Ad oggi in Libia nessuna autorità ha il pieno controllo del territorio. Il potere è diviso tra il Governo di accordo nazionale (Gna), guidato da Fayez al-Serraj e con sede nella capitale Tripoli, e l’Esercito nazionale libico (Lna), guidato dal generale Khalifa Haftar e basato nell’est del paese. Nonostante gli “sforzi” della comunità internazionale, il cessate il fuoco tra le fazioni libiche rimane ancora un obiettivo lontano.
Le potenze regionali e i paesi vicini intensificano la competizione per il potere nell’arena politica libica. Sin dall’inizio della campagna militare avviata dall’Lna, gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno svolto un ruolo cruciale. La loro proattività, probabilmente maggiore a quella di qualsiasi altro Stato, ha conferito potere ad Haftar e facilitato la sua campagna militare e il suo controllo sulla Libia orientale.
In questo contesto, Abu Dhabi non ha mostrato mai veramente fiducia nei confronti delle varie iniziative diplomatiche volte all’ottenimento di una possibile fine delle ostilità. Verrebbe allora da chiedersi perché tanto interesse nell’affare libico.
Negli ultimi 15 anni, gli EAU hanno sviluppato una politica estera molto aggressiva con l’obiettivo di tutelare i propri interessi economici e politici in Medio Oriente, in Nord Africa e nel Corno d’Africa. Dalle Primavere arabe del 2011, Abu Dhabi è intervenuta in Bahrein, Siria, Libia e Yemen. Nonostante la forte alleanza con gli USA e l’Arabia Saudita, le sue attività hanno acquisito nel corso del tempo una sempre maggiore autonomia. Nel 2018 gli Emirati erano fra i primi 10 paesi importatori di armi, con una spesa totale di 1,1 miliardi di dollari. Questa cifra è molto significativa considerando le dimensioni dello stato del Golfo.
Per gli EAU il coinvolgimento nella guerra civile libica è un capitolo molto importante nella strategia di contrasto ai tentativi di egemonia regionale avviati dalla Turchia. Abu Dhabi, infatti, vede Ankara come il principale antagonista nel suo programma di espansione nell’area mediterranea. Turchia ed EAU, attualmente e nel recente passato, hanno appoggiato spesso fronti opposti in diverse occasioni: dall’attuale crisi libica, alla guerra civile siriana, al colpo di Stato in Egitto. Il sostegno di Ankara ai partiti e ai movimenti islamisti, in molti casi affiliati alla Fratellanza musulmana, è visto da Abu Dhabi come una minaccia alla propria stabilità nazionale. Con il passare del tempo, i due paesi si sono impegnati in una lotta di potere regionale: un gioco a somma zero, in cui se uno vince l’altro perde.
La promozione dell’islamismo nella regione è vista dagli EAU come la diffusione di un modello alternativo a quello attualmente offerto dalla famiglia al potere al-Nahyan. Quest’ultimo si basa, infatti, sul controllo dello Stato attraverso un’oligarchia autocratica, che garantisce la stabilità interna e lo sviluppo economico del paese. Haftar, nella Libia orientale, rispecchia molto questo modello, così come il regime militare di al-Sisi in Egitto. Abu Dhabi vede Haftar come un “al-Sisi 2.0”, in quanto ha l’obiettivo di replicare un regime militare antidemocratico dipendente dal sostegno degli Emirati, così come successo in Egitto col colpo di Stato del generale egiziano nel luglio del 2013.
La Libia funge da collegamento tra lo spazio mediterraneo e quello della regione del Sahel: entrambe le regioni sono state terreno di scontro tra Abu Dhabi e Ankara sia in termini di penetrazione economica che di influenza ideologica. Inoltre, gli EAU sono interessati al controllo delle infrastrutture portuali libiche che si affacciano sul Mediterraneo, su tutte Bengasi e Tobruk.
Nel 2018, con la Turchia ancora distratta dalla questione siriana e non ancora così attiva nel paese nordafricano, gli Emirati avevano tentato di raggiungere un accordo diplomatico, mostrandosi decisamente favorevoli a una soluzione politica e non militare del conflitto. Viceversa, l’intervento turco a favore del Gna, l’unico governo riconosciuto dalla comunità internazionale, iniziato nel maggio del 2019 e intensificatosi con l’invio di mercenari siriani e sistemi militari sempre più sofisticati, ha contribuito a radicalizzare la posizione di Abu Dhabi.
Altra questione è quella relativa al petrolio. Nonostante il distanziamento geografico e il modesto rapporto commerciale (il valore delle esportazioni emiratine in Libia nel 2018 ammontava a 1,4 miliardi di dollari, viceversa quelle libiche verso Abu Dhabi a 684 milioni di dollari), il futuro politico dell’ex colonia italiana, ricca di oro nero, presenta un punto di svolta per le più ampie ambizioni geopolitiche di Abu Dhabi. Gli Emirati cercano di portare le vaste risorse naturali del paese libico sotto il controllo di Haftar e sfruttarle così per i propri interessi. L’obiettivo principale degli Emirati è impedire che emerga una Libia stabile e completamente indipendente. Uno scenario del genere consentirebbe alla Libia di diventare polo di attrazione di investimenti europei ed internazionali, competendo in tal modo con Abu Dhabi e minacciando così i suoi desideri di egemonia regionale.
Tra la miriade di attori coinvolti oggi nel conflitto libico, è interessante notare come l’attività degli EUA sia sempre rimasta sottotraccia. Mentre si è tentato – a fasi alterne e in maniera non del tutto decisa – di trovare una soluzione politica, l’impronta emiratina nel paese nordafricano si è ampliata. Il 16 marzo scorso, la National Oil Company della Libia (Noc) ha accusato gli EAU di violare il diritto internazionale, esportando carburante per aerei nell’est del paese. Dal 4 aprile 2019, Abu Dhabi ha condotto oltre 850 attacchi con droni e aerei per conto di Haftar. Inoltre, dal gennaio 2020, più di 100 aerei sono stati sospettati di trasportare tonnellate di armi dagli EAU in Cirenaica o in Egitto per poi proseguire via terra in Libia. Lo scorso gennaio i media hanno riportato la notizia del reclutamento di uomini sudanesi, attirati da redditizi lavori di sicurezza negli Emirati per poi essere inviati a combattere in Libia a sostegno di Haftar. In risposta alla copertura aerea che la Turchia garantisce al governo di al-Serraj, gli Emirati, qualche settimana fa, hanno provveduto a schierare sei caccia Mirage 2000 al confine orientale libico, nella base egiziana di Sidi Barrani.
Il rapporto sulla Libia del Consiglio di sicurezza dell’Onu, pubblicato a fine 2019, denunciava come il sostegno in armi e mezzi da parte di Mohammed bin Zayed (Mbz) ad Haftar avesse raggiunto cifre elevatissime: sistemi di difesa Pantisr, elicotteri Super Puma, droni armati Yabhon e Orlan-10, missili Blue Arrow BA-7 e GP6. Inoltre, nel 2018 gli EAU avrebbero fatto sparire 10 miliardi di dollari di fondi libici congelati in Belgio per consegnarli al feldmaresciallo.
Sebbene ufficialmente gli Emirati dichiarino di aver fornito negli ultimi anni, e di continuare a farlo, aiuti umanitari diretti e sostegno al popolo libico (tonnellate di pacchetti alimentari, medicine, attrezzature mediche, tende e coperte), si ritiene che gli attacchi dei droni di Abu Dhabi abbiano ucciso centinaia di persone e abbiano causato immensi danni materiali: un tributo sostenuto solamente dalla popolazione libica.
Eppure né l’Onu né i principali partner degli Emirati – Usa e Francia – hanno fatto molto per frenare questo sostegno di Abu Dhabi ad Haftar. Quando la comunità internazionale ha condannato il coinvolgimento militare straniero in Libia nel 2019, gli EAU avevano in corso significativi accordi di importazione di armi con molti paesi, tra cui Cina, Francia, Russia, Sudafrica, Spagna, Svezia, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti (molti dei quali membri del Consiglio di sicurezza Onu).
Il lungo assedio a Tripoli, che è durato più di un anno e che si è concluso solo pochi giorni fa, non sarebbe stato possibile senza un ampio sostegno sia degli EAU che degli altri partner di Haftar. La stretta vicinanza del Cairo e l’allineamento ideologico di al-Sisi con Mbz è stata una stampella per Haftar, che si è affidato ad entrambi i capi di Stato per ottenere supporto strategico e materiale. Approfittando dell’incapacità dei paesi europei di esprimere una posizione comune sulla questione libica e dell’assenza americana, gli EAU hanno ampliato il proprio ruolo. Il principe ereditario Mbz ha provato (senza riuscirci) a portare dalla sua parte anche il re del Marocco, Mohammed VI, offrendogli vantaggiosi progetti petroliferi e investimenti in cambio del sostegno marocchino ad Haftar.
Attraverso i propri legami bilaterali e di lobbyng, gli Emirati hanno permesso al feldmaresciallo libico di eludere varie volte la condanna pubblica. Il sostegno emiratino sembra offrire uno scudo di impunità ad Haftar sulla scena internazionale. Il coinvolgimento di Russia e Turchia ha attirato, giustamente, molta attenzione e forti critiche. Ankara e Mosca hanno inviato centinaia di mercenari e materiale militare in Libia, subendo non pochi attacchi mediatici, ma il prolungato intervento di Abu Dhabi continua a essere visto e trattato come un elemento “invisibile” del conflitto civile libico. Questo potrebbe essere uno degli ostacoli alla realizzazione di un accordo di lungo termine per porre fine alla guerra libica. Il pregiudizio dei politici occidentali ha protetto gli EAU dal danno di reputazione che avrebbero potuto soffrire a causa delle loro attività in Libia nel corso degli ultimi anni. Uno sforzo diplomatico congiunto dei paesi occidentali potrebbe essere l’unica soluzione per bloccare il sostegno armato di Abu Dhabi ad Haftar.
La relazione reciprocamente vantaggiosa (fino a oggi) tra Haftar e gli Emirati non ha ancora superato la prova del tempo. Da un lato gli Emirati hanno investito troppo, politicamente ed economicamente (subendo qualche critica interna), sull’uomo forte della Cirenaica e abbandonarlo adesso potrebbe essere un brutto colpo di immagine oltre che un forte spreco di denaro. Dall’altro, l’ascesa di un leader militare concorrente nella regione potrebbe porre fine al potere di Haftar, soprattutto nel caso in cui quest’ultimo perdesse il sostegno del popolo libico. Abu Dhabi potrebbe a quel punto indirizzarsi su un nuovo protagonista per raggiungere il proprio obiettivo, ovvero quello di una sempre maggiore influenza nella regione.
Mario Savina