La ricostruzione storica del sistema multiconfessionale libanese ha reso evidente come la compresenza di diverse comunità nel “paese dei cedri” non abbia costituito un ostacolo alla stabilità della regione autonoma del Monte Libano, almeno fino al Diciannovesimo secolo. Fu infatti l’amministrazione egiziana (1831-1840) la causa della discordia tra maroniti e drusi, sfociata nel primo conflitto settario, a seguito del quale fu necessario adottare una struttura amministrativa multi-confessionale per incrementare la stabilità sociale. In questo senso, è utile comprendere quali politiche siano state adottate a partire dal Ventesimo secolo per facilitare il processo di Nation-building nel paese, e quanto le ingerenze esterne e le crisi regionali siano state invece determinanti per le condizioni di fragilità e instabilità, in cui versa tuttora lo Stato libanese.
Nonostante l’adozione della struttura amministrativa della mutasarrifiyya e della maggiore autonomia concessa al “Piccolo Libano”, agli inizi del Novecento nella regione autonoma, come nel resto dei territori arabofoni dell’Impero ottomano, si diffusero una nuova mentalità e differenti espressioni politico-sociali, seguiti dalla nascita di diversi movimenti nazionalisti, sostenuti dalle potenze europee. Questo fenomeno è conosciuto come “rinascita araba” o Nahda e, nel caso del Mutaṣarrifato in Libano, portò a una violenta reazione ottomana e all’instaurazione di un regime militare che rimase in carica fino alla Prima guerra mondiale, che accelerò il collasso del sistema ottomano. La caduta dell’impero, tuttavia, non sancì l’indipendenza per i popoli arabi della regione: lo sfaldamento del potere ottomano fu infatti accompagnato dalla sigla degli Accordi di Sykes-Picot (1916) e dalla Conferenza di Sanremo (1920), attraverso cui la Francia stabilì una propria zona d’influenza nella “Grande Siria” – un’entità che comprendeva la maggior parte della Siria e del Libano odierni.
La prima trasformazione sotto mandato francese fu l’espansione geografica della regione libanese e la creazione di un “Grande Libano”, ottenuta con l’annessione delle città di Beirut, Sidone, Tiro, Tripoli, Baalbek e `Akkar, a maggioranza musulmana. Questa strategia avrebbe dovuto favorire un incremento del potere amministrativo ed economico dei cristiani maroniti, ma in realtà si tradusse in una minaccia allo status quo della stessa comunità. A seguito dell’espansione (1920), infatti, i maroniti costituirono una maggioranza relativamente risicata (55%) nel Grande Libano e, al contrario, la comunità musulmana sunnita si sostituì per importanza demografica a quella drusa.
L’annessione dei nuovi territori rese dunque così complesso il quadro demografico nazionale che fu necessario raggiungere un nuovo equilibrio tra le diverse comunità. Pertanto, nel 1926 e nel 1943 furono emanati due documenti chiave, prima la Costituzione e poi il “Patto Nazionale”, al fine di incrementare la coesione sociale e avviare un processo di definizione dell’identità nazionale. La Costituzione sancì il rispetto e la protezione delle diverse comunità confessionali (art.9), riconoscendo ai tribunali religiosi il diritto di gestire lo statuto personale dei membri delle comunità, elargire servizi di welfare e legiferare su questioni regolamentate dal Codice civile. Inoltre, si cercò di garantire alle diverse comunità un equo accesso agli incarichi pubblici e ai ministeri (art. 95). In questo senso tuttavia, la Costituzione contribuì a legittimare un doppio livello di consociativismo – personale e politico – che rafforzò il senso di appartenenza dei libanesi alla comunità confessionale piuttosto che alla nazione. Il Patto Nazionale fu invece determinante per la politicizzazione delle comunità religiose: fu assegnata infatti la carica di presidente della Repubblica a un esponente della comunità cristiano-maronita, quella di primo ministro a un musulmano sunnita e, in seguito, quella di presidente del Parlamento a uno sciita. Nello stesso anno, inoltre, fu emanata una legge elettorale, che stabilì la distribuzione dei seggi parlamentari (55) – in un rapporto di 6 a 5 – tra esponenti della comunità cristiana (30) e quella musulmana (25). Lo scoppio della Seconda guerra mondiale e la sconfitta francese incoraggiarono i libanesi a cercare di raggiungere una maggiore indipendenza dalla potenza mandataria francese. Nel 1943 la Camera dei deputati apportò alcune revisioni costituzionali volte a ridurre l’influenza di Parigi nell’esercizio dei poteri politico e giuridico in Libano. Con la fine del conflitto, il violento tentativo da parte del governo francese di ristabilire la propria autorità portò allo scoppio di proteste, guidate dalle Falangi Libanesi, che generarono forti pressioni internazionali e regionali – in particolare da parte di Egitto, Arabia Saudita e Iraq – che si rivelarono fondamentali per la proclamazione dell’indipendenza del Libano nel 1946.
Negli anni Cinquanta, la raggiunta stabilità politica e l’intensificazione dei traffici commerciali garantirono al Libano un periodo di massima espansione economica; inoltre, emiri e sceicchi del Golfo persico iniziarono a depositare denaro e oro nei principali istituti bancari del paese e a effettuare ingenti investimenti, soprattutto nel settore immobiliare. Tuttavia, nel 1958 la diffusione del panarabismo in Egitto e in Siria – inteso dai maroniti come minaccia alla “cristianità” del Libano – determinò forti tensioni tra i seguaci dell’ex presidente, il maronita Camille Chamoun, e i movimenti di sinistra, guidati dal druso Kamal Jumblatṭ e dal sunnita Rashid Karami. Si aprì così una grave crisi politico-economica nel paese, risolta solo grazie alla mediazione statunitense e alla nomina di un nuovo presidente, Fouad Chehab, che, in linea con la politica di nation-building dei suoi predecessori, rese più equo per le diverse comunità confessionali l’accesso agli incarichi pubblici e all’esercito – la politica del “50-50”, conosciuta anche come chehabismo. In questo periodo, inoltre, Musa al-Ṣadr – politico e religioso sciita originario dell’Iran – rivoluzionò la dottrina sciita in Libano e si distinse come portavoce della stessa comunità, al tempo collocata principalmente nella valle della Beqāʿ. L’imam si impegnò nel proselitismo e richiese migliori condizioni socioeconomiche e un’equa rappresentanza sciita nel panorama politico libanese: fattori chiave per l’ascesa demografica della comunità.
Alla fine degli anni Sessanta, la diretta esposizione alla crisi israelo-palestinese causò l’apertura di una lunga fase di instabilità politico-sociale. A seguito della Guerra dei Sei giorni (1967), infatti, il Libano offrì rifugio a numerosi profughi palestinesi, tra i quali figurarono anche alcuni combattenti, che utilizzarono il territorio libanese come base per attaccare Israele. La libertà di proselitismo e di movimento, concessa soprattutto all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat, fu percepita come minaccia non solo da Israele ma anche da alcune comunità libanesi, che pertanto organizzarono proprie milizie.
Questa situazione fu il presupposto per lo scoppio della guerra civile del 1975 tra il Fronte libanese di orientamento cristiano-maronita e il Movimento nazionale libanese, guidato dal druso Jumblatt e sostenuto dai palestinesi. Nello stesso anno, a seguito dei bombardamenti israeliani sui villaggi libanesi a maggioranza sciita, Musa al-Ṣadr organizzò una protesta a Baalbek, a seguito della quale fu fondato il movimento Amal, che sostenne, anche con la lotta armata, tanto la causa sciita libanese quanto quella palestinese. Infine, il conflitto si internazionalizzò ulteriormente a seguito del coinvolgimento della Siria, che in una prima fase sostenne il movimento di Jumblatt e in seguito decise di mediare la crisi, al fine di mantenere immutati i propri interessi nel paese.
Nonostante una tregua raggiunta nel 1976, gli attacchi da parte dell’organizzazione politica e paramilitare palestinese Fatah contro Israele, perpetrati dal territorio libanese, determinarono un ulteriore aumento della tensione che sfociò nella prima invasione israeliana nella regione meridionale del Libano (l’operazione Litani del 1978). L’evento ebbe dei risvolti importanti: sul piano internazionale, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite adottò la risoluzione 425 e attuò il dispiegamento di una forza militare di interposizione nella regione meridionale del paese (missione Unifil). Sul piano nazionale, invece, si verificò una frattura all’interno della comunità maronita: il movimento delle Falangi libanesi sostenne l’operazione israeliana, invece la milizia Marada identificò Israele come la causa principale dell’instabilità nazionale.
I continui attacchi dei combattenti palestinesi contro Israele e il forte sostegno di Bashir Gemayel e parte dei maroniti allo Stato ebraico favorirono una seconda invasione israeliana del Libano nel 1982, attuata con lo scopo di eliminare dal paese – e soprattutto da Beirut- le milizie legate all’Olp. L’operazione israeliana causò il massacro di migliaia di civili palestinesi e sciiti libanesi nei campi profughi di Sabra e Chatila, atto definito poi come genocidio nella risoluzione 37/123 D dell’Assemblea generale dell’Onu. A seguito del tragico evento, i servizi segreti siriani e iraniani iniziarono a operare all’interno del territorio libanese, sostenendo e addestrando le milizie non cristiane, localizzate soprattutto nella regione meridionale del paese. In tale circostanza nacque infatti nel 1982 il movimento Ḥezbollah (il “Partito di Dio”), che tre anni dopo pubblicò un “Manifesto” in cui dichiarava la propria identità sciita e gli obiettivi perseguiti – resistenza, volontà di instaurare una teocrazia su modello dell’Iran di Khomeini ed espulsione di Stati Uniti, Francia e gli alleati (Israele) dal territorio libanese.
La complessità del quadro nazionale portò la Siria a stabilire di fatto un protettorato nel paese e a schierare ulteriori truppe sul territorio come garanzia di pace per la fine del conflitto, sancita poi dagli Accordi di Ṭaif nel 1989. La firma di questi accordi si può considerare una cesura nella storia della repubblica libanese: l’accesso alle cariche politiche e all’esercito per i cristiani e i non-cristiani venne reso totalmente equo e i poteri attribuiti alla carica di presidente della Repubblica furono notevolmente ridotti a vantaggio di quelli conferiti al Primo ministro sunnita.
A questo proposito, negli gli anni Novanta e Duemila, Rafic Hariri rappresentò il personaggio politico chiave nella scena politica libanese: il Primo ministro si impegnò nella ricostruzione di città e infrastrutture, fortemente danneggiate dalla guerra civile, e nella ripresa socioeconomica del paese. Tuttavia, Hariri incontrò una forte resistenza da parte della comunità maronita e da quella sciita, poiché assunse posizioni fortemente anti-siriane e impiegò la milizia maronita delle Forze Libanesi, guidata dall’attuale leader dell’omonimo partito Samir Geagea, per fermare le proteste. Hariri morì a seguito di un attentato nel 2005 e i sospetti ricaddero su ufficiali siriani e in seguito su Hezbollah. Per tale ragione, l’evento determinò la “rivoluzione dei cedri”: un’ondata di proteste sollevate dall’Alleanza del 14 Marzo – coalizione politica anti-siriana, formata da partiti di diverso orientamento (Forze libanesi, Movimento del futuro, Falangi e Partito socialista progressista). Tra le conseguenze di queste dimostrazioni vanno ricordati il ritiro di tutte le truppe siriane dal territorio libanese e il ritorno del presidente Michel Aoun dall’esilio. Nello stesso anno fu, tuttavia, creata anche una coalizione politica opposta, l’Alleanza dell’8 Marzo filo-siriana, che riconobbe al paese limitrofo il merito di aver posto fine al conflitto civile libanese. La coalizione è oggi composta da diversi partiti, tra i quali Hezbollah, Amal, il Partito democratico libanese e il movimento Marada.
Nel 2005 Ḥassan Naṣrallah divenne capo di Hezbollah, che nel frattempo era cresciuto sia come organizzazione paramilitare che come partito politico sciita. Nel 2006 Hezbollah fu anche un attore chiave nel conflitto con Israele, che scoppiò a seguito dell’uccisione di alcuni ostaggi israeliani e che determinò la terza invasione delle truppe dello Stato ebraico nel paese. La stabilità politico-sociale libanese entrò in crisi nuovamente nel 2008 e nel 2011, quando si acuirono le ostilità tra l’Alleanza del 14 Marzo e quella dell’8 Marzo. Tuttavia, nel 2011 non furono le proteste in Libano a generare una crisi politica quanto le posizioni divergenti sulla rivoluzione siriana, che divisero i membri della coalizione al governo. Al contrario di quanto accadde in altri paesi della regione, interessati nel 2011 dalle “Primavere arabe”, la popolazione libanese non richiese la caduta del governo, ma piuttosto l’abolizione del sistema confessionale, nuovi spazi per i movimenti trans-confessionali e un codice civile unificato. Le proteste si risolsero mediante la nomina di un nuovo primo ministro, Najib Mikati, esponente dell’Alleanza dell’8 Marzo e attualmente in carica, fortemente sostenuto da Hezbollah, dal presidente Aoun e da Walid Jumblatt.
La rivoluzione siriana, inoltre, determinò il posticipo delle elezioni del 2013, che pertanto si tennero nel 2018: Aoun fu riconfermato presidente della repubblica e Saad Hariri – il figlio di Rafic – Primo ministro. Saad Hariri ha dovuto fronteggiare tuttavia una difficile situazione politica: nel 2019 è stato costretto a dimettersi a causa dello scoppio di una seconda ondata di proteste, ma è poi tornato in carica nuovamente tra il 2020 e il 2021, prima di lasciare il posto a Mikati. L’instabilità politica e la crisi finanziaria libanese si sono aggravate ulteriormente con lo scoppio della pandemia di Covid-19. Inoltre, l’assenza di riforme economiche, che ha ostacolato i negoziati per un pacchetto di aiuti con il Fondo monetario internazionale, e l’interruzione recente dei rapporti diplomatici con alcuni paesi del Golfo stanno deteriorando ulteriormente il quadro politico ed economico del paese, prossimo alle elezioni parlamentari.
Maria Grazia Stefanelli