Se la pandemia causata dal coronavirus ha provocato un drastico rallentamento delle attività produttive e un crollo generalizzato di redditi e tassi di occupazione in tutto il mondo, a farne le spese sono stati finora soprattutto gli strati sociali più vulnerabili dei paesi dove la capacità di intervento statale è limitata da fragilità strutturali e crisi pregresse. Uno degli esempi più calzanti a tal riguardo è rappresentato dal Libano, alle prese con una profondissima crisi politica esacerbata da mesi di proteste di piazza. A questo quadro già di per sé complicato, si aggiunge il rischio di un collasso finanziario, per di più a pochi mesi dal primo storico default annunciato lo scorso 7 marzo dal Primo ministro Hassan Diab.
Lo scorso autunno il “paese dei Cedri” è stato attraversato da un’ondata di proteste, un fenomeno che ha interessato diverse aree del globo e in particolare molti paesi del Medio Oriente, come l’Iraq, l’Iran e l’Algeria. Il movimento Hirak (protesta) libanese è partito lo scorso 17 ottobre, come reazione all’annuncio di un pacchetto legislativo all’interno del quale era prevista un’ulteriore tassazione sui consumi, compresa un’imposta sulle chiamate effettuate tramite strumenti di messaggistica istantanea, che da subito è diventata il simbolo delle rivendicazioni della cosiddetta “rivoluzione di WhatsApp”.
Al netto del singolo provvedimento, le proteste libanesi sono nate in un contesto di progressivo aumento delle tensioni sociali, conseguenza della deteriorata situazione economica del paese, il cui fallimentare modello di sviluppo economico ha cominciato a mostrare profonde crepe a partire dal decennio scorso. Nel dettaglio, la riduzione strutturale dell’afflusso di depositi e finanziamenti esteri, assieme all’impatto di 1.5 milioni di profughi siriani (circa il 22% del totale della popolazione libanese), ha richiesto l’adozione di nuove misure di assistenza finanziate in deficit (e quindi insostenibili nel lungo periodo), mentre l’assenza di riforme istituzionali ha bloccato lo sviluppo economico del paese e l’elargizione di un pacchetto di 11 miliardi di dollari in aiuti e prestiti stranieri, stanziati in occasione della conferenza CEDRE dell’aprile 2018.
Le manifestazioni iniziate lo scorso ottobre, quindi, sono rivolte contro l’intera classe politica libanese e – aspetto assolutamente peculiare nello scenario del paese – sono caratterizzate da una forte connotazione interconfessionale. L’Hirak invoca di fatti un reset dell’assetto istituzionale del paese, basato attualmente su una rigida divisione settaria delle cariche politiche. Questo sistema ha in qualche modo garantito la convivenza tra le diverse confessioni, ma al contempo ha rappresentato un elemento inibitorio per la formazione di veri e propri governi in grado di portare avanti riforme sociali ed economiche, sempre impedite dalla necessità di trovare un elaborato compromesso (inevitabilmente al ribasso) tra i diversi gruppi confessionali.
Lo scorso anno, il perdurare delle manifestazioni di piazza ha portato a un vero e proprio terremoto politico, con le dimissioni del Primo ministro Saad Hariri, sostituito dopo due mesi di negoziazioni intra-partitiche dal professore universitario Hassan Diab, apparentemente esterno al sistema partitico, ma in realtà sostenuto dalla stessa maggioranza politico-confessionale uscita dalle ultime elezioni parlamentari, quelle del 2018.
Questa condizione sistemica di instabilità, connessa alla frattura profonda tra cittadini e istituzioni, ha contribuito ad aggravare ulteriormente la situazione economica del paese, e ha condotto alla già citata decisione delle autorità governative di dichiarare default per far fronte alle pressioni della piazza e salvare le riserve di valuta straniera, particolarmente preziose in un paese il cui volume delle importazioni è oltre 5 volte superiore a quello delle esportazioni.
Il default, unito alle misure di lockdown intraprese per contenere la diffusione del Covid-19, ha però ulteriormente esacerbato le condizioni economiche della popolazione libanese. Se le fasce più disagiate della popolazione sono in forte difficoltà per via dell’interrompersi delle fonti di sostentamento, spesso provenienti da forme di economia informale, la classe media del paese vede una profonda e costante erosione dei propri risparmi, soprattutto per via della svalutazione de facto della lira – la valuta libanese – che sul mercato nero viene scambiata fino a 4200 unità per 1 dollaro, un deprezzamento drastico rispetto al tasso di cambio ufficiale (1507 a 1). Se quindi il prezzo dei prodotti importati cresce vertiginosamente, generando così una forte inflazione, i depositi bancari in valuta straniera sono al momento congelati, ed è prevista la possibilità di prelievo solamente in valuta locale e a tassi estremamente svantaggiosi.
Il sommarsi di inflazione, svalutazione, debito pubblico (90 miliardi di dollari, pari ad oltre il 180% del PIL, il 38% del quale in valuta straniera) e lockdown ha quindi provocato una sorta di cocktail esplosivo, che ha portato allo scoppio di una bomba sociale difficilmente contenibile. Poco prima delle restrizioni da lockdown, di fatti, la Banca mondiale stimava che il 40% della popolazione libanese sarebbe finita in una condizione di povertà entro la fine dell’anno, una percentuale sicuramente aumentata esponenzialmente con il blocco delle attività produttive. Di fronte all’inasprimento delle tensioni sociali, a partire dallo scorso 21 aprile, i cittadini libanesi sono quindi nuovamente scesi in piazza, sfidando i divieti imposti dalle autorità governative. In pochi giorni, i maggiori centri urbani del paese – e in particolare la città di Tripoli – si sono così trasformati nel terreno di uno scontro molto più violento rispetto all’ondata dell’autunno precedente.
Per fronteggiare la drammatica situazione economica, il governo libanese è perciò alla ricerca di assistenza finanziaria da parte di paesi terzi e organizzazioni internazionali. In una situazione di emergenza sanitaria e crisi economica mondiale, è però difficile che paesi europei o del Golfo persico siano in grado di offrire gli aiuti necessari (stimati nell’ordine di 10-15 miliardi di dollari) in tempi brevi. Per questo motivo, il paese è dovuto ricorrere all’assistenza preliminare del Fondo monetario internazionale, al fine di elaborare un piano di ristrutturazione del debito sovrano e un prestito per far fronte alle richieste più pressanti della popolazione.
I dialoghi formali con il Fmi hanno già prodotto un rapporto che documenta molto dettagliatamente le enormi perdite finanziarie sofferte dal governo di Beirut, ma non è stato ancora possibile arrivare a un accordo su un piano di riforme. Diverse ombre ricadono sulle possibilità di successo di tale iniziativa. In primis, di fatti, l’intervento del Fmi è vincolato all’implementazione di riforme economiche di orientamento liberista, che potrebbero, nel lungo periodo, condurre il paese verso traiettorie di crescita economica, ma che richiedono misure di austerità a breve termine difficilmente accettabili data la contingente situazione socioeconomica. Inoltre, il supporto del Fondo è al momento ostacolato da Hezbollah, il partito che costituisce il principale rappresentante politico della comunità sciita. L’organizzazione politica di Hezbollah, così come la sua ala paramilitare, è completamente dipendente dai fondi provenienti dall’Iran e il regime di Teheran vede il Fmi come longa manus del potere americano sul Libano. Bisogna comunque notare che, a differenza del passato, anche Hezbollah è stato recentemente bersaglio delle proteste di piazza, e una posizione troppo rigida nei confronti dell’intervento del Fondo potrebbe risultare controproducente e trasformare l’organizzazione nel principale responsabile della crisi agli occhi di buona parte della popolazione.
Nell’attesa perciò di definire le prossime mosse a livello di politica economica, il Libano spera di poter riaprire il prima possibile. Nonostante ciò, la drammatica situazione economica del paese si riflette anche sulle prospettive di convivenza con il virus. Le autorità libanesi, infatti, nel timore dello scoppio di un’emergenza sanitaria, stanno gestendo le riaperture con estrema prudenza, tanto che, dopo aver concesso un allentamento delle misure di lockdown dallo scorso 24 aprile, il governo ha imposto chiusure totali per 5 giorni a partire dal 12 maggio, poiché nelle precedenti 96 ore il paese aveva registrato 100 nuovi contagi. Resta da verificare, d’altro canto, quanto queste misure siano effettivamente attuabili nei confronti degli strati più deboli della popolazione, sui quali incombono, in egual misura, sia lo spettro del virus che quello della povertà assoluta.
Simone Acquaviva