Ormai sono quasi due mesi che l’Iran si trova in una situazione di instabilità in cui il regime di Teheran è costretto a fare i conti con una rivolta popolare che continua a crescere nonostante la repressione. Sebbene infatti l’apparato di sicurezza della Repubblica islamica – per voce di Hossein Eslami, Comandante delle Guardie rivoluzionarie Sepah-e pasdaran – abbia intimato ai manifestanti di terminare quanto prima i disordini, a distanza di oltre 40 giorni dalla morte di Mahsa Amini nel centro di detenzione della “polizia morale” Gashte Ershad, le proteste continuano in diverse città dell’Iran.
La situazione ha spinto anche il presidente Ebrahim Raisi a pronunciarsi pubblicamente: le sue parole sono arrivate attraverso un comunicato stampa nel quale Raisi ha dichiarato che bisogna risolvere il problema usando qualsiasi mezzo, ma senza toccare i valori islamici sanciti dalla Rivoluzione del 1979. A questa dichiarazione è seguito anche un comunicato da parte della “Guida suprema” della Repubblica islamica, l’ayatollah Ali Khamenei, il quale ha asserito che le proteste sono organizzate dai nemici del regime di Teheran – Stati Uniti e Israele – e che i giovani che manifestano nelle piazze sono vittime di strumentalizzazioni, mentre le donne che tolgono il velo non sono necessariamente contro la Repubblica islamica.
Le manifestazioni hanno generato un dibattito anche all’interno dell’organismo responsabile del controllo dei valori islamici nella società. Il Segretario di tale organizzazione, Hashemi Golpayegani, ha dichiarato in un’intervista che «attualmente, l’hijab è diventato il punto di scontro dell’arroganza globale con il sistema islamico; il nemico cerca di creare un bipolarismo nella nostra società, che deve essere contrastato, così come va spezzata la dittatura dei media e del cyberspazio». Ma, detto questo, va notato che anche all’interno delle istituzioni del regime c’è chi propone di cambiare la legge sull’obbligo di portarre il velo, facendo passare l’infrazione di tale legge da azione criminale a “problema religioso-culturale”, tale da non implicare necessariamente una condanna in tribunale.
Questa timida apertura da parte del regime arriva forse troppo tardi e non sembra sufficiente. Le rivendicazioni dei manifestanti sono ormai andate ben oltre il discorso del velo. Proteste e raduni – studenteschi e popolari – continuano a svolgersi nelle università e in diverse città del paese, con le forze dell’ordine che stanno cercando di mettere tutto a tacere con una repressione capillare. Tra gli episodi di dissenso più sensazionali si possono elencare i funerali delle persone che sono state uccise negli ultimi tempi. È questo il caso della protesta sviluppatasi nella città di Saqqez, nel Kurdistan iraniano, dove migliaia di persone, marciando verso il cimitero, si sono dirette alla tomba di Mahsa Amini. Nelle università, gruppi studenteschi di opposizione si sono scontrati con gli studenti Basiji (paramilitari) e hanno subito la repressione da parte dalle forze dell’ordine – in borghese – anche all’interno delle stesse università. Si tratta di un significativo incremento dello sforzo di repressione da parte del regime, considerando che dal 1999, dopo il tragico evento dell’attacco all’Università di Teheran Kuy-e Daneshgah, le forze d’ordine non hanno più il permesso ufficiale di entrare all’interno di alcun campus universitario.
Negli ultimi giorni, da quando è avvenuto l’attacco armato al Mausoleo di Shah cheragh a Shiraz, gli scontri sono diventati più frequenti e le autorità iraniane stanno cercando di impedire che le persone scendano in strada usando diverse strategie, tra cui l’intimidazione. Il regime ha iniziato ad arrestare qualsiasi persona in grado potenzialmente di incitare le proteste, come giornalisti, intellettuali, attivisti sociali, politici, artisti, cantanti, musicisti, calciatori e sportivi, attori e influencer nei social media.
Nel giro di un mese, insomma, una protesta iniziata con delle rivendicazioni femministe si è trasformata in un movimento rivoluzionario che invoca un cambio di regime. Le prime manifestazioni rivendicavano il diritto delle donne ad avere autonomia su come vestirsi e nel gestire il loro corpo, si concentravano contro l’obbligo di portare il velo e chiedevano giustizia per la morte della giovane ragazza curda iraniana Mahsa Amini. Gli slogan attualmente cantati dai manifestanti si scagliano invece contro i principi ideologici del regime di Teheran, al potere in Iran da 43 anni. Il grido “Donna Vita Libertà” rappresenta tante altre richieste, associate alle numerose sofferenze del popolo iraniano, che spaziano dalla crisi economica alla corruzione, dalla repressione politica interna all’isolamento internazionale, dall’ingiustizia sociale al mancato rispetto dei diritti umani.
Dall’altra parte, accanto alle proteste – che si sono diffuse ormai anche nelle scuole medie e superiori – sono iniziati numerosi scioperi in settori chiave come quello petrolifero, del gas, petrolchimico e metallurgico. Le manifestazioni vedono una crescente partecipazione da parte dei lavoratori di questi settori, così come dei commercianti Bazari e dei camionisti, che si sono uniti alle manifestazioni.
La società iraniana soffre da diversi anni per l’alta inflazione, spinta significativamente dalle sanzioni economiche da parte della comunità internazionale, in particolare dagli Stati Uniti. Ad oggi il tasso di inflazione si attesta al di sopra del 50% nelle grandi città ed è ancora più alto nelle zone rurali, dove si attesta al 58,4%. A ciò si aggiunge un elevato tasso di disoccupazione che, come spesso accade anche in altre parti del mondo, colpisce soprattutto le donne.
Inoltre, il sistema di potere in Iran si caratterizza per una crescente autocrazia, in particolare a partire dal 2020, una situazione in cui l’influenza politica si concentra sempre di più nelle mani della fazione conservatrice e ultraconservatrice. Il potere di veto e l’autorità di selezionare i candidati alle elezioni parlamentari e presidenziali esercitato dal Consiglio delle Guardie rivoluzionarie hanno portato la struttura politica iraniana verso una forte concentrazione del potere. Di conseguenza, diversi partiti politici della fazione riformista, non avendo nemmeno un candidato in lista, hanno iniziato a boicottare le elezioni – amplificando una tendenza che si stava già diffondendo nella popolazione iraniana. Questo fenomeno è divenuto evidente soprattutto in occasione delle elezioni presidenziali del 2021: per la prima volta l‘affluenza si è attestata al 48% – e per di più il 14% dei voti è stato annullato. Lo slogan “Donna Vita Libertà” che scandisce le proteste attuali racchiude in sé anche la delusione e la perdita di speranza nei confronti di una riforma nel sistema socio-politico della Repubblica islamica, il malcontento per la situazione della crisi economica e la scarsa governance, nonché la reazione all’incapacità del governo di rispondere alle aspettative delle nuove generazioni.
La “Guida suprema” Ali Khamenei e il presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi, insieme ai membri del Parlamento – che si compone per quasi l’80% della fazione conservatrice – hanno accusato gli Stati Uniti, Israele e l’Arabia Saudita – oltre che gruppi di opposizione, come i Mujahedin – di alimentare le proteste. La fazione riformista, nello specifico alcuni personaggi come Behzad Navabi, ha dichiarato di non stare né con queste proteste, che invocano la rivoluzione e la caduta della Repubblica islamica, né con il governo attuale che nega i diritti civili, la trasparenza e i principi della sovranità popolare.
Tra i personaggi religiosi più infulenti del paese, lo sceicco Molana Abdol-Hamid, leader e imam sunnita della preghiera del venerdì della provincia del Sistan e Baluchistan, si è espresso diverse volte in relazione alle proteste, soprattutto da seguito di un attacco avvenuto durante la preghiera del venerdì di Zahedan, dove sono state uccise più di 70 persone, tra cui diversi bambini, con più di 300 feriti. Molana Abdol-Hamid ha chiesto alle autorità iraniane di destinare maggiore attenzione alla sofferenza del popolo e di assicurare la pace, la libertà di espressione e di religione, nonché la giustizia per il tragico evento di Zahedan. È da notare che Abdol-Hamid e i suoi seguaci hanno sostenuto la candidatura di Ebrahim Raisi nel 2021. Come ha notato l’imam in una dichiarazione rivolta a Raisi, «il nostro popolo vi ha votato ma voi avete risposto con il fuoco, sono 43 anni che esiste questa disuguaglianza […] Per 43 anni, il governo ha continuato con il sostegno della brava gente dell’Iran. Ora che la gente è stanca degli abusi dei funzionari, dovete ricorrere alla repressione, alla forza e alla baionetta? Avete pensato che in futuro dovrete vivere con le stesse persone?». Ha chiesto di organizzare un referendum popolare in cui sia il popolo a decidere quale governo è legittimo per governare.
Un’altra figura religiosa – Ahmad Alam al-Hoda, membro del Consiglio degli esperti e rappresentante della “Guida suprema” e Vali-e Faqih nella provincia di Khorasan Razavi, noché suocero del presidente Raisi – in occasione di un dibattito ha definito l’hijab uno dei valori fondamentali dell’Islam e ha sostenuto che «con l’hijab, si può riconoscere che la religione ha la sovranità in una società. Difendere il Profeta [Maometto] significa difendere i valori dell’Islam, e se gli uomini e le donne della nostra società difendono l’Islam oggi, hanno difeso la vita del Profeta. Ma se rimangono indifferenti a questa tendenza, in realtà sono rimasti indifferenti all’esistenza del Profeta».
Sul piano internazionale va notato che i governi di Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada hanno prontamente espresso una condanna pubblica contro la violenza e la repressione delle ultime settimane e hanno dichiarato di appoggiare le rivendicazioni dei manifestanti.
Le sanzioni imposte dalla comunità internazionale contro il regime di Teheran colpiscono principalmente i funzionari del Corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche e interessano direttamente il comandante del Corpo e il suo servizio di intelligence, nonché i funzionari delle prigioni provinciali, come Evin, e le entità create al fine di censurare il dissenso su Internet. Recentemente, anche l’Unione europea ha sanzionato la “polizia morale” Gashte Ershad e undici funzionari militari e governativi della Repubblica islamica, incluso il ministro delle Comunicazioni, per aver brutalmente represso le proteste in Iran, affermando che queste sanzioni possono essere inasprite. Nasser Kanani, il portavoce del Ministero degli Esteri iraniano, ha definito “non costruttive e irresponsabili” le dichiarazioni della ministra degli Esteri tedesca Annalina Berbock, sull’inserimento delle Guardie rivoluzionarie nella lista delle organizzazioni “terroristiche”, spiegando che “l’esercito è l’istituzione militare ufficiale della Repubblica islamica e un’azione del genere è del tutto illegale”. In risposta, il Ministero degli Affari Esteri del regime di Teheran ha sanzionato diversi individui e istituzioni europee e diversi media in lingua persiana.
Anche la possibilità di rivitalizzare l’accordo sul nucleare iraniano del 2015 non è più all’ordine del giorno a causa delle proteste in corso e della severa repressione da parte del regime iraniano. Come già accennato, buona parte dei problemi economici è stata inasprita dalle sanzioni, che sono state ripristinate a partire dal 2018, da quando cioè l’amministrazione USA guidata da Donald Trump ha revocato l’appoggio di Washington all’accordo. A questo fattore internazionale vanno aggiunti questioni interne come la corruzione e la cattiva governance. Tutto ciò ha messo l’economia iraniana in ginocchio e ha fatto avvicinare il regime di Teheran ancora di più a potenze come la Russia e la Cina.
Va inoltre osservato che la diaspora iraniana – che è stimata in più di 6 milioni di persone in tutto il mondo – non si è mai fermata. Gli iraniani all’estero hanno assicurato maggiore ascolto per le persone che protestano, soprattutto dopo il blocco di internet e dell’accesso ai social media più gettonati, come Instagram e WhatsApp. Gli iraniani residenti all’estero hanno organizzato diverse manifestazioni, come quella del primo ottobre in tutto il mondo, quella del 22 ottobre a Berlino e quella 29 ottobre, di nuovo in tutto il mondo, oltre ad altre manifestazioni organizzate a livello locale. Grandi manifestazioni sono state organizzate anche da parte dell’associazione delle famiglie delle vittime del volo 752, tra cui spicca quella che ha visto come protagonista Hamed Esmaeilion, medico e scrittore che ha perso la moglie e la figlia in questo tragico evento. Esiste inoltre una solidarietà tra diversi personaggi pubblici e cittadini privati, gruppi femministi e attivisti dei diritti umani e politici in diversi paesi che sostengono le proteste femminili in Iran. Di certo sono meno presenti, a livello ufficiale, le voci dei governi dei paesi vicini del Golfo persico, del Pakistan e della Turchia, così come risalta il silenzio dei governi di Cina e Russia.
In conclusione, nel contesto di una demoralizzazione e delusione popolare – diffuse soprattutto tra i giovani – sono fioriti i semi di una speranza per un cambiamento radicale. Nonostante tanti arresti (ad oggi più di quattordicimila) e manifestanti uccisi (ufficialmente 314, tra cui tanti bambini, adolescenti e giovani), le proteste continuano con gli slogan “Donna Vita Libertà”, “senza più paura” e per la “fine del regime autoritario”. Il popolo iraniano ha anche chiesto diverse volte ad Artesh, l’esercito iraniano, di prendere parte al movimento rivoluzionario. Tuttavia, va considerato che i vertici dell’esercito sono stati selezionati proprio dai Sepah-e Pasdaran e l’alto numero di organizzazioni di sicurezza come le Guardie rivoluzionarie, i gruppi paramilitari come i Basiji, i servizi segreti, rende più difficile e complicata la prospettiva di una presa del potere da parte dei militari e la transizione verso un regime diverso da quello della Repubblica islamica.
Shirin Zakeri