A distanza di quattro anni dalle ultime elezioni, lo scorso 15 maggio i libanesi sono stati chiamati al voto per eleggere i 128 membri del parlamento: un evento cruciale per tentare di raggiungere la stabilità politica ed economica nel paese levantino. Le elezioni legislative, infatti, rappresentano una fase preliminare e, dunque, assolutamente necessaria per la nomina del futuro presidente della repubblica – in programma per il prossimo ottobre – e per quella del primo ministro, che avrà il compito di attuare una serie di riforme per risolvere il complicato quadro socioeconomico libanese. Proprio dopo le precedenti elezioni, infatti, in Libano la condizione finanziaria è progressivamente peggiorata, determinando l’ondata di proteste del 17 ottobre 2019, frenata poi dalle crisi di governo, dallo scoppio della pandemia di Covid-19 e dall’esplosione del porto di Beirut nel 2020. In tale contesto si inseriscono le recenti elezioni, che hanno prodotto risultati – che seppur non completamente attesi – si possono intendere come un ulteriore passo verso la rivoluzione del sistema e della classe politica libanese. A questo proposito, oltre a evidenziare i cambiamenti rispetto al recente passato, è utile comprendere se i risultati raggiunti possano considerarsi sufficienti per assicurare al paese stabilità nel lungo periodo.
Rispetto al contesto politico precedente, determinato dalle elezioni parlamentari del 2018, il primo elemento di cambiamento visibile è certamente la perdita della maggioranza da parte del blocco politico guidato da Ḥezbollāh e Amal (62 seggi su 128), che include molti dei partiti dell’Alleanza dell’8 Marzo, la coalizione libanese filoiraniana e pro-Assad. Tuttavia, è fondamentale che tale risultato non sia interpretato come una completa perdita dell’influenza e dello status quo dei due partiti d’ispirazione sciita nel paese, come è stato ribadito anche dal Teheran Times: infatti, entrambi i gruppi hanno riconfermato lo stesso numero di seggi ottenuti nelle elezioni del 2018. Sono piuttosto i “partiti satelliti” della coalizione ad aver registrato un calo nei consensi, in modo particolare il Movimento Patriottico Libero (التيار الوطني الحر), guidato da Michel Aoun, presidente della repubblica in carica dal 2016. Allo stato attuale, dunque, il Movimento di Aoun cessa di essere il primo partito rappresentante la comunità cristiana all’interno del parlamento, ruolo assunto invece dal gruppo “tradizionale” dell’opposizione, ovvero le Forze Libanesi (القوات اللبنانية) di Samir Geagea, che ha ottenuto 19 seggi. Oltre a quest’ultimo, il fronte di opposizione a Ḥezbollāh-Amal è anche composto dai candidati indipendenti, appartenenti a gruppi e movimenti nati o riformati a seguito delle proteste del 2019, tra i quali Minteshreen, National Bloc Party (حزب الكتلة الوطنية) e Taqaddom (تقدُّم), che hanno ottenuto 13 seggi. Inoltre, 12 dei 13 candidati indipendenti vincitori si possono considerare “nuovi volti” sulla scena politica libanese. Tale risultato rispecchia in parte lo scopo dei riformisti della rivoluzione del 2019, ovvero rappresentare una valida alternativa alla “tradizionale” classe politica per il popolo libanese, che sia in grado di gestire la res publica e le risorse economiche nazionali con maggiore responsabilità e trasparenza.
Dunque, la vittoria del blocco dei candidati indipendenti può considerarsi una conseguenza della progressiva sfiducia dei libanesi verso la classe politica “più tradizionale”. I risultati delle elezioni suggeriscono, infatti, la necessità, il desiderio e la speranza del popolo di rivoluzionare il sistema libanese – partendo proprio dal rinnovo del parlamento – affinché una nuova classe politica possa guidare il Libano fuori dall’attuale crisi. Difatti, proprio i programmi elettorali dei partiti tradizionali – incluso quello del Lebanese Forces – si sono concentrati maggiormente sulla questione del disarmo del gruppo di Ḥezbollāh, trasformando de facto le elezioni in un referendum e generando in tal modo forte dissenso e frustrazione tra la popolazione, orientandola verso candidati non allineati. In aggiunta, è utile evidenziare anche il ruolo della diaspora: circa il 60% dei libanesi all’estero ha partecipato alle elezioni – valore triplicato rispetto al voto del 2018. Tale dato potrebbe intendersi come un chiaro effetto della crisi finanziaria nazionale, che negli ultimi anni ha costretto migliaia di libanesi a lasciare il paese d’origine, alimentando un forte senso di ingiustizia e una maggiore consapevolezza nel voler cambiare il futuro del Libano attraverso l’espressione del voto. Altresì, è importante ricordare come la comunità diasporica giochi un ruolo fondamentale soprattutto per l’economia del paese: le rimesse rappresentano infatti un quinto del PIL e, pertanto, investire in un paese meno corrotto e più trasparente nella gestione delle risorse economiche costituisce una vera priorità per i libanesi residenti all’estero. Infine, la vittoria dei “partiti del cambiamento” può considerarsi anche conseguenza del ritiro dalle elezioni di Saad al-Hariri e del proprio partito, il Movimento del Futuro (تيار المستقبل), principale rappresentante della comunità sunnita nel parlamento negli ultimi anni. L’ex primo ministro, infatti, aveva invitato i seguaci del Movimento a boicottare le elezioni di maggio o a esprimere la preferenza per i candidati indipendenti. Tuttavia, non solo la chiamata al boicottaggio non ha sortito gli effetti sperati, giacché la partecipazione alle elezioni ha subito solo una lieve decrescita rispetto al 2018 (di circa l’8%) – fattore che indica il calo dell’influenza di Hariri sulla comunità nel paese – ma ciò si è tradotto anche in un vuoto di rappresentanza politica per i sunniti all’interno dell’assemblea legislativa.
In ogni caso, i risultati raggiunti con le elezioni di maggio sono stati plauditi dalla comunità internazionale, in particolare da Francia e Stati Uniti, che hanno accolto positivamente la formazione del nuovo parlamento con la speranza che i prossimi eventi calendarizzati procedano nella giusta direzione – la nomina del presidente della repubblica e successivamente quella del primo ministro per la formazione del nuovo esecutivo. Il sostegno internazionale sarà funzionale nelle fasi successive per l’implementazione di nuove riforme e per avere maggiore possibilità di accesso agli aiuti del Fondo Monetario Internazionale. La vittoria del blocco di opposizione, inoltre, è stata considerata come “step positivo” anche dalle monarchie del Golfo: in particolare dall’Arabia Saudita, che supporta il partito di Geagea, ma che aspetta a pronunciarsi fino alla formazione del nuovo governo. Infine, la vittoria del blocco di opposizione a Ḥezbollāh potrebbe portare a un calo dell’ingerenza siriana sulle dinamiche interne al paese dei cedri – un evento che assieme alla crisi russo-ucraina orienterebbero Assad a instaurare relazioni ancora più profonde con Teheran.
Tuttavia, sebbene siano evidenti una serie di segnali concreti di cambiamento rispetto allo scenario del 2018, restano ancora numerose ombre sul futuro politico e socioeconomico del paese, che attualmente fanno vacillare l’iniziale entusiasmo dei libanesi e della comunità internazionale. Nello specifico, le criticità si riscontrano nella composizione molto variegata della maggioranza parlamentare, che potrebbe avere difficoltà a trovare degli accordi sulle questioni da risolvere con massima urgenza e le riforme da attuare. Un esempio, come già detto, è fornito dalla querelle sul disarmo di Ḥezbollāh: una priorità per Geagea ma non per i partiti riformisti, non allineati e indipendenti, i quali danno priorità alla risoluzione della grave crisi economica, sebbene propongano anch’essi soluzioni divergenti. Dunque, la frammentazione del blocco politico rischia di paralizzare l’intero sistema ed essere il principale ostacolo al raggiungimento della stabilità politica e socioeconomica del paese. L’assenza di una chiara struttura organizzativa dei “partiti del cambiamento” e la divergenza negli obiettivi e nelle priorità potrebbero compromettere anche l’esito delle future elezioni presidenziali e di conseguenza rallentare il processo della nomina del primo ministro e la formazione dell’esecutivo, necessari per l’attuazione delle riforme che garantirebbero l’accesso agli aiuti finanziari internazionali e alla più generale ripresa economica.
Maria Grazia Stefanelli
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