Dall’inizio del 2023 il contesto domestico tunisino ha continuato ad essere caratterizzato, sulla scia degli ultimi anni, dal disordine e da un generale malcontento. Un’instabilità che è una chiara conseguenza della grave crisi economica e di una situazione politica molto delicata, in seguito alle decisioni prese del presidente Kaïs Saïed dopo la sua salita al potere. A ciò si aggiunge il dossier migratorio che rende calde le relazioni con i paesi della sponda Nord del Mediterraneo, Italia su tutti.
Sul fronte politico, gli eventi dell’ultimo biennio hanno visto un accentramento dei poteri nelle mani del presidente. Dopo aver sospeso il Parlamento, sciolto il governo ed esautorato qualsiasi forma di contropotere nel luglio dello scorso anno, Saïed ha introdotto una nuova Costituzione, riducendo notevolmente l’importanza dei partiti politici all’interno del sistema, definendoli come “nemici del popolo”. Particolare attenzione è stata dedicata, per ovvi motivi, al principale partito presente nel paese, Ennahda. La lotta al partito di orientamento islamista ha raggiunto il culmine con l’arresto del suo leader Rached Ghannouchi. Lo scorso 15 maggio l’ex presidente del Parlamento, 81enne, è stato infatti condannato a un anno di reclusione con l’accusa di “promuovere l’odio religioso”. Anche i sindacati, che nelle fasi iniziali della presidenza Saïed avevano mantenuto un atteggiamento neutrale, hanno iniziato ad assumere posizioni contrarie alle decisioni del capo di Stato. Negli ultimi mesi non sono mancate manifestazioni contro l’ex professore di diritto costituzionale. Centinaia di sostenitori dell’opposizione – riuniti nel Fronte di salvezza nazionale, che vede al suo interno anche il partito Ennahda, il movimento Stop the Coup e altri partiti politici – hanno sfidato il divieto di protesta imposto dalla presidenza e sono scesi per le strade di Tunisi per chiedere il rilascio dei principali oppositori arrestati. Il più grande sindacato presente nell’ex colonia francese, l’Union générale tunisienne du travail (Ugtt), aveva organizzato diverse giornate per manifestare il proprio dissenso: in una di queste, a Sfax, aveva partecipato anche Esther Lynch, segretaria generale della Confederazione europea dei sindacati (CES), costretta a lasciare il paese perché considerata “persona non grata” dal capo di Stato, proprio a causa della sua adesione alla manifestazione. I recenti sviluppi hanno fatto sì che la Tunisia, secondo diversi analisti, perdesse l’etichetta di paese democratico. Senza ombra di dubbio, il presidente ha attuato politiche con l’unico fine di eliminare qualsiasi tipo di opposizione, allargando la polarizzazione e aumentando le tensioni razziali. Al contempo, la magistratura è finita nella rete presidenziale e gli attacchi alle libertà di espressione e stampa sono diventati sempre più frequenti.
L’economia del paese maghrebino continua ad essere in forte crisi, con il governo che non è ancora stato in grado di trovare una via d’uscita da tale situazione. La mancanza di miglioramento dell’economia, e di conseguenza del benessere della popolazione, ha portato molti tunisini alla conclusione che l’establishment politico non è in grado di attuare politiche che risolvano le profonde crepe economiche del paese. Una sfiducia che, tra le altre cose, era stata la ragione principale dietro l’abbraccio, nel 2019, del popolo a Saïed, considerato anti-establishment e poi potenziale salvatore del paese in piena pandemia di Covid-19. Tuttavia, da allora il presidente non ha intrapreso alcuna azione significativa per risolvere la terribile situazione economica e sociale. Secondo la Banca Mondiale, la crescita del Pil nel 2023 dovrebbe attestarsi intorno al 2,3%. Tale andamento è però soggetto a delle condizioni, come alcune riforme strutturali. Una di queste consisterebbe nell’eliminazione graduale dei sussidi energetici, che hanno sempre più peso sulla bilancia: da una media del 2,1% del Pil nell’ultimo decennio si è passati al 5,3% nel 2022. Il mancato accesso ai finanziamenti internazionali, tra cui spicca il prestito dal Fondo monetario internazionale (Fmi) di 1,9 miliardi di dollari, ha praticamente reso impossibile il finanziamento locale del debito. A tale contesto si aggiunge l’inflazione che ha raggiunto, nei primi mesi del 2023, un tasso di oltre il 10%, a causa dell’aumento dei prezzi dell’energia e dei prodotti alimentari.
Infine, il dossier migratorio. La lotta ai migranti subsahariani avviata dal capo di Stato mira, chiaramente, a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalla grave crisi socio-economica in cui versa il paese. Il dialogo bilaterale con la controparte europea (e italiana) è stato infatti incentrato – oggi come nel recente passato – su una logica politico-securitaria che vede la questione dell’immigrazione come un problema di sicurezza che necessita di interventi alle radici. I finanziamenti che Tunisi riceve da Italia e Unione Europea per tentare di arginare i flussi migratori e al contempo agevolare i rimpatri, rientrano in quella politica avviata all’indomani dello scoppio delle cosiddette “Primavere arabe” quando i paesi europei – e la stessa Unione – hanno iniziato una serie di interventi per rafforzare i propri confini. Al tempo stesso si pone la questione che Tunisi stia effettivamente usando l’arma dei flussi migratori per tentare di ottenere agevolazioni e ulteriori finanziamenti dalla controparte europea. L’uso dei flussi migratori come “strumento di ricatto” nei confronti del Vecchio continente non è nuovo. Già nel 2010 l’ormai defunto leader libico Moammar Gheddafi chiedeva alla controparte europea 5 miliardi di euro all’anno per fermare la migrazione illegale africana. Il neoeletto presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha ripetutamente minacciato di inondare l’Ue con i “suoi rifugiati” e nel 2016 ha raggiunto un accordo con Bruxelles per fermare i flussi in cambio di 6 miliardi di euro in aiuti. Altri Stati hanno utilizzato le stesse tecniche intimidatorie con obiettivi molto più ristretti. Le autorità marocchine, nel recente passato, hanno incoraggiato migliaia di migranti a nuotare intorno a una recinzione di confine ed entrare a Ceuta, enclave spagnola su territorio marocchino, in risposta ad alcuni atteggiamenti di Madrid ritenuti ostili da Rabat. Ancora, recentemente sul fronte terrestre orientale europeo, la crisi umanitaria “orchestrata” da Alexander Lukaschenko aveva come obiettivo quello di turbare, umiliare e seminare divisioni all’interno dell’Ue dopo il mancato riconoscimento da parte di Bruxelles della vittoria del presidente bielorusso alle elezioni presidenziali del 2020.
Non è strano quindi che il presidente tunisino stia tentando di utilizzare tale strumento per raggiungere i propri fini. Altresì, andrebbe evidenziato come l’interferenza di attori stranieri, che attuano pressioni su organismi internazionali in favore della Tunisia, non aiuta il dialogo tra le diversi parti all’interno del contesto domestico, anzi di fatto lo contrasta. Al contempo, il supporto che alcuni paesi europei – Italia e Francia su tutti – forniscono oggi alla Tunisia non fa che rafforzare l’idea dell’esternalizzazione dei confini dell’Unione europea sempre più marcata che rende di fatto nulli quelli tunisini. In altre parole, i paesi europei si sostituiscono nella gestione delle frontiere alle autorità di Tunisi. Seguendo questa prospettiva, tale supporto è, evidentemente, un fattore che rema contro la consolidazione delle strutture statali di un paese che sta attraversando una fase delicata della sua recente storia.
Nei prossimi mesi, salvo eventi eccezionali, la situazione non dovrebbe subire forti cambiamenti. Il decisore politico della Tunisia resterà Kaïs Saïed. Nonostante le forti critiche sulla mancanza di un vero piano del governo per uscire da una crisi economica che perdura da un decennio, difficilmente la presidenza cambierà la sua tabella di marcia. Un cammino – quello avviato dal 2019 – che ha visto una chiara contrazione degli indicatori democratici, ma che non appare, per il momento, essere rifiutato da tutta la popolazione. In tale quadro sembra necessario un ambizioso programma di riforme per soddisfare le esigenze di finanziamento e promuovere una crescita economica sostenibile. Con le giuste politiche, l’economia tunisina avrebbe un potenziale significativo per prosperare nel prossimo futuro. Tuttavia, bisognerebbe ridurre al minimo l’impatto sulle famiglie. Negli ultimi anni, infatti, per molti tunisini, i blackout elettrici e la scarsità idrica sono diventati sfide quotidiane. La cattiva gestione delle risorse e l’incapacità di fornire beni di prima necessità come cibo, acqua e alloggi hanno causato una diffusa ansia sociale e disincanto politico che merita, evidentemente, una maggiore attenzione da parte delle autorità nazionali. L’Europa resta ad osservare gli eventi, interessata in particolar modo alla questione migratoria. La mancanza di una politica comune sul dossier “costringe” i singoli membri a rivolgersi ai paesi di origine e di transito in cerca di soluzioni, al fine quantomeno di arginare i flussi, a discapito di quei valori che da troppo tempo si tenta di esportare.
Mario Savina
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