Mentre l’Europa condanna l’invasione militare dell’Ucraina e dà il via ad una dura politica sanzionatoria ai danni di Mosca, nei Balcani occidentali la Serbia di Vučić fa parlare di sé. Candidata all’ingresso nell’Unione europea ma legata anche alla Russia da un solido rapporto di amicizia e cooperazione, ad oggi la Repubblica serba non si è unita alle sanzioni europee in quanto «non allineate agli interessi nazionali».
La posta in gioco per Belgrado, in effetti, è elevata e tocca diversi ambiti. In primo luogo, si possono citare questioni legate alla sicurezza energetica. Se è vero che il carbone – di cui la Serbia è naturalmente ricca – è ancora oggi la principale risorsa utilizzata nel paese, è altrettanto vero che l’aumento del consumo di gas ha rafforzato notevolmente il ruolo di Mosca nel panorama energetico serbo. Basti pensare alla quantità di gas che la società russa Gazprom ha fornito al paese balcanico negli ultimi due anni: 1.35 miliardi di metri cubi solo nel 2020, quantità più che raddoppiata nel 2021 grazie all’entrata in funzione del gasdotto Balkan Stream – che transita proprio attraverso la Serbia. Se poi consideriamo che Belgrado continua a ricevere gas al prezzo di favore di 270 dollari ogni 1000 metri cubi (mentre il resto d’Europa paga circa il 60% in più per le risorse importate da Mosca), è facile comprendere l’importanza che il presidente serbo Vučić attribuisce alla partnership energetica con il Cremlino. Non meno rilevante è il ruolo della Russia nella controversa partita tra Serbia e Kosovo. Dalla condanna dell’intervento militare della Nato contro la Repubblica federale di Jugoslavia nel ‘99 al rifiuto di riconoscere il Kosovo come stato indipendente, Mosca ha dimostrato più volte di sostenere pienamente le rivendicazioni territoriali della Serbia. Un sostegno che non va sottovalutato proprio ora che le tensioni tra Pristina e Belgrado minacciano di riaccendersi e che i recenti sforzi diplomatici di Usa e Ue per rilanciare il dialogo tra i due paesi non hanno portato a risultati concreti.
Ulteriori elementi di convergenza tra i due paesi sono poi la fede ortodossa e la comune identità slava, valori che Mosca ha sempre sostenuto di voler proteggere dalla “degenerazione morale dell’Occidente” guadagnando l’apprezzamento delle frange più nazionaliste del popolo serbo.
Energia, sostegno politico ed eredità panslavista sono dunque le leve di cui Putin si serve per preservare la propria influenza su Belgrado. Eppure, da tempo Vučić ha cominciato a rivolgere le proprie attenzioni anche a Ovest. L’avvicinamento della Serbia alle potenze occidentali è cominciato nel 2009 con la presentazione della domanda di adesione all’Ue, seguita dall’acquisizione dello status di paese candidato nel 2012 e dall’avvio ufficiale delle trattative nel 2014. Da allora, il processo di integrazione europea di Belgrado ha incontrato diversi rallentamenti – imputabili, in parte, al vincolo di normalizzazione delle relazioni con Pristina per poter entrare nell’Unione – ma non si è mai arrestato. Negli ultimi anni l’Ue ha inviato alla Serbia oltre 3 miliardi di contributi a fondo perduto per favorirne lo sviluppo economico e sociale ed è diventata il primo partner commerciale del paese (il 64% dei beni importati da Belgrado proviene dai mercati europei e il 65% delle esportazioni è diretto a sua volta verso l’Unione), a riprova della crescente interconnessione tra l’Europa dei 27 e il paese balcanico.
Per diverso tempo Vučić è quindi riuscito a muoversi abilmente tra Mosca e Bruxelles, traendo dalle due partnership benefici diversi e complementari e ottenendo il consenso sia dei cittadini filorussi che di quelli più proiettati verso l’Occidente. Una strategia che in questo momento potrebbe assumere ancora più rilevanza visto l’avvicinarsi delle prossime elezioni presidenziali, previste per il 3 aprile, ma che rischia di essere compromessa dall’escalation della crisi ucraina. Ora l’Ue preme affinché la Serbia adotti misure concrete a condanna della Russia, mentre Putin si aspetta che Belgrado sostenga l’invasione proprio come il Cremlino ha sempre sostenuto le rivendicazioni serbe sul Kosovo. In uno sforzo di bilanciamento estremo sono così arrivate, da parte del governo serbo, due risposte al conflitto quantomeno contraddittorie: prima il rifiuto di allinearsi alle sanzioni occidentali ai danni di Mosca, poi il voto favorevole alla risoluzione delle Nazioni unite contro l’invasione russa. Un equilibrismo che, oltre a non essere stato apprezzato a Bruxelles, ha diviso la stessa opinione pubblica serba.
Lo scorso 4 marzo, ad appena due giorni dall’approvazione della risoluzione Onu, circa 4mila manifestanti sono scesi nelle strade di Belgrado per esprimere solidarietà alla Russia e condannare il voto del governo serbo alle Nazioni unite. Una presa di posizione piuttosto controversa, ma che non dovrebbe stupire se si considera la narrativa filorussa diffusa dai media locali. Già il 22 febbraio l’Informer, una delle testate più seguite in Serbia, titolava sulla prima pagina «L’Ucraina attacca la Russia» e motivava la scelta di Putin di riconoscere l’indipendenza delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk come reazione ad una «pesante offensiva mossa dall’esercito ucraino nel Donbass». Un’attività di propaganda che continua ancora oggi e che trova terreno fertile anche grazie al coordinamento con Sputnik e Russia Today, emittenti russe che in Serbia godono di larghissimo seguito. Scandendo lo slogan «Serbi e russi fratelli per sempre» ed esibendo la lettera Z (ormai simbolo dell’invasione dell’Ucraina), nelle ultime tre settimane un numero non trascurabile di cittadini serbi ha dunque scelto di schierarsi apertamente con Putin, a dimostrazione di un legame che gli eventi attuali non sembrano aver scalfito.
Le manifestazioni pro-Russia, tuttavia, non sono le uniche ad aver animato le strade di Belgrado. Guidati dalla Ong “Donne in nero”, diversi cittadini sono scesi a propria volta in piazza per chiedere un’immediata cessazione del conflitto e spingere il governo a prendere posizione contro l’aggressione russa. Un segnale di chiaro dissenso è arrivato anche da una dozzina di cittadini russi residenti nella capitale serba, che domenica 6 marzo si sono riuniti – alcuni di loro bruciando addirittura il passaporto – per esprimere solidarietà al popolo ucraino.
Come ben sappiamo, la guerra in Ucraina sta già producendo cambiamenti significativi nell’arena geopolitica globale. Il caso specifico della Serbia rappresenta un importante indicatore del rischio che la crisi possa ripercuotersi in particolare su paesi caratterizzati da un elevato livello di instabilità. Per Belgrado, qualsiasi decisione in questo momento potrebbe rivelarsi potenzialmente dannosa. Evitare di assumere una posizione chiara contro l’invasione russa consentirebbe a Vučić di salvare il rapporto di esclusività che vanta con Mosca, ma potrebbe indebolire le relazioni con Bruxelles e compromettere ulteriormente quelle con il Kosovo. A questo proposito, la ministra degli Esteri kosovara Donika Gervalla ha già fatto presente che Pristina considera la posizione ambigua di Belgrado come una minaccia. D’altro canto, “rinnegare” il Cremlino e allinearsi alla politica estera europea priverebbe il presidente serbo del consenso di quella parte di popolazione che si sente ancora legata a Mosca. Dinamiche che, in un paese caratterizzato da una bassissima legittimazione del potere e ormai prossimo alle elezioni, non possono affatto essere trascurate.
Carlotta Maiuri
[…] merito alle sanzioni, la posizione della Serbia – già approfondita in una nostra precedente analisi – è riconducibile tanto alla necessità di tutelare gli interessi energetici e strategici […]