Lo scorso 29 dicembre è stato ufficialmente varato il nuovo governo di Israele. Benjamin Netanyahu – un politico di lungo corso anche noto come “Bibi” – è il leader del partito conservatore Likud e detiene il record di Primo ministro più longevo nella storia di Israele, una posizione che rivestirà di nuovo per la durata della legislatura inaugurata a seguito delle elezioni del novembre 2022.
Dopo circa tre anni di forte instabilità politica – che ha costretto i cittadini israeliani a votare per ben cinque volte – il nuovo governo può godere di una maggioranza parlamentare di 64 seggi su 120, che riflette una coalizione formata essenzialmente da tre gruppi: il già citato Likud a cui si aggiungono un raggruppamento di forze nazionaliste e un’alleanza di partiti di ispirazione religiosa. Sebbene le coalizioni composte da più partiti siano un aspetto tipico del sistema politico israeliano, è la prima volta che un governo ha un orientamento così nettamente di destra.
Il nuovo esecutivo sembra dunque avere la possibilità di porre fine alla stagione di instabilità che ha caratterizzato il paese negli ultimi tempi. Tuttavia, alcuni fattori generano forte incertezza circa l’azione del nuovo governo israeliano, e hanno addirittura spinto alcuni commentatori o influenti testate giornalistiche, come il New York Times, ad esprimere preoccupazioni a riguardo del futuro della democrazia israeliana. Tra questi fattori spiccano l’importanza fondamentale delle forze nazionaliste e religiose nel definire la maggioranza parlamentare alla base del nuovo governo e la controversa posizione personale di Netanyahu, che si trova sotto inchiesta in relazione a diversi scandali legati alla corruzione.
Sebbene sia impossibile prevedere il futuro, sia importante giudicare i governi in base al loro effettivo operato e sia fondamentale ricordare che Israele è caratterizzato da solide istituzioni democratiche fin dalla sua nascita come Stato indipendente nel 1948, uno sguardo alle personalità destinate a rivestire un ruolo di primo piano nel nuovo esecutivo e ad alcuni dei progetti di riforma inclusi nell’agenda del nuovo governo può permettere di valutare il potenziale impatto della nuova stagione politica israeliana su questioni di importanza cruciale nella vita del paese, come l’identità nazionale, gli equilibri costituzionali, i diritti civili, il processo di pace con il popolo palestinese, il processo di normalizzazione delle relazioni con i paesi arabi iniziato con gli “Accordi di Abramo” o i rapporti con gli Stati Uniti.
Il partito di Netanyahu, che con 32 seggi parlamentari domina questa nuova coalizione, ha naturalmente ottenuto anche importanti posizioni nell’esecutivo. Eli Cohen, un esponente del Likud che aveva già ricoperto incarichi ministeriali nei precedenti governi guidati da Netanyahu (in particolare nel settore dei servizi segreti), è stato nominato ministro degli Esteri. Yoav Gallant, un comandante delle Forze di difesa israeliane in congedo e membro del Likud, è stato nominato ministro della Difesa. Un altro esponente del partito di Netanyahu, Yariv Levin, è stato assegnato al ministero della Giustizia, e anche Amir Ohana, il nuovo presidente della Knesset (il Parlamento israeliano), fa parte del Likud.
È da notare, tuttavia, il fatto che alcuni dei leader più in vista dei partiti di destra nazionalista e religiosa che sostengono la nuova coalizione guidata da Netanyahu hanno ottenuto posizioni di forte rilievo nel nuovo esecutivo. È questo il caso, ad esempio, di Bezalel Smotrich, il leader del Partito religioso sionista, che è divenuto ministro delle Finanze e di Itamar Ben-Gvir, esponente di “Potere ebraico” che è stato nominato ministro per la Sicurezza Nazionale. Aryeh Deri, il leader del partito ultra-ortodosso Shas, è stato designato come guida dei ministeri dell’Interno e della Sanità, e Avigdor “Avi” Maoz, che fa parte della formazione nazionalista Noam, ha ottenuto incarichi di governo nel campo dell’istruzione.
Molte di queste nomine hanno destato forti critiche in relazione a potenziali conflitti di interesse, alla dubbia adeguatezza a ricoprire incarichi di governo e al carattere potenzialmente radicale o pericoloso delle politiche proposte in passato e nell’ultima campagna elettorale dagli esponenti del nuovo esecutivo. Il nazionalista Maoz potrà ad esempio influenzare il sistema di istruzione e promuovere l’“identità ebraica” di Israele – un paese che include anche importanti minoranze non ebraiche fra cui spiccano i cittadini arabi, che costituiscono circa il 21% della popolazione totale. Questa scelta ha generato fra l’altro forti preoccupazioni per la comunità LGBT+ israeliana, in quanto Maoz si è fortemente distinto per le sue dichiarazioni pubbliche di carattere marcatamente omofobo. Questa nomina contrasta inoltre con il carattere inclusivo e di apertura nei confronti dei diritti civili simbolizzato dall’elezione di Amir Ohana, che ha pubblicamente dichiarato la propria omosessualità, alla presidenza della Knesset. La responsabilità di promuovere l’identità ebraica di Israele affidata a Maoz sembra anche destinata a concretizzarsi in un maggiore sostegno economico nei confronti degli Haredim – i cittadini israeliani ultra-ortodossi – il cui tasso di partecipazione all’economia è inferiore alla media, e a finanziare con maggiori risorse gli istituti scolastici ultra-ortodossi, che privilegiano l’insegnamento della religione a quello di materie come le scienze e la matematica o lo studio dell’inglese. Questo tipo di misure potrebbe avere l’effetto perverso di disincentivare ulteriormente la partecipazione degli Haredim alla forza lavoro e aumentare il carico fiscale per i lavoratori israeliani. La maggiore attenzione per l’insegnamento delle materie religiose a discapito di quelle scientifiche potrebbe inoltre intaccare la competitività di Israele in settori chiave per l’economia del paese come quello dell’informatica e dell’alta tecnologia.
Anche la nomina di Itamar Ben-Gvir come ministro della Sicurezza Nazionale ha generato forti tensioni e timori di una maggiore politicizzazione delle forze armate israeliane. Il leader di “Potere ebraico” è stato in passato condannato per istigazione all’odio razziale nei confronti degli arabi e apologia del terrorismo, e per questo motivo non è stato autorizzato a prestare il servizio militare. In virtù del nuovo incarico, a Ben-Gvir è stata assegnata anche la direzione delle forze di polizia e delle autorità per il controllo delle frontiere. Il nuovo ministro ha recentemente fatto dichiarazioni pubbliche che ribadiscono una concezione fortemente identitaria ed esclusiva della comunità politica israeliana, e uno dei suoi primi atti in qualità di membro del governo, lo scorso 3 gennaio, è stata una visita presso la Spianata delle Moschee (anche nota come “Monte del Tempio”) a Gerusalemme, un luogo di primaria importanza dal punto di vista religioso e il cui accesso è regolato in maniera molto delicata. Questa decisione ha generato forti risentimenti e proteste da parte dei palestinesi e dei governi di alcuni Stati arabi, soprattutto quello della vicina Giordania, che ha definito come una “linea rossa” il rispetto degli accordi riguardo un’area particolarmente importante sia per i musulmani che per gli ebrei e i cristiani.
Il nuovo governo israeliano sta in effetti generando forti preoccupazioni circa il futuro del processo di pace israelo-palestinese. L’accordo su cui si basa la nuova coalizione di governo cita espressamente l’intenzione di sviluppare gli insediamenti sul territorio dello Stato di Israele, includendo in questa definizione anche la “Giudea” e la “Samaria”, che corrispondono a territori della Cisgiordania su cui, in base ai principi su cui si fonda il processo di pace, è destinato a sorgere lo Stato palestinese. È inoltre da notare che Belaziel Smotrich, il nuovo ministro delle Finanze, ha anche ricevuto una posizione nel ministero della Difesa in relazione all’amministrazione civile dei territori occupati, un ruolo che gli conferisce autorità sull’autorizzazione e il finanziamento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Smotrich è famoso per essere un convinto sostenitore di questo tipo di insediamenti, che minano il processo di pace e che la comunità internazionale considera contrari al diritto internazionale. Anche Yoav Gallant, il ministro della Difesa, è ritenuto favorevole alle politiche di insediamento israeliane nei territori della Cisgiordania.
La prospettiva di un’espansione degli insediamenti in Cisgiordania fa anche temere una nuova ondata di violenza tra israeliani e palestinesi. A tal riguardo, è bene considerare che il 2022 è stato un’anno particolarmente sanguinoso, con 150 morti palestinesi e 20 israeliani, secondo le stime delle Nazioni unite. Oltre al dramma della ripresa della violenza tra israeliani e palestinesi, l’orientamento del nuovo governo potrebbe mettere in discussione i risultati degli “Accordi di Abramo” – il processo di normalizzazione delle relazioni fra Israele e alcuni paesi arabi, tra cui in particolare alcuni paesi del Golfo Persico come gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein. Questi paesi condividono con Israele un’avversione per il regime iraniano e si oppongono alla ripresa dei negoziati sul programma nucleare del regime di Teheran. Gli Accordi di Abramo hanno anche offerto importanti opportunità commerciali tra Israele e i suoi vicini arabi. Tuttavia il profondo disinteresse per il processo di pace israelo-palestinese manifestato da molti esponenti del nuovo governo è destinato a creare forte risentimento e a mettere in forte difficiltà i governi dei paesi arabi interessati a normalizzare o approfondire le relazioni con Israele. Le ambizioni dell’ala di destra nazionalista e religiosa che regge il nuovo esecutivo guidato da Netanyahu potrebbero anche complicare le relazioni fra Israele e gli Stati Uniti. Il presidente USA Joe Biden è stato uno dei primi leader internazionali a congratularsi con “Bibi” per la formazione del nuovo governo, e in un recente viaggio in Israele e nei territori palestinesi l’Assistente per la sicurezza nazionale Jake Sullivan ha confermato l’impegno di Washington a sostenere Israele e a fare in modo che l’Iran non si doti di un arsenale atomico. Tuttavia sia Biden che Sullivan e il segretario di Stato Antony Blinken hanno ribadito il sostegno americano alla soluzione dei “due Stati” per quanto riguarda la questione israelo-palestinese, è all’interno dell’amministrazione Biden sono in atto valutazioni su come interagire con i nuovi partner di Netanyahu.
I dilemmi che caratterizzano l’atteggiamento di Washington riflettono la delicatezza e il carattere fortemente divisivo e preoccupante della coalizione di governo che ha permesso a Netanyahu di tornare al potere. “Bibi” è un politico di lungo corso la cui carriera è costellata di decisioni controverse e divisive, come l’opposizione agli accordi di Oslo del 1993 sul processo di pace israelo-palestinese o perfino alcune dichiarazioni piuttosto gravi e al tempo stesso imbarazzanti sulle responsabilità dell’Olocausto. Parte dell’instabilità politica attraversata da Israele negli ultimi anni può essere attribuita proprio al carattere controverso e divisivo della figura di Netanyahu. Al tempo stesso, Netanyahu è riuscito a conquistare il record di Primo ministro più longevo della storia di Israele grazie a una grande capacità di comprendere le preoccupazioni degli elettori israeliani e a un pragmatismo che gli ha permesso sia di costruire coalizioni sul piano interno sia di ampliare la rete di relazioni internazionali di Israele. Durante l’ultima campagna elettorale, Netanyahu ha enfatizzato il carattere inclusivo e democratico di Israele. Parlando della nuova coalizione, e con l’intenzione di rassicurare sia parte dell’opinione pubblica nazionale che i principali partner internazionali di Israele, il nuovo Primo ministro ha recentemente dichiarato che “sono loro a unirsi a me. Non sono io che mi unisco a loro”, e ha difeso la coalizione osservando che “con il potere arriva anche la responsabilità”.
Tuttavia, la controversa posizione personale di Netanyahu, che è al momento sotto inchiesta per corruzione, rischia di complicare sostanzialmente il difficile equilibrismo tra destra tradizionale ed estrema destra che caratterizza la nuova coalizione, e potrebbe influire negativamente anche sull’assetto costituzionale della democrazia israeliana. Fra l’altro, “Bibi” non è l’unico esponente della nuova coalizione ad avere problemi con la giustizia. La Corte suprema di Israele ha infatti bloccato le nomine di Aryeh Deri alla Sanità e agli Interni a causa di una condanna per evasione fiscale a suo carico. Il nuovo governo sembra insomma destinato a creare seri conflitti tra potere esecutivo e potere giudiziario. Il ministro della Giustizia, Yariv Levin, ha proposto una riforma del sistema giudiziario che potrebbe aumentare l’influenza politica sulla scelta dei giudici e ridurre l’autorità della Corte suprema del paese. I progetti di riforma della giustizia proposti dal nuovo governo hanno generato timori di una maggiore politicizzazione del sistema giudiziario israeliano – una prospettiva che può preoccupare sia per i potenziali conflitti di interesse che caratterizzano la posizione di Netanyahu e altri membri della coalizione, sia per il rischio di un’erosione degli equilibri costituzionali necessari a garantire la democraticità dello Stato. A tal proposito è utile ricordare che Israele non ha una carta costituzionale convenzionale, ma piuttosto una serie di “leggi fondamentali” – di cui è garante proprio la Corte suprema – che definiscono l’architettura costituzionale e regolano la tutela dei diritti fondamentali. Il progetto delineato da Levin ha destato critiche da parte di esponenti dell’opposizione e del sistema giudiziario, e ha convinto decine di migliaia di cittadini a scendere in piazza già due volte, il 14 gennaio e il 21 gennaio, per esprimere dissenso nei confronti della riforma.
Israele sembra insomma avere la possibilità di recuperare la stabilità politica persa negli ultimi anni, ma al tempo stesso si trova a una sorta di bivio tra una svolta verso una destra “pragmatica” rappresentata da Netanyahu e una destra più estrema e identitaria, rappresentata dai suoi alleati nazionalisti e religiosi. Quale sarà il prezzo necessario per tenere in piedi la coalizione e quali saranno gli effetti a lungo termine sull’identità, i valori, gli equilibri costituzionali, l’economia e il posto di Israele nella comunità internazionale rappresentano al momento delle incognite molto difficili da valutare.
Diego Pagliarulo