La Cisgiordania e il futuro della questione israelo-palestinese

A partire dal riconoscimento di Washington di Gerusalemme come capitale di Israele nel dicembre 2017, la fine dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e la creazione di uno Stato palestinese sono apparsi come obiettivi sempre meno realizzabili per la comunità internazionale.

Da quel momento in poi, infatti, diversi altri avvenimenti hanno reso chiaro a tutti, e specialmente all’Autorità palestinese di Ramallah, che un’annessione di fatto da parte di Israele resta una prospettiva molto probabile. Il piano di pace proposto dall’amministrazione Trump – presentato lo scorso gennaio e intitolato Peace to Prosperity – può essere visto come un’ulteriore segnale di questa dinamica. La proposta americana, che ha destato forti risentimenti in campo palestinese, prevede l’annessione della Valle del Giordano, della quasi totalità di Gerusalemme e di pressoché tutte le colonie israeliane nei Territori occupati. Ai palestinesi verrebbe concesso uno Stato senza contiguità territoriale, con qualche concessione territoriale nelle vicinanze della Striscia di Gaza e con alcuni aiuti economici. Nessun accenno al ritorno dei rifugiati del 1948, nessun confine con altri Stati che non siano Israele stesso e nessuna forza armata. Una soluzione paragonata da molti allo status dei “Bantustan” in Sudafrica durante l’apartheid.

L’assetto territoriale proposto dal piano dell’amministrazione Trump.
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La reazione palestinese non è stata esattamente una sorpresa. Il presidente Abbas, immediatamente dopo l’annuncio del piano, ha affermato che “non passerà e finirà nel cestino della storia.” Una risposta prevedibile che però si è rivelata tatticamente un disastro. Per quanto il piano apparisse sbilanciato in favore di Israele, esso d’altro canto poteva essere usato come una base di negoziazione, come ricordato da Ugo Tramballi dell’Ispi. L’Autorità di Ramallah così facendo avrebbe forse spiazzato l’opinione pubblica internazionale e fatto emergere più chiaramente i tratti controversi che caratterizzano la destra religiosa israeliana (che probabilmente non avrebbe accettato neanche la costituzione di enclavi palestinesi). Prima di prendere una posizione netta, sarebbe inoltre stato utile per i leader palestinesi attendere anche i risultati delle elezioni americane di novembre. Come altre volte in passato, delle scelte emotivamente comprensibili, ma politicamente avventate da parte della classe dirigente palestinese sembrano aver portato a una situazione più difficile di quanto inizialmente prospettato. È infatti noto che, molto probabilmente entro il 1° di luglio, Israele procederà all’annessione unilaterale di diverse porzioni della Cisgiordania. Il Primo ministro Benjamin Netanyahu aveva già paventato l’annessione della Valle del Giordano lo scorso autunno, ma le sue attuali intenzioni prevedono l’unione del 30% della West Bank con Israele. Il suo partner di coalizione, Benny Gantz, si oppone formalmente ad atti unilaterali, ma non al progetto in sé (pare preferisca procedere più gradualmente).

Ze’ev Zabotinski.
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La rigidità da parte palestinese, legata anche alle già citate condizioni del piano di Washington, potrebbe aumentare sostanzialmente le possibilità di avanzare verso un obiettivo molto caro alla destra israeliana: quello di realizzare un “Grande Israele” – un’ipotesi avanzata fin dagli anni Venti del secolo scorso da Ze’ev Zhabotinski. Questo progetto ambisce alla creazione di un unico Stato ebraico dal mare al fiume Giordano, senza nessuna entità statale palestinese con cui condividere questo – assai ristretto – territorio.

Se questa prospettiva può apparire come la definitiva vittoria di Israele e dell’ideologia sionista, a uno sguardo più attento essa potrebbe invece rivelarsi fatale. Le criticità derivanti da un’annessione unilaterale di una porzione così ampia della Cisgiordania appaiono evidenti a molti, e soprattutto ai militari e ai membri dell’intelligence israeliana. Se, infatti, da un lato il piano di annessione suscita un più che comprensibile moto di repulsione morale in una non piccola parte dell’opinione pubblica israeliana, che ha più volte manifestato il suo dissenso, dall’altro le intenzioni di Netanyahu e della destra religiosa rappresentante gli interessi dei 700mila coloni israeliani presenti nei Territori e a Gerusalemme est pongono pesanti interrogativi di natura pratica. Dal punto di vista della sicurezza, ad esempio, ci si può chiedere quanto senso potrebbe avere relegare i palestinesi in aree ancora più ridotte, svuotando di qualunque legittimità l’Autorità di Ramallah. Secondo il generale in congedo Yossi Kuperwasser, uno dei maggiori sostenitori del piano di annessione, le principali città palestinesi – come Nablus – non verrebbero necessariamente annesse, ma piuttosto lasciate con una sorta di autogoverno.

La città di Ramallah e il muro eretto dalle autorità israeliane.
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Questa prospettiva porrebbe inoltre fine all’ambiguità derivante dall’occupazione. Israele sarebbe costretto a scegliere fra il mantenere i palestinesi cisgiordani – circa due milioni e mezzo di persone – in una condizione di “residenti” di seconda classe o, alla lunga, il concedere loro la cittadinanza israeliana. Entrambe queste opzioni porterebbero a gravi conseguenze. La prima, infatti, sarebbe semplicemente una conferma dello status attuale degli abitanti non ebrei dei Territori, e difficilmente verrebbe accettata pacificamente sia da questi che dalla comunità regionale e internazionale. La seconda minerebbe profondamente la posizione maggioritaria della componente ebraica della popolazione di Israele.

Dunque, come riassunto efficacemente dall’ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti Sallai Meridor, “se continuiamo ad agire in modo tale da rendere impossibile la nostra separazione dai palestinesi, potremmo minare o distruggere l’essenza stessa dell’intero sogno sionista.” Ovvero uno Stato ebraico e democratico, l’esatto opposto di quanto si realizzerebbe con un’annessione, sia che Israele scelga di mantenere i palestinesi in uno stato di subordinazione politica sia che conceda loro la cittadinanza e tutti i diritti legati ad essa.

Non è un caso che Ben Gurion – il primo capo di governo di Israele – si adoperò tanto per l’ottenimento di uno Stato ebraico e per una partizione politica fra ebrei israeliani e palestinesi. In un’intervista del 1968, Ben-Gurion dichiarò anche che sarebbe stato molto meglio per Israele restituire immediatamente tutti i territori conquistati solo l’anno prima. In tutti questi anni l’occupazione militare ha, infatti, solo rimandato quella che appare come una resa dei conti finale fra la volontà israeliana di controllo sui palestinesi per ragioni di sicurezza e l’impossibilità di mantenere questi in una sorta di limbo politico permanente. La prospettiva di uno Stato unico per entrambi i popoli appare dunque molto più vicina, mentre la “soluzione a due Stati”, promossa a partire degli anni Novanta con il Processo di Oslo, sembra al momento destinata a tramontare.

Tenendo conto del contesto regionale, un tale sviluppo metterebbe ulteriormente a rischio la sicurezza dello Stato di Israele anche in termini di relazioni con i suoi vicini. La reazione della Giordania -un partner chiave di Tel Aviv dove però la popolazione di origine palestinese rappresenta la maggioranza – non si è fatta attendere: il sovrano in carica, re Abdullah II, ha avvisato che un “pesante conflitto” potrebbe scatenarsi in caso di annessione.

Dunque, per quanto paradossale tutto ciò possa apparire, in fin dei conti la causa palestinese potrebbe perfino acquistare maggior forza proprio grazie a Netanyahu e ai coloni. Un’annessione infatti, come affermato da Gideon Levy, comporterebbe quantomeno la fine dello status quo attuale, dell’effimera Autorità palestinese e delle ambiguità sottostanti a un regime di occupazione e di insediamenti che si trascina ormai da 53 anni. Secondo il giornalista israeliano “l’annessione è, dopo tutto, più reversibile degli insediamenti: la politica d’annessione potrebbe, un giorno, trasformarsi in democrazia.”

Francesco Felle