Al netto delle conseguenze dal punto di vista sanitario, la pandemia di Covid-19 sta causando enormi problematiche economiche a livello globale, generando crisi differenziate a seconda della struttura dei singoli paesi. Se, di fatti, le economie industrializzate soffrono soprattutto di un doppio shock di offerta e di domanda, i paesi il cui bilancio statale, ed il conseguente modello di welfare, è dipendente dall’export di idrocarburi, stanno patendo un ulteriore shock legato al crollo del prezzo e delle quantità di greggio vendute a livello mondiale.
La riduzione delle costo del petrolio è naturale conseguenza della contrazione di circa il 30% della domanda a livello mondiale, i cui effetti sono stati però aggravati dalle dinamiche di competizione tra i paesi produttori di greggio, Arabia Saudita e Russia in primis. In un mercato petrolifero caratterizzato, di fatti, da un’abbondante offerta, un crollo così importante della domanda avrebbe richiesto un taglio coordinato della produzione mondiale, proposto in occasione della riunione OPEC+ dello scorso 6 marzo. Il mancato accordo, per via dell’iniziale niet russo, ha portato i sauditi a perseguire una politica aggressiva, aumentando il pompaggio e praticando forti sconti sulla vendita, provocando così un crollo delle quotazioni del greggio, che nel mese di marzo sono scese anche sotto la soglia di 20 dollari al barile.
Dopo un mese di guerra sui prezzi, lo scorso 12 aprile i paesi OPEC+ hanno concordato uno storico taglio pari a 9,7 milioni di barili al giorno, circa il 10% della produzione mondiale. L’accordo (in vigore dal 1° maggio) dovrebbe attutire così gli effetti deleteri sui bilanci statali dei paesi esportatori di petrolio. Da solo, tuttavia, non sembra essere sufficiente a riportare il prezzo del greggio attorno ai 50 dollari al barile (quotazione mediana a partire dal 2014), tanto da spingere il Fondo Monetario Internazionale a prevedere un prezzo medio per il 2020 di circa 35 dollari.
In un contesto simile, tra i paesi dipendenti dall’export di idrocarburi che maggiormente potrebbero soffrire dei bassi prezzi del greggio vi è certamente l’Algeria. Il paese mediterraneo è al centro di una lunga e intensa ondata di protese (Hirak), iniziate nel febbraio 2019, che ha determinato la fine della ventennale presidenza di Abdelaziz Bouteflika. A ciò non ha però fatto seguito una vera discontinuità di potere, restando ancora lo stesso nelle mani della classe politico-militare (il Pouvoir) che guida il paese dall’indipendenza. L’elezione a Presidente di Abdelmadjid Tebboune, avvenuta a seguito delle contestate elezioni del 12 dicembre 2019, contraddistinte da un elevatissimo tasso di astensionismo (oltre il 60%), è vista dal movimento di protesta come un’opera di cosmesi politica volta a legittimare con il voto la conservazione dei vecchi meccanismi di potere. Per questo motivo, il fronte di protesta, guidato principalmente dalle giovani generazioni (il 45% della popolazione algerina ha meno di 25 anni) ha continuato a riversarsi nelle piazze fino al 13 marzo scorso (per il 56esimo venerdì di protesta consecutivo), salvo poi dover interrompere l’Hirak per il timore delle ripercussioni sanitarie connesse alla pandemia.
Con la piazza (virtuale) algerina che continua a chiedere discontinuità e politiche di redistribuzione del reddito e delle opportunità verso le fasce più giovani e lontane dal sistema clientelare di potere, la prospettiva di una forte crisi fiscale legata alle minori entrate petrolifere assottiglia i già ridotti margini di manovra a disposizione del governo algerino, con il rischio di acuire le rivendicazioni e mettere ancor più a repentaglio le prospettive di stabilità di uno dei paesi chiave per la geopolitica del Mediterraneo, del Medioriente e del Sahel.
Le entrate di Algeri, di fatti, dipendono per oltre il 60% dai proventi degli idrocarburi, la cui vendita contribuisce a più del 90% dell’export del paese. Al netto della crisi legata al Covid-19, la riduzione strutturale dei prezzi degli idrocarburi, causata dalla commercializzazione dello Shale Oil americano a partire dal 2014, unita all’aumento dei consumi energetici interni (dovuti a maggiori tassi di urbanizzazione e crescita demografica) e la conseguente riduzione della quota di idrocarburi destinata alle esportazioni (-8% nel 2019), hanno contribuito negli anni a diminuire la torta a disposizione del governo per portare avanti politiche redistributive.
Il bilancio pubblico algerino per il 2020, quindi, con un deficit previsto attorno al 7% e una crescita stimata all’1,5%, sarebbe in equilibrio con un prezzo del greggio attorno ai 50 dollari al barile. Al fine di bilanciare la contrazione delle entrate legate agli idrocarburi, perciò, il governo algerino non potrà esimersi da attuare durissimi interventi di politica fiscale. Lo scorso 22 marzo, infatti, l’esecutivo ha annunciato un taglio della spesa pubblica del 30%, pari a 15 miliardi di dollari. Nonostante ciò, al fine di contenere la pressione sociale, questi tagli (il cui dettaglio non è stato ancora ufficializzato), non dovrebbero toccare i salari dei dipendenti pubblici e incidere il meno possibile sui sussidi statali, mentre il governo dovrebbe ridurre di almeno 10 miliardi di dollari le importazioni preventivate. Al netto degli annunci però, è verosimile che l’esecutivo sia costretto ad un aumento delle tasse e a contrarre maggior debito pubblico, con il rischio di dover successivamente chiedere il supporto del Fondo Monetario Internazionale, e perciò affrontare misure di austerità in un futuro non troppo lontano.
Ad aggiungere ulteriore preoccupazione è il dato relativo alle riserve di moneta estera, scese a meno di 60 miliardi di dollari dai 97 di fine 2017, e destinate ad intaccare (ottimisticamente) la soglia dei 50 miliardi entro fine anno. Le riserve di valuta estera sono fondamentali per sostenere le importazioni e quindi i volumi di consumo della popolazione algerina. Un prosciugamento di queste, assieme ad un aumento del twin deficit (fiscale e della bilancia dei pagamenti), potrebbe causare l’ennesima ondata d’inflazione e svalutazione del dinaro (già deprezzatosi del 50% dal 2014), con conseguente impatto sul potere d’acquisto e sul tasso di disoccupazione (altro soprattutto tra i giovani, tra i quali si attesta attorno al 30%).
La crisi in atto accelera perciò la necessità del paese di mettere in atto politiche di diversificazione dell’economia (superando la dipendenza dalla vendita di idrocarburi) al fine di invertire la traiettoria di sviluppo e dare risposte alle richieste di un cambiamento socio-economico che provengono dalle piazze algerine. A differenza di altri paesi che stanno intraprendendo un simile percorso, tra tutti le Monarchie del Golfo, l’Algeria non dispone autonomamente delle risorse necessarie a finanziare progetti di diversificazione economica ed energetica, le cui prospettive di realizzazione dipendono perciò dalla capacità di attrarre Investimenti Diretti Esteri. Nonostante il paese sia impegnato da diverso tempo ad attrarre capitali stranieri (un focus sugli investimenti cinesi), burocrazia, corruzione, incertezza istituzionale e tensione sociale non contribuiscono a creare il giusto clima per gli investimenti esteri, ad oggi legati soprattutto al mercato delle risorse naturali. D’altro canto, l’Algeria si piazza al 157esimo posto (su 190 paesi) nella classifica 2020 dell’Ease of Doing Business, ultimo paese tra quelli del Maghreb (con la ovvia eccezione di Tripoli) e con un punteggio migliore, tra i paesi dell’area MENA, solamente di Iraq, Siria, Libia e Yemen.
Nella direzione di attrarre maggiori investimenti esteri va ad esempio la nuova legge algerina sugli idrocarburi, approvata con l’obiettivo di intensificare la ricerca di risorse naturali (grazie al capitale straniero) i cui proventi della vendita dovrebbero essere utilizzati per investimenti dedicati alla crescita economica. Se perciò il settore degli idrocarburi continuerà ad essere il traino dell’economia algerina, i proventi di breve periodo derivanti da questo dovrebbero essere utilizzati per investire nella transizione economica ed energetica. Nonostante ciò, il mix tra pregresse tensioni sociali, restrizioni legate alla pandemia ed effetto economico del Covid-19, non sembra fornire al debole governo algerino gli incentivi politici per perseguire politiche di crescita di lungo periodo a scapito di un taglio dei sussidi, la cui rimodulazione potrebbe generare un terremoto e scuotere le fragili fondamenta che tengono assieme il sistema di potere algerino.
Simone Acquaviva
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