Dopo anni di forte tensione, i negoziati internazionali relativi al programma nucleare iraniano hanno recentemente vissuto un momento di ripresa, anche se la situazione resta estremamente delicata e incerta. Lo scorso 29 novembre i rappresentanti iraniani, europei (francesi, britannici e tedeschi, affiancati anche dal negoziatore capo dell’Ue, Enrique Mora), russi e cinesi si sono incontrati a Vienna, in Austria, per cercare di ripristinare una cornice di stabilità e cooperazione. I negoziati si sono riaperti all’insegna di un cauto ottimismo, ma sono stati sospesi dopo pochi giorni. Nonostante questa battuta di arresto, un secondo giro di incontri è iniziato, sempre nella capitale austriaca, lo scorso 9 dicembre.
La questione del programma nucleare iraniano ha molte sfaccettature e i dossier presenti sul tavolo negoziale sono numerosi. Il nodo più difficile da sciogliere in questa sfida è tuttavia rappresentato dalla relazione tra Washington e Teheran, e il cambio di leadership che ha interessato entrambe le capitali negli ultimi mesi può costituire tanto un’opportunità di riavvicinamento quanto un rischio di ulteriore aumento della tensione. A dimostrare la complessità di questa relazione, si può notare che al momento gli USA non stanno partecipando direttamente ai negoziati, pur avendo rappresentanti a Vienna in stretto contatto con i loro omologhi europei, russi e cinesi.
La questione del programma nucleare di Teheran costituisce ormai da anni una delle sfide di sicurezza più spinose per gli Stati Uniti e i loro alleati europei e mediorientali. L’Iran è stato uno dei firmatari originali del Trattato di non-proliferazione nucleare (o Tnp), e anche se si può sostenere che il comportamento di Teheran non è sempre stato conforme allo spirito del trattato, non è mai stata certificata a livello ufficiale alcuna violazione. Fin dai tempi dello Shah, tuttavia, l’Iran ha perseguito un programma nucleare – ufficialmente a scopi civili e compatibili con il trattato di non-proliferazione – che ha destato molte preoccupazioni a Washington, e in tempi più recenti i servizi di intelligence statunitensi e alleati hanno costantemente segnalato prove ed espresso serie preoccupazioni relative al rischio che l’Iran possa perseguire sotto copertura anche un programma nucleare militare. È in ogni caso importante notare che anche in assenza di una dimensione puramente militare, un programma nucleare civile sviluppato in maniera completa e autonoma, può comunque avere una dimensione strategica, in quanto potrebbe in futuro permettere a uno Stato di varcare in breve tempo la “soglia” che porta allo sviluppo di armi atomiche.
Le relazioni fra Stati Uniti e Iran sono diventate fortemente conflittuali a partire dalla rivoluzione iraniana del 1979. La tensione fra Washington e Teheran ha inoltre iniziato a prendere una svolta marcatamente più bellicosa nel corso degli anni Novanta del Ventesimo secolo, quando l’amministrazione guidata da Bill Clinton ha imposto un regime di sanzioni economiche contro il regime di Teheran – una politica che è poi stata adottata anche da altri membri della comunità internazionale come strumento di pressione per scoraggiare il programma nucleare di Teheran.
Questa tensione aveva raggiunto picchi estremamente allarmanti durante l’amministrazione di George W. Bush, nei primi anni Duemila, e anche all’inizio dell’amministrazione guidata da Barack Obama i rapporti tra Stati Uniti e Iran erano stati caratterizzati da forte conflittualità. La situazione era però migliorata significativamente nel luglio 2015 con la firma del Joint Comprehensive Plan of Action (o Jcpoa), un accordo volto a stabilire un sistema di supervisione internazionale del programma nucleare iraniano in cambio di un progressivo alleggerimento delle sanzioni contro l’Iran. Questo trattato rappresenta ancora oggi un punto di riferimento internazionale per quanto riguarda la questione del programma nucleare iraniano.
La vittoria di Donald Trump nel 2016 ha creato tuttavia le condizioni per un nuovo peggioramento dei rapporti tra Washington e Teheran. Nel maggio 2018 l’amministrazione Trump ha infatti deciso di terminare la partecipazione statunitense al trattato e ripristinare il regime di sanzioni, adottando una politica di “massima pressione” contro il regime iraniano. Questa decisione è stata presa nonostante sia i maggiori esponenti dell’apparato di sicurezza statunitense che le principali istituzioni internazionali coinvolte avessero all’epoca certificato il rispetto del trattato da parte di Teheran. In risposta a questa svolta assertiva, l’Iran ha progressivamente iniziato a ignorare gli impegni presi in base al trattato, e in particolare ha ripreso le attività di arricchimento dell’uranio – un tipo di attività particolarmente importante tanto ai fini civili che militari e che era stata sottoposta a forti limitazioni.
La vittoria di Joe Biden nelle elezioni presidenziali USA del novembre 2020 ha creato l’opportunità di ripristinare la cornice creata nel 2015 – quando Biden era vicepresidente di Obama. I negoziati sono ripresi a inizio 2021, ma sono poi stati sospesi in vista delle elezioni presidenziali iraniane di giugno. Le elezioni iraniane hanno tuttavia portato alla vittoria Ebrahim Raisi e in generale a un consolidamento del predominio dei conservatori e dei fautori di una linea dura, uno sviluppo che – come abbiamo potuto osservare in questi giorni – ha irrigidito la posizione negoziale di Teheran.
Per capire il dilemma in cui si trovano i negoziatori di Vienna e l’amministrazione Biden è importante avere un’idea delle diverse prospettive circa le implicazioni del programma nucleare iraniano. Partendo da un punto di vista che gli esperti di relazioni internazionali definiscono “realista” si può sostenere che in effetti un Iran dotato di un arsenale atomico potrebbe non essere necessariamente un problema, e anzi potrebbe costituire un fattore di stabilità regionale. Paradossalmente, la potenza distruttiva delle armi nucleari facilità infatti la deterrenza e scoraggia i conflitti. Così come le armi nucleari hanno costretto gli Stati Uniti e l’Unione sovietica ad evitare uno scontro diretto durante la Guerra fredda, un deterrente nucleare iraniano potrebbe costringere l’Iran e i suoi vicini – in particolare i paesi arabi del Golfo e Israele (che non ha sottoscritto il Tnp e ha un arsenale nucleare, anche se non ufficialmente dichiarato) ad evitare scontri. Questa lettura della questione del nucleare iraniano si basa tuttavia su fragili premesse. I leader di una potenza nucleare devono essere costantemente razionali e non devono verificarsi errori di calcolo nelle relazioni tra potenze atomiche. La crisi di Cuba del 1962 è una testimonianza evidente di quanto rischioso possa essere questo equilibrio basato sul terrore reciproco. L’eventualità di una bomba atomica iraniana potrebbe inoltre innescare un’ulteriore spirale di proliferazione nucleare in Medio Oriente – una regione già fortemente instabile e dilaniata dai conflitti. Tutto ciò spiega gli sforzi costanti da parte della comunità internazionale di ridurre e possibilmente eliminare le armi atomiche in generale, e nel caso specifico di limitare il programma nucleare di Teheran e garantirne le finalità civili.
Anche se si può dire che esiste un consenso in favore all’idea che l’Iran non entri in possesso di armi atomiche, resta molto difficile e controverso stabilire a quali condizioni si può sostenere che il programma nucleare iraniano non costituisca un pericolo. Questo problema a sua volta ci impone di stabilire se lo stesso regime attualmente al potere in Iran non rappresenti di per sé una minaccia. È questo il dilemma che gli statisti americani e i loro alleati si trovano a fronteggiare da anni.
L’amministrazione Obama, che ha negoziato e firmato il Jcpoa, ha adottato un approccio fortemente pragmatico. L’accordo – stipulato nell’estate 2015 dall’Iran, gli USA, la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, la Russia e la Cina – si concentra infatti solo sugli aspetti tecnici del programma nucleare iraniano. All’epoca della firma, il trattato stabiliva un regime di controlli internazionali tali da rendere impossibile per l’Iran lo sviluppo di una bomba atomica per almeno 10-15 anni. Il trattato del 2015 rappresenta tuttavia più una “transazione” che una soluzione di lungo periodo. L’accordo ha infatti una durata limitata e non considera altri aspetti che riguardano la posizione strategica e le ambizioni geopolitiche dell’Iran, come il programma missilistico di Teheran o il sostegno da parte regime in favore di varie milizie operanti in Medio Oriente – e in particolare in Iraq, Libano e Siria – spesso considerate come gruppi terroristi. Il Jcpoa crea insomma di sicuro uno stato di tregua su un dossier fondamentale e offre al tempo stesso la possibilità di negoziati più proficui su altri fronti, ma non fornisce garanzie in tal senso.
L’amministrazione Trump ha ritenuto questo approccio insufficiente, e ha dunque deciso di ritirare gli USA dal Jcpoa, optando invece per una linea più dura: la “massima pressione”. Sembra ragionevole pensare che parte dell’amministrazione – incluso lo stesso Donald Trump – volesse così forzare i leader iraniani a tornare al tavolo negoziale per firmare un accordo più vantaggioso. Tuttavia, un gruppo influente di consiglieri di Trump – incluso il segretario di Stato Mike Pompeo – sembrava in realtà poco interessato a negoziare e propenso invece a favorire un’escalation che avrebbe potuto portare anche a un “cambio di regime” a Teheran. Questo approccio ha dei sostenitori anche tra gli alleati regionali di Washington, in particolare Israele e alcuni paesi arabi del Golfo. Il problema sta tuttavia nel fatto che un’effettiva politica di “massima pressione” implicherebbe anche un’opzione militare, e paventa dunque il rischio di un conflitto quasi sicuramente ancora più grave di quello che ha impantanato gli USA in Iraq fra il 2003 e il 2011 – e di cui ancora si osservano le conseguenze. La strategia di “massima pressione” è dunque molto rischiosa e difficilmente sostenibile, e ha paradossalmente portato a una situazione in cui l’Iran continua ad avanzare le sue ambizioni di influenza regionale, ma non rispetta più neanche le disposizioni del Jcpoa che, per quanto imperfette, garantivano stabilità e maggiore trasparenza almeno in relazione al programma nucleare.
Anche se il trattato del 2015 è in effetti ancora in vigore, né i leader di Washington né quelli di Teheran sembrano intenzionati a spostare semplicemente indietro le lancette dell’orologio. Come già osservato, l’elezione di Raisi in Iran lo scorso giugno ha portato a una linea negoziale più dura e alla richiesta di maggiori garanzie americane circa il rispetto del trattato. L’amministrazione Biden ha recentemente dichiarato l’intenzione di non abbandonare di nuovo l’accordo se non in caso di violazioni da parte del governo di Teheran. Tuttavia sembra che il presidente americano e i suoi consiglieri puntino a loro volta a rendere l’accordo “più forte e duraturo”. Questa linea, seppur più pragmatica di quella dell’amministrazione Trump, riconosce almeno in parte il desiderio di rinegoziare l’accordo, il che pone in realtà degli ostacoli ai negoziati, e in un certo senso aumenta i rischi che l’Iran continui a perseguire il suo programma nucleare al di fuori delle restrizioni internazionali. Allo stesso tempo, Biden e i suoi consiglieri hanno anche valutato opzioni militari in caso di fallimento dei negoziati, anche se l’eventualità di un nuovo conflitto in Medio Oriente è forse lo scenario peggiore per tutti gli attori coinvolti.
Questi sono dunque i dilemmi che si trovano a fronteggiare l’amministrazione Biden e i partner degli Stati Uniti – affiancati in qualche modo anche dalla Russia e dalla Cina, che seppur in competizione con l’Occidente, condividono l’obiettivo di evitare che le armi atomiche si diffondano in Medio Oriente. Nessuno – né a Washington né nelle altre capitali coinvolte nei negoziati – sembra volere una nuova guerra in Medio Oriente. I principali attori coinvolti concordano a riguardo della necessità di evitare che l’Iran sviluppi un arsenale atomico. I leader iraniani comprendono la necessità di uscire dalla morsa dell’isolamento internazionale e delle sanzioni economiche. Eppure l’incertezza, i fattori ideologici e le necessità di politica interna rendono estremamente difficile recuperare il pragmatismo che aveva permesso la svolta del 2015.
Diego Pagliarulo