Turchia e Qatar condividono un solido partenariato che li vede posizionati dalla stessa parte in una serie di controversie politiche e militari sia nel Medio Oriente che nel Nord Africa. I due paesi hanno ad esempio posizioni simili a riguardo della questione siriana e nei confronti di Israele, sostengono a livello ideologico-politico la Fratellanza musulmana e si oppongono al regime di Abdel Fattah al-Sisi in Egitto, accusato dagli islamisti di aver rovesciato nel 2013 il governo di Mohammed Morsi. I governi turco e qatariota hanno posizioni simili anche per quanto riguarda la crisi libica: entrambi sostengono il Governo di accordo nazionale (Gna), guidato da Fayez al-Serraj e riconosciuto anche dalle Nazioni unite, ma sostenuto anche da diverse milizie islamiste legate alla Fratellanza musulmana.
I legami diplomatici tra Ankara e Doha risalgono al periodo ottomano, sebbene l’attuale intesa si sia rinvigorita grazie a una serie di sviluppi ben più recenti: in primo luogo, con la salita al potere nel 2002 del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) guidato da Recep Tayyip Erdoğan in Turchia e, in secondo luogo, con lo scoppio delle primavere arabe. I due governi condividono un’affinità con l’islamismo che plasma il loro impegno e i loro interessi nell’area. Il collante tra Turchia e Qatar è la Fratellanza musulmana. L’Akp di Erdoğan ha rafforzato le relazioni con i Fratelli musulmani da quando alle elezioni turche del 2007 ha ottenuto la maggioranza dei voti, grazie anche al sostegno dell’organizzazione islamista. All’interno del Qatar, ufficialmente uno Stato salafita, i movimenti islamisti non hanno tanto spazio per operare. Doha ha cooptato le correnti islamiste come la Fratellanza e le ha indirizzate all’estero, promuovendo energicamente l’ideologia e gli interessi dell’organizzazione fuori dai propri confini. Tale politica si scontra con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, che hanno designato la Fratellanza come un’organizzazione terroristica alla luce della minaccia che questa rappresenta sia in patria che all’estero. I timori dei governi di Riad e Abu Dhabi derivano soprattutto dal loro desiderio di conservare il controllo assoluto sugli affari religiosi e sulla politica interna, e in quest’ottica la presenza e la diffusione di un movimento politico-religioso transnazionale come la Fratellanza viene considerata un serio pericolo.
Con la condivisione di molti interessi e valori, la partnership turco-qatariota è entrata in una nuova fase alla fine del 2014 grazie alla firma di un importante accordo militare. Con l’intesa è stata spianata la strada per la creazione di una base militare turca nel territorio del Qatar, e da allora le forze armate di entrambi i paesi conducono operazioni congiunte. A Doha – viste le dimensioni territoriali dell’emirato e del proprio apparato militare – serve un’alleanza con un paese come la Turchia, che possa essere utilizzata come deterrente contro le minacce regionali che arrivano dalle altre monarchie del Golfo.
Le relazioni economiche sono anch’esse in fase di espansione. Dal punto di vista finanziario, il governo di Ankara appare come il beneficiario, mentre quello di Doha svolge il ruolo di fornitore. Gli investimenti del Qatar hanno creato una “rete di sicurezza” per il governo di Erdoğan, dopo che le politiche turche avviate nella regione hanno portato all’isolamento della Turchia e alla perdita di importanti partner economici. Questo legame tra Ankara e Doha si è maggiormente rafforzato dopo la crisi diplomatica del Golfo nel 2017. Con l’accusa di sostenere il jihadismo in Siria e gli islamisti radicali legati alla Fratellanza musulmana nonché di mantenere solidi rapporti con l’Iran, il Qatar ha subito un isolamento diplomatico ed economico perpetrato da EAU, Arabia Saudita, Bahrein ed Egitto. La Turchia di Erdoğan ha invece sempre sostenuto politicamente ed economicamente il Qatar in seguito all’isolamento, mentre Doha appoggiava le operazioni militari turche in Siria contro le milizie curde. Dopo il tentato golpe turco del 2016, l’Emiro qatariota è stato uno dei primi a chiamare Erdoğan, esprimendogli il proprio sostegno. Inoltre, nel 2018 il Qatar ha annunciato l’investimento in Turchia di 15 miliardi di dollari – in un periodo in cui l’economia turca attraversava una fase turbolenta causata dalla crisi della lira turca e dal braccio di ferro sui dazi con gli USA.
La cooperazione tra Ankara e Doha si estende a una varietà di settori, tra cui la difesa, l’energia, le telecomunicazioni e il settore bancario. Secondo quanto emerge dai dati, le esportazioni turche in Qatar sono triplicate dal 2015 al 2019, passando da circa 420 milioni di dollari a 1,3 miliardi. Le importazioni sono invece variate molto meno: nel 2015 ammontavano a circa 360 milioni di dollari, mentre nel 2019 si sono attestate sui 310 milioni. Inoltre si stima che le imprese turche abbiano attività in Qatar per un valore di circa 17 miliardi, mentre Doha ha investimenti in Turchia per circa 22 miliardi. Cifre consistenti e che sembrano destinate ad aumentare nel tempo.
Lo scorso 2 luglio, il presidente turco si è recato a Doha, dove ha incontrato l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani. L’obiettivo di Erdoğan era quello di chiedere ulteriori aiuti economici all’alleato del Golfo. Le discussioni si sarebbero focalizzate soprattutto sul rafforzamento della cooperazione tra i due Stati e sulla crisi in Libia, dove come già accennato entrambi i paesi sostengono al-Serraj e il Gna. Ankara mira allo stanziamento di sempre più fondi da parte di Doha per le campagne militari turche in Libia e in Siria. A tal proposito, sembra che il sostegno qatariota in materia d’intelligence, di logistica e di supporto economico abbia offerto alla Turchia la possibilità di lanciare non solo le operazioni nei due conflitti dell’area mediterranea, ma anche di avviare e continuare attività militari in Yemen, Somalia e Africa del Nordest. Questo dispiegamento di forza militare sullo scacchiere del Mediterraneo allargato sembra confermare le ambizioni attribuite a Erdoğan di voler estendere l’influenza turca a livello regionale sul territorio che costituiva a suo tempo l’Impero ottomano.
La Libia è stata uno dei campi di battaglia dove è iniziata a manifestarsi chiaramente la rivalità tra l’asse turco-qatariota e quello emiro-saudita-egiziano. Durante la rivoluzione del 2011 il Qatar ha sostenuto l’intervento della Nato con l’invio di aerei militari ed è stato il primo paese arabo a riconoscere ufficialmente i ribelli libici. Le forze militari di Doha erano presenti in ogni regione del paese nordafricano. La generosità del Qatar nel foraggiare la rivoluzione è stata così apprezzata dai libici che nel giorno della liberazione di Bengasi accanto alla bandiera libica sventolava anche quella qatariota. Non è tuttavia ben chiaro se il sostegno ai ribelli sia stato un bene o un male per Doha. Dal 2011 a oggi i tentativi del Qatar di consolidare la propria influenza in Libia si sono scontrati con la miriade di milizie islamiste che dalla caduta di Gheddafi hanno destabilizzato il paese nordafricano.
Il sostegno del Qatar alla causa islamista, soprattutto a quella dei Fratelli musulmani, e per estensione alla Turchia, è fra l’altro da collegare al libico Ali al-Sallabi. Storico, studioso religioso e politico islamista, al-Sallabi, dopo essere finito in prigione sotto il regime di Gheddafi, ha lasciato la Libia per trasferirsi prima in Arabia Saudita, poi in Sudan e infine in Qatar, dove ha studiato con Yusuf al-Qaradawi, guida spirituale della Fratellanza musulmana. Vicino alla famiglia reale qatariota, al-Sallabi – insieme a suo fratello, Ismail Mohammed al-Sallabi, uno dei capi delle Brigate di difesa di Bengasi – è stato utilizzato come tramite durante la prima fase della rivolta libica per far arrivare nel paese nordafricano gli aiuti logistici e militari di Doha. Sallabi ha citato più volte il governo turco guidato all’Akp come esempio da seguire per uno stato islamico moderato. Inoltre, il libico è un frequente visitatore di Istanbul, e nei mesi precedenti ha incontrato uno dei principali consiglieri di Erdogan, Yasin Aktay.
La posizione ufficiale del governo qatatiota in Libia è sempre stata quella di sostenere il Gna. L’emiro al-Thani ha dichiarato in più occasioni la sua disponibilità a fornire tutto il sostegno necessario in campo economico e di sicurezza al governo di Tripoli. In effetti, lo scorso dicembre, in coincidenza con l’afflusso di mercenari siriani inviati da Ankara nella capitale libica, Doha ha annunciato che avrebbe raddoppiato gli sforzi per permettere alla Libia di uscire dalla crisi. Di conseguenza, al-Serraj e al-Thani il 15 dicembre scorso si sono incontrati proprio nella capitale qatariota per approfondire tutti i livelli di cooperazione tra i due paesi. Più recentemente, al-Serraj ha incontrato a Istanbul il ministro degli Esteri qatariota Mohammed bin Abdurrahman al-Thani. Al centro del colloquio, oltre al rafforzamento delle relazioni bilaterali, c’era la risoluzione del conflitto che vede impegnato il Gna contro l’esercito ribelle di Khalifa Haftar.
L’attivismo della Turchia e del Qatar in Libia è solo un aspetto della più ampia competizione tra i principali attori regionali per l’influenza nel Mediterraneo orientale e nei paesi nordafricani. Una rivalità regionale che ha visto Ankara tentare di uscire dalla complicata situazione di progressivo isolamento – se si esclude l’asse col Qatar e col Gna di Tripoli – in cui si è trovata anche a causa di politiche regionali poco accorte e dalla forte connotazione ideologica. L’ambizione di giocare un ruolo regionale da protagonista, unita alla volontà di espandere la propria influenza seguendo un’aspirazione egemonica, ha portato Erdoğan a contrastare l’influenza degli altri attori intervenendo in numerosi teatri di crisi.
In Libia, Turchia e Qatar hanno per una serie di ragioni un notevole interesse nella vittoria di al-Serraj. In primo luogo, per mantenere l’accordo firmato a fine 2019 tra Ankara e Gna che delimita i nuovi confini marittimi che attraversano le acque territoriali greche. Tale accordo ha alla base la volontà di contrastare la realizzazione del gasdotto EastMed nelle acque del Mediterraneo orientale. La costruzione di questo gasdotto di 1800km – fortemente sostenuto dai governi di Abu Dhabi e dal Cairo – potrebbe infatti minacciare gli interessi energetici di Turchia e Qatar. In secondo luogo, per recuperare quei progetti miliardari – si stima siano circa 20 miliardi di dollari – che le imprese di costruzioni turche avevano intrapreso in Libia prima dello scoppio del conflitto. Infine, sia la Turchia che il Qatar – così come tanti altri attori internazionali – ambiscono a mettere le mani sulla ricostruzione di uno Stato dalle ingenti ricchezze di idrocarburi.
Tuttavia, altrettanto forti sono gli interessi dei rivali di Ankara e Doha, in primis Egitto ed EAU – anche se fronte anti-Turchia/Qatar rimane fragile nel Mediterraneo. Una vittoria di Haftar vanificherebbe gli sforzi di Ankara che, nonostante le divergenze di posizione, guarda alla Russia – anch’essa sostenitrice dell’oppositore del Gna – come interlocutore chiave con cui ricercare una soluzione alla crisi. Per i sostenitori di Haftar l’espansione dell’influenza turca nel Mediterraneo e la permanenza degli islamisti nel governo di Tripoli non è accettabile.
La dimensione militare dell’accordo tra la Turchia e il Gna ha permesso ad Ankara di gettare il suo peso dietro il governo di al-Serraj, fornendo a Tripoli attrezzature militari, addestramento, droni e personale militare. Il sostegno militare della Turchia, insieme a quello finanziario del Qatar, ha in effetti invertito l’equilibrio di potenza sul terreno a favore del Gna, in una crisi che si è gradualmente trasformata in una guerra per procura tra attori regionali e non solo.
Il coinvolgimento di così tante potenze in Libia mostra chiaramente che la questione energetica è solo una parte di una partita più grande per l’influenza geopolitica nel Mediterraneo. Ad oggi, sembra che la Turchia stia riuscendo nel suo intento di espandere la propria influenza in Libia e che l’asse col Qatar sia solido e resistente agli shock esterni. Tuttavia bisogna chiedersi per quanto tempo tali sforzi economici e militari siano sostenibili, vista la recessione che sta colpendo l’intero pianeta – con il conseguente calo della domanda energetica che va a colpire pesantemente paesi produttori di idrocarburi come il Qatar – e considerata la crisi economica e finanziaria che attanaglia la Turchia. In tutto ciò nelle scorse settimane Erdoğan ha lanciato un altro messaggio indirizzato non solo ai rivali regionali ma all’intero Occidente: la riconversione di Santa Sofia in moschea e la conseguente rivendicazione di Ankara al ruolo di leader del mondo islamico.
Mario Savina
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