L’annuncio da parte del governo statunitense del riconoscimento dell’immunità nei confronti del principe saudita Mohammed bin Salman (anche noto come MBS) in relazione alla controversia legata all’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi ha spinto gli osservatori a puntare i riflettori sui rapporti fra Stati Uniti e Arabia Saudita. Questa relazione, che ha rappresentato, fin dalle fasi finali della Seconda guerra mondiale, un fattore determinante negli equilibri geopolitici del Medio Oriente e uno dei pilastri fondamentali della sicurezza energetica globale, sembra sempre più precaria e difficile da gestire, nonostante i profondi legami che caratterizzano i rapporti tra Washington e Riad.
L’immunità per MBS deriva dal fatto che il principe saudita è stato recentemente nominato Primo ministro, e in base al diritto internazionale, i rappresentati di governo non possono essere processati o condannati durante la durata del loro mandato, in quanto ciò rappresenterebbe un’ingerenza negli affari interni dello Stato. Resta tuttavia il fatto che MBS è ritenuto implicato nell’assassinio di Khashoggi, un giornalista saudita residente negli USA e opinionista per il Washington Post, testata per la quale aveva preparato vari articoli critici del regime di Riad. Nel 2018, dopo essere entrato all’interno del consolato saudita di Istanbul per richiedere dei documenti necessari per il suo imminente matrimonio, Khashoggi è stato brutalmente ucciso.
Questo orrendo episodio si è aggiunto alle sempre più evidenti prove della catastrofe umanitaria generata in Yemen, in gran parte a causa dell’intervento militare da parte di una coalizione guidata dall’Arabia Saudita – un intervento fortemente voluto proprio da MBS. Tali episodi hanno decisamente peggiorato la percezione – a Washington e in altre capitali occidentali – di Mohammed bin Salman. Il principe saudita – che sta acquisendo sempre più potere all’interno della dinastia regnante di Riad – ha coltivato l’immagine di un giovane e promettente leader determinato a modernizzare il regno saudita attraverso una serie di riforme sociali ed economiche come un maggiore riconoscimento dei diritti delle donne, la quotazione in borsa di una parte della compagnia petrolifera nazionale Saudi Aramco (che è considerata la società più grande al mondo in termini di valore del capitale azionario) e Vision 2030, un programma di investimento massiccio nei settori dell’alta tecnologia e delle infrastrutture che prevede anche la costruzione di The Line, una città futuristica che dovrebbe svilupparsi lungo una linea di 170 chilometri nel nord-ovest del paese. Tuttavia, episodi come la guerra in Yemen e l’uccisione di Khashoggi lo hanno fatto apparire come un leader brutale, autoritario, e poco affidabile, soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica statunitense.
Durante la campagna presidenziale del 2020, Joe Biden ha esplicitamente criticato il regime di Riad per l’omicidio di Khasshoggi e per l’intervento in Yemen, definedo l’Arabia Saudita un “pariah” e promettendo una revisione dei rapporti tra Washington e Riad. Tuttavia, durante i primi due anni del suo mandato, Biden ha riscontrato numerose difficoltà nel modificare la relazione con i sauditi, generando spesso un frustrante senso di inefficacia, come nel celebre caso del “fist bump” con MBS in occasione del viaggio del presidente americano in Arabia Saudita la scorsa estate – un gesto che anziché sottolineare distanza fra Biden e Mohammed bin Salman è apparso come un involontario segno di amichevole complicità. Biden è stato anche oggetto di una parodia nella TV nazionale saudita, e recentemente sono apparse nei media notizie secondo cui in privato MBS abbia espresso varie volte insoddisfazione nei confronti del presidente USA.
Su un piano ben più sostanziale, inoltre, si può osservare che il governo saudita non ha recentemente mostrato un atteggiamento incline alla cooperazione nei confronti degli Stati Uniti, rifiutando ad esempio di espandere la produzione di petrolio del regno allo scopo di contenere l’aumento dei prezzi delle risorse energetiche – una crisi che si è gravemente accentuata a seguito della guerra di aggressione perpetrata dalla Russia nei confronti dell’Ucraina. Questa dinamica di crescente divergenza ha raggiunto un nuovo picco lo scorso 5 ottobre, quando in occasione di un vertice “Opec Plus” (un forum che include paesi produttori di petrolio membri dell’Opec, come l’Arabia Saudita, e paesi non membri di tale organizzazione, come la Russia) il governo di Riad ha aderito a un accordo sostenuto anche da Mosca volto a limitare la produzione e generare un aumento del prezzo del petrolio sui mercati mondiali. Un tale sviluppo risulta naturalmente fortemente contrario alle preferenze degli Stati Uniti (e degli alleati occidentali di Washington), che stanno svolgendo un ruolo di primaria importanza nel sostenere la resistenza Ucraina contro l’invasione lanciata lo scorso febbraio dal presidente russo Vladimir Putin. Tale decisione ha inoltre contribuito in modo significativo nel rendere più difficile la situazione politica interna per Biden e i democratici americani in vista delle elezioni di metà mandato svoltesi lo scorso 8 novembre.
Le relazioni fra Stati Uniti e Arabia Saudita stanno dunque attraversando una seria crisi e per comprendere le ragioni e le potenziali conseguenze di tale dinamica è necessario concentrare lo sguardo su diversi fattori. In primo luogo, si ci si può soffermare sulla difficile e tesa relazione tra Mohammed bin Salman e l’attuale leadership di Washington – sia sul piano ideologico e dei valori che sotto il profilo personale. Come già notato, Biden non ha esitato a criticare apertamente MBS, e ciò può aver contribuito a rendere più marcate le divergenze tra Washington e Riad. Tuttavia va notato che Biden non è il primo leader americano ad aver criticato apertamente i dirigenti sauditi. Durante la campagna per le presidenziali del 2016, ad esempio, l’allora candidato Donald Trump, parlando della relazione fra Stati Uniti e Arabia Saudita, aveva osservato che, “se non fosse per noi non esisterebbero”. Da candidato Trump aveva anche dichiarato che i sauditi avrebbero dovuto contribuire di più a sostenere i costi dell’alleanza con Washington. Da presidente, tuttavia, Trump ha radicalmente cambiato atteggiamento ed è stato un forte sostenitore della relazione tra Stati Uniti e Arabia Saudita, allineando molte delle politiche della sua amministrazione alle preferenze del regime di Riad.
Si può inoltre osservare che i governi di Washington, dopo una stagione di forte interventismo in Medio Oriente seguita agli attentati dell’11 settembre 2001 e un picco di presenza militare raggiunto a seguito dell’intervento militare che ha rovesciato il regime di Saddam Hussein in Iraq nel 2003, hanno adottato una politica volta a ridurre la loro presenza nella regione, cercando di concentrare maggiormente la loro attenzione verso altre aree come l’Indo-Pacifico. Da questo punto di vista si può sostenere che le potenze locali – come appunto l’Arabia Saudita – sono spinte a compensare il vuoto creato dal minore attivismo americano, prendendo iniziative non sempre compatibili con le preferenze di Washington. A tal proposito bisogna però osservare che, pur avendo significativamente ridotto gli interventi militari – e soprattutto il numero di soldati schierati nella regione – gli Stati Uniti rimangono un attore politico centrale in Medio Oriente. Washington svolge un ruolo di primaria importanza nell’assicurare la protezione dell’Arabia Saudita sia in modo diretto, con la presenza di forze nella regione – fra cui spicca la Quinta flotta della marina militare statunitense – sia in maniera indiretta, vendendo armi a Riad e alle altre monarchie arabe del Golfo. Gli Stati Uniti hanno inoltre giocato un ruolo fondamentale nei negoziati che hanno portato agli “Accordi di Abramo” che hanno iniziato un processo di normalizzazione delle relazioni tra Israele e alcuni Stati arabi – inclusi paesi come il Bahrein e gli Emirati arabi uniti, che condividono molti degli obiettivi di sicurezza del governo di Riad. L’amministrazione Biden sta inoltre incoraggiando anche il miglioramento dei rapporti fra Arabia Saudita e Israele.
Per capire come mai le relazioni fra Washington e Riad siano sempre più difficili ma non abbiano ancora raggiunto un punto di rottura è necessario concentrarsi anche su altri fattori, come il ruolo dei gruppi di interesse nel sistema politico americano e l’importanza cruciale del petrolio nei meccanismi che tengono in piedi la monarchia saudita.
L’Arabia Saudita è l’ottava nazione al mondo per spese militari, e gli Stati Uniti sono di gran lunga il principale fornitore di armi per il governo di Riad (e per le monarchie petrolifere del Golfo Persico in generale). Questo dato di fatto dovrebbe permettere al governo di Washington di esercitare una forte influenza sulla politica estera e di sicurezza saudita. Fornire armi a un paese straniero significa infatti renderlo dipendente anche dal punto di vista delle munizioni, dell’addestramento necessario per adoperare i sistemi d’arma e degli aggiornamenti necessari per mantenere l’efficacia degli arsenali e dell’equipaggiamento. Tuttavia questa dinamica, unita ad altri aspetti legati ai meccanismi disponibili per i gruppi di interesse – americani e stranieri – intenzionati ad influenzare il processo politico statunitense, permette ai sauditi di limitare significativamente i margini di manovra per le amministrazioni di Washington. Il governo di Riad è, infatti, un ottimo e prezioso cliente per le società americane produttrici di armi, e queste a loro volta costituiscono un importante gruppo di interesse capace di influenzare le scelte del governo di Washington. A tal proposito è interessante notare come, dopo aver annunciato il blocco della vendita di “armi offensive” all’Arabia Saudita allo scopo di indurre il governo di Riad a riconsiderare l’intervento militare in Yemen, la scorsa estate l’amministrazione Biden abbia considerato l’idea di eliminare questa restrizione. Il governo saudita ha anche usufruito delle consulenze di diversi comandanti militari statunitensi in congedo, allo scopo di migliorare la capacità del paese di acquisire armamenti avanzati – una pratica adottata anche dai governi di altri paesi alleati degli USA o interessati a migliorare la cooperazione militare con Washington. L’Arabia Saudita esercita anche un’intensa attività di lobbying ufficiale, volta a promuovere l’immagine e gli interessi di Riad attraverso i canali consentiti dalla legislazione USA, usufruendo dei servizi di agenzie specializzate in tale tipo di attività. Oltre al lobbying, molti think tank, fondazioni e università americane beneficiano di donazioni e finanziamenti sauditi. Questo tipo di contributi deve essere di carattere filantropico e non motivato da obiettivi politici, ma si può sostenere che – almeno in modo indiretto e in un’ottica di lungo periodo – anche tali finanziamenti possono contribuire a migliorare l’immagine del governo saudita negli Stati Uniti. Lo stesso discorso vale per gli investimenti sauditi in vari settori industriali come i media, l’intrattenimento e lo sport. Un fondo sovrano saudita presieduto da Mohammed bin Salman ha ad esempio investito in un fondo di investimento statunitense presieduto da Jared Kushner – il genero di Donald Trump e un importante consigliere del quarantacinquesimo presidente USA in materia di politica estera e Medio Oreinte – e in una società diretta da Steven Mnuchin – un investitore di successo che ha svolto il ruolo di segretario del Tesoro nell’amministrazione Trump.
Se l’analisi del ruolo dei gruppi di interesse nella politica americana può aiutare a capire come mai sia difficile per un presidente modificare una relazione così duratura e strutturata come quella fra Washington e Riad nonostante le crescenti divergenze, un’esame dell’importanza del petrolio nel funzionamento del regime saudita può aiutare a capire come mai il governo di Riad sia pronto a correre il rischio di contrariare i leader di Washington quando si tratta di determinare le questioni energetiche globali e in particolare il prezzo degli idrocarburi. L’80 percento delle esportazioni saudite proviene dalla vendita di petrolio, e tale rendita rappresenta circa il 40 percento del Pil saudita. Queste rendite sono necessarie per sostenere un settore pubblico ipertrofico che consente un tenore di vita piuttosto alto e sicuro per molti cittadini sauditi – i quali praticamente non pagano tasse. Tale sistema ha consentito a un regime marcatamente autocratico e repressivo, e a un apparato religioso fortemente tradizionalista, di mantenere il potere preservando, al tempo stesso, la pace sociale. Tuttavia appare chiaro che questo modello è estremamente precario e dipendente da un’enorme spesa pubblica poco produttiva e dalle rendite ricavate dalla vendita del petrolio. In relazione al Pil, il debito pubblico dell’Arabia Saudita è cresciuto in modo sostanziale a partire dal 2013. Dopo un calo nel 2021, il debito pubblico del regno ha ricominciato a salire. Attualmente, l’Arabia Saudita ha bisogno di un prezzo del petrolio di circa 67 dollari al barile per poter ottenere un pareggio di bilancio, e al momento in cui l’accordo Opec Plus è stato raggiunto il prezzo del petrolio sui mercati mondiali era di circa 80 dollari al barile. Sviluppi tecnologici che hanno rilanciato la produzione statunitense di idrocarburi – come il fracking – rappresentano una seria preoccupazione per il regime saudita, in quanto una maggiore offerta globale di idrocarburi implica una pressione al ribasso dei prezzi. Per il governo di Riad, anche i sempre maggiori sforzi globali per contrastare il cambiamento climatico costituiscono dei rischi da gestire con cautela. Anche se sul piano interno il governo di Riad sta investendo nelle energie rinnovabili, a livello internazionale i sauditi si battono per prolungare il più possibile il ruolo centrale del petrolio nel settore delle risorse energetiche, attraverso un forte attivismo nelle organizzazioni internazionali e anche cercando alleati all’interno degli USA, soprattutto negli Stati produttori di carburanti o automobili – ad esempio allo scopo di promuovere lo sviluppo di carburanti fossili più efficienti.
Nonostante la determinazione dei leader sauditi e la loro capacità di influenzare le scelte di politica estera delle amministrazioni di Washington sfruttando le opportunità offerte ai gruppi di interesse dalla struttura del sistema politico americano, sembra utile ricordare che in questa relazione sempre più tesa i sauditi rischiano molto di più degli americani. A seguito dell’annuncio dell’accordo Opec Plus dello scorso ottobre, Biden ha dichiarato che per i sauditi “ci saranno alcune conseguenze per quello che hanno fatto con la Russia”. I risultati delle elezioni di metà mandato sono stati più favorevoli del previsto per il presidente in carica, e sembra che anche nel Congresso degli Stati Uniti siano sempre di più i rappresentanti e i senatori determinati a mettere in dubbio l’utilità della relazione fra Washington e Riad. Gli Stati Uniti svolgono un ruolo di primo piano in numerose questioni di vitale importanza per l’Arabia Saudita, dalla protezione del regno alla garanzia che le petroliere che trasportano gli idrocarburi del Golfo Persico possano superare lo Stretto di Hormuz e raggiungere i mercati mondiali; dal miglioramento dei rapporti con altre potenze chiave della regione come Israele all’assicurazione che l’Iran non acquisisca un arsenale atomico. Quando si tratta di garantire la sopravvivenza del regno, i leader sauditi si trovano in effetti di fronte a difficili decisioni. Il petrolio, che costituisce una risorsa fondamentale per garantire all’Arabia Saudita potere e influenza a livello globale, risulta paradossalmente essere anche una sorta di “maledizione” che pone il regno di fronte a complicati dilemmi.
Diego Pagliarulo
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