerdì 3 gennaio, che “proprio come Israele ha diritto all’autodifesa, anche gli Usa hanno il medesimo diritto” e che “il presidente Trump merita tutto il plauso per avere agito rapidamente, con forza e decisione”.
Dello stesso avviso si sono rivelati anche tutti i principali rappresentanti dell’opposizione israeliana, incluso il principale avversario di Netanyahu, l’ex capo di Stato maggiore, Benny Gantz. Quest’ultimo si è complimentato col presidente statunitense, sempre il 3 gennaio, per la sua “coraggiosa decisione” che ha “mostrato a tutti i leader del terrorismo globale che le loro azioni ricadranno sulle loro teste” – alienandosi così il supporto delle liste arabe alla sua coalizione. Conformemente a Gantz si sono espressi Yair Lapid, leader del partito di centro Yesh Atid, e Amir Peretz, principale esponente del partito laburista. Questa reazione da parte di quasi tutta la classe politica israeliana può essere addebitata principalmente a due fattori, ovvero la lunga tradizione di assassini mirati come strumento di difesa e politica estera da parte israeliana e, soprattutto, l’ormai permanente clima da campagna elettorale in Israele. Le prossime votazioni si terranno, infatti, il 2 marzo 2020, dopo ben due tornate elettorali che non si sono dimostrate in grado di portare alla formazione di un governo, ad aprile e a settembre del 2019. La necessità dell’appoggio da parte dell’opinione pubblica può spiegare, almeno in parte, questa conformità di reazioni rispetto all’uccisione di un uomo che, agli occhi dell’opinione pubblica israeliana, rappresentava una vera e propria minaccia esistenziale.
Il ruolo giocato dalla particolare contingenza elettorale nello Stato ebraico nel modellare l’uniformità di reazione da parte della classe politica è dimostrato dalle opinioni espresse da analisti e militari israeliani, i quali, esenti dalla prova del voto, hanno potuto permettersi di esprimersi in modo più realista sul tema. Non è un caso che tre giorni dopo l’attacco, il 6 gennaio, il comandante in capo del comando meridionale israeliano, il generale Herzi Halevi, abbia di fatto preso le distanze dall’azione statunitense, affermando che “Soleimani danneggiava gli interessi americani e rappresentava un pericolo significativo per gli statunitensi nella regione. Dobbiamo [noi israeliani] guardare al suo assassinio come a una parte del confronto fra Iran e Usa nella regione e in Iraq. Questa è la situazione.” L’ex brigadier generale Michael Herzog ha espresso in modo ancora più chiaro le proprie perplessità in merito, non escludendo che l’azione statunitense non possa preludere a un futuro ritiro degli Usa dall’Iraq, mentre il già primo ministro israeliano Ehud Barak ha fatto presente in un’intervista che “non è così inverosimile pensare che Trump si scambi dei colpi pesanti con l’Iran e che a un certo punto, qualora il confronto diventasse più duro, ci si svegli di colpo accorgendosi che il presidente ha ordinato il ritiro delle Forze statunitensi [dalla regione]”. In sostanza, i rischi collegati alle azioni imprevedibili di un alleato come Trump, quali l’uccisione di Soleimani, sono ben presenti e riconosciuti da generali e analisti israeliani. L’attentato al generale iraniano va dunque ad aggiungersi a diversi altri elementi che solo apparentemente vanno a rafforzare la posizione di Israele nella regione, ma che in verità non fanno altro che isolarlo maggiormente dai propri vicini e renderlo sempre più dipendente dall’alleato statunitense. Fra questi vale la pena considerare: l’appoggio incondizionato all’occupazione della Cisgiordania; la volontà di annessione di quest’ultima a più riprese affermata da Netanyahu e appoggiata da Trump; il taglio ai fondi per L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione de rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa) da parte degli Usa; il riconoscimento, infine, di Gerusalemme come capitale d’Israele e dell’occupazione israeliana dell’altopiano del Golan da parte della Casa Bianca. Tutti elementi che, insieme all’uccisione di Soleimani, sono funzionali non a una maggiore difesa dello Stato ebraico da parte di Donald Trump, ma a un ritorno per quest’ultimo in politica interna, anche a costo di una sempre maggiore esposizione dei suoi alleati nell’area, e in particolare di Israele, al rischio di pesanti ritorsioni.
Francesco Felle