Sebbene solo recentemente si sia tornato a parlare dell’interesse di Mosca per il Mediterraneo, esso è in realtà un caposaldo più che secolare della politica estera russa. Da una prospettiva di lungo periodo, infatti, l’impero russo, prima, e l’Unione Sovietica poi, hanno avuto un forte interesse verso quest’area strategica. Il ventennio che separa il crollo dell’Urss dal coinvolgimento militare di Mosca a fianco del regime di Bashar al-Assad può essere quindi interpretato più come un’eccezione storica che come una tendenza geopolitica strutturale della regione euromediterranea. Questo ritorno della Russia è stato sicuramente favorito dall’ascesa al potere di Vladimir Putin, il quale ha adottato una politica estera molto aggressiva, combinata ad alti investimenti nel settore militare. Lo scoppio della guerra civile siriana si è rivelata quindi l’opportunità perfetta per permettere a Mosca di tornare a proiettare la propria forza militare in Medio Oriente.
La scelta di adottare questo approccio interventista da parte dei policymaker russi si basa su una molteplicità di motivazioni politiche e militari. In primo luogo, la decisione della Russia di prendere parte alla guerra civile è stata giustificata dalla paura che il terrorismo islamico, rappresentato in particolar modo dall’Isis, potesse proliferare fino ai suoi confini meridionali. A seguito dello scoppio della guerra civile, infatti, il regime di Assad è collassato, permettendo la nascita di una serie di centri di potere in diretta competizione per assicurarsi il controllo del paese. Tra questi vanno menzionati certamente i gruppi ribelli attivi contro il presidente, le forze leali al governo di Damasco e, soprattutto, le milizie dello Stato islamico che hanno posto una minaccia vitale alla stabilità dell’area.
In secondo luogo, l’intervento russo in Siria va interpretato alla luce delle attuali rivalità con alcuni paesi occidentali, tra tutti gli Stati Uniti. In anni recenti, le principali personalità operanti nell’ambito della difesa russa hanno percepito la sponda meridionale del proprio paese come una zona debole nel caso di un confronto diretto con le truppe occidentali. Per questo motivo, la decisione di scendere in campo al fianco delle forze di Assad andrebbe anche interpretata non come una scelta offensiva, quanto piuttosto come il tentativo – per ora riuscito – di evitare che le forze occidentali possano dominare in maniera esclusiva il Mar Mediterraneo. Ciò è molto importante se si considerano i limiti geografici che influenzano le ambizioni di Mosca nella regione. La Russia, infatti, non possiede uno sbocco diretto in quest’area ed è pertanto costretta a fare affidamento sul duplice passaggio attraverso gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli. Questa situazione, come vedremo in seguito, è stata mitigata dalla presenza stabile di flotte russe nel porto siriano di Tartus, in particolar modo a partire dal 2015.
In terzo luogo, l’intervento russo nella guerra civile è stato giustificato dal timore che, in caso di un mancato coinvolgimento militare, Mosca non avrebbe potuto esercitare una solida influenza sulla ricostruzione politica ed economica del paese. Si è già fatto riferimento alla frammentazione della Siria in diversi centri di potere, spesso influenzati direttamente da alcune potenze straniere. Tra tutti, va menzionata la presenza delle forze di Hezbollah, stanziate principalmente nella zona di confine con il Libano e guidate informalmente dall’Iran. Sebbene la Russia sia entrata nel conflitto a fianco di Assad – e quindi anche della Repubblica Islamica e delle sue milizie proxy – in futuro potranno sorgere notevoli complicazioni nel rapporto tra Mosca e Teheran, soprattutto a causa del tentativo di entrambi i paesi di garantirsi i numerosi contratti riguardanti la ricostruzione delle infrastrutture siriane. In questo quadro, il ruolo della Turchia e degli Stati Uniti risulta essere ancora più critico. Nel primo caso, Ankara ha supportato una fazione opposta a quella di Mosca e i rapporti bilaterali tra questi due paesi si sono incrinati in anni recenti per via delle posizioni opposte su alcuni dossier chiave della regione, tra cui la guerra civile libica e il conflitto del Nagorno Karabakh. Nel secondo caso, la questione va inquadrata all’interno della più ampia rivalità globale tra Russia e Stati Uniti che non si esaurisce solamente nel teatro siriano, al quale, peraltro, Washington ha partecipato supportando le Forze Democratiche Siriane ostili al regime di Assad, ma anche in una serie di dossier legati alla politica interna di entrambi i paesi, come testimoniato dal caso Russiagate emerso durante la presidenza Trump. È comunque certo che gli Stati Uniti in anni recenti hanno alleggerito la loro presenza navale nelle acque del Mediterraneo Orientale e ciò ha permesso un aumento dell’influenza russa nella medesima area.
Ad ogni modo, dopo un decennio dallo scoppio delle Primavere arabe è possibile formulare una prima valutazione riguardo l’intervento russo in Siria. Innanzitutto, Mosca ha ottenuto una serie di vantaggi economici che hanno in parte bilanciato le spese sostenute per entrare in guerra – che nel 2016 ammontavano a 483 milioni di dollari. Come mostrato nella tabella sottostante, nel periodo 2011-2014 la vendita di armi al regime di Assad ha raggiunto la cifra di 1,4 miliardi di dollari. Un dato, questo, calato drasticamente a partire dal 2015 con l’entrata della Russia nel conflitto. Inoltre, nel 2019 il parlamento siriano ha conferito a due compagnie russe, la Mercury LLC e la Velada LLC, il diritto esclusivo di esplorare ed estrarre gas nella zona economica esclusiva del paese. Questa scelta permetterà a Mosca di aumentare il proprio peso nella competizione energetica globale con un nuovo ruolo nel Mediterraneo orientale. Altrettanto importanti sono i contratti siglati dalla Siria con alcune compagnie russe per la ricostruzione delle sue principali infrastrutture andate distrutte durante il conflitto.
È opportuno, però, sottolineare che in una valutazione di ampio respiro, i vantaggi economici ottenuti giochino un ruolo solamente parziale. Essi devono, infatti, essere bilanciati con i numerosi obiettivi strategici, raggiunti o meno, che la Russia ha cercato di perseguire in Siria. Da un lato, l’intervento russo ha avuto successo nel garantire la sopravvivenza al regime di Assad, cambiando l’inerzia della guerra civile. Ciò ha inoltre contribuito a sconfiggere, almeno nel teatro siriano, lo Stato islamico, recentemente riorganizzatosi nel Sahel e in Africa Orientale. Infine, la Russia ha incrementato notevolmente il suo ruolo di prestigio in Medio Oriente e nel Mediterraneo, soprattutto in virtù dei rapporti bilaterali rafforzati con Israele, Egitto e alcuni Stati arabi del Golfo.
Dall’altro lato, è necessario menzionare gli obiettivi russi che non sono stati propriamente raggiunti. Innanzitutto, nonostante il prestigio ritrovato, Mosca non ha per ora eguagliato il primato statunitense nella regione, come testimoniato dal ruolo rivestito da Washington nella firma degli Accordi di Abramo. Inoltre, i policymaker russi sembrano non essere stati in grado di capitalizzare l’influenza raggiunta in Medio Oriente. In questi anni, infatti, il dialogo con l’Europa non è progredito in maniera significativa e le sanzioni stabilite a seguito dall’invasione della Crimea nel 2014 continuano a danneggiare l’economia russa. Infine, la già citata questione delle influenze esterne in Siria continuerà a proiettare molte incertezze nelle scelte diplomatiche russe, almeno finché lo scenario politico post-guerra civile non sarà delineato con maggior chiarezza.
In conclusione, bilanciando benefici ottenuti e costi sostenuti, si può considerare l’intervento russo in Siria un successo strategico nazionale. Rispetto ad un decennio fa, il paese può infatti contare su una presenza navale più stabile nel Mediterraneo, una posizione diplomatica più prestigiosa e un crescente ruolo economico nella regione, anche se quest’ultimo non sembra fare affidamento sugli strumenti tradizionali, come commercio e investimenti bilaterali, quanto piuttosto sulla vendita di armi, sul riciclaggio di denaro e sull’export di gas e petrolio. In ultima istanza, però, l’influenza di Mosca sul paese levantino sarà indissolubilmente legata al futuro politico di Assad. Se il presidente siriano manterrà la sua attuale posizione anche dopo la fine della guerra civile, la scommessa russa si rivelerà probabilmente vincente. In caso contrario, esiste il rischio che i numerosi vantaggi ottenuti possano andare perduti a causa del nuovo sistema di alleanza che i futuri governi di Damasco decideranno di instaurare nella regione, magari spostando il baricentro diplomatico del paese verso Occidente.
Elia Preto Martini