Ci si aspettava che anche questa volta, dopo una dura repressione da parte delle autorità iraniane, il popolo avrebbe accettato la situazione e si sarebbe riadattato alle condizioni preesistenti. Eppure, sono ormai quasi otto mesi che la resistenza continua la sua lotta in diverse forme.
In effetti, la rivolta scoppiata dopo la morte della giovane ragazza Mahsa Amini all’urlo di Donna, Vita, Libertà è considerata principalmente una lotta per i diritti delle donne, sebbene non si limiti soltanto alla questione femminile, ricomprendendo ben altre rivendicazioni. Una lotta che è in continua evoluzione e che abbraccia più tematiche: dai diritti fondamentali e basilari, come quello di scegliere il proprio stile di vita, alla libertà di espressione, dalla lotta contro la povertà alla caotica situazione economica, dalla corruzione e appropriazioni indebite da parte dei dirigenti dei vertici statali alla crisi ambientale, per finire alle sanzioni paralizzanti che hanno isolato il paese dal resto del mondo.
Una società in ginocchio, quella iraniana, che da diversi anni ha cercato in vari modi di far sentire la propria sofferenza e di spingere per un cambiamento radicale. La disobbedienza sociale e il boicottaggio alle ultime elezioni parlamentari e presidenziali sono solo alcuni degli strumenti usati dal popolo iraniano per dimostrare a livello nazionale l’intolleranza verso un sistema politico obsoleto, che rimane ancora molto arretrato rispetto alla velocità dello sviluppo socioculturale della società iraniana.
Oggi, mentre in diverse occasioni i manifestanti gridano lo slogan “questo è l’ultimo messaggio, l’obiettivo è tutto il regime (Nezam)” – dove la parola Nezam rappresenta il sistema politico, ideologico ed economico dello Stato nel suo complesso –, i diversi organi statali stanno cercando di sviluppare metodi per controllare lo svelamento delle donne (Kashf-e Hejab). Il termine, utilizzato dai più radicali, è collegato a Reza Shah, fondatore della dinastia Pahlavi nel 1925, che per la modernizzazione del paese ha applicato la legge dello svelamento forzato nel 1936, abolita dal suo successore nel 1941. Sebbene prima servisse una legge ad hoc, oggi le donne di propria spontanea volontà non vogliono portare il velo.
L’ayatollah Khamenei, il supremo leader e simbolo del potere assoluto in Iran, nel suo ultimo discorso di aprile ha dichiarato che rimuovere l’hijab è proibito dal punto di vista religioso e politico e vi è una restrizione giuridica a proposito; mentre in dichiarazioni precedenti si esprimeva in maniera diversa, ossia che non tutte le donne che tolgono il velo sono contro i valori rivoluzionari della Repubblica islamica. Attualmente, analizzando i discorsi nella sfera pubblica del paese e i comportamenti socio-politici, il corpo femminile diventa nuovamente uno strumento fondamentale per il conflitto politico tra gruppi religiosi che sostengono il leader supremo (velàyati), da un lato, e il resto della società – ossia il segmento sociale e il mondo politico dell’Iran che, a prescindere dalla religione, è contrario al velo – nonché, a livello internazionale, le potenze occidentali, dall’altro.
Il fallimento della struttura ideologica della Repubblica islamica sta spingendo ancora di più ad uno scontro civile tra gli iraniani. La minoranza esistente, che crede ancora ad un sistema basato sul Velayate Faqih, ad oggi gode di una totale autonomia concessa dalle autorità iraniane nell’intervenire e violare lo spazio privato e pubblico dei propri cittadini.
Questo paradosso e le contraddizioni esistenti nella società iraniana si possono analizzare proprio tramite l’ultimo tassello della celebrazione della festività di Nowruz, il Nuovo Anno Persiano: il Giorno della natura (Sizdah Bedar) ricorre infatti il tredicesimo giorno dopo Nowruz, in cui i persiani, per concludere la festività primaverile, escono di casa a festeggiare nella natura. In questa occasione, il governo ha vietato qualsiasi festa fino alle ore 16:00, ora dopo la quale gli iraniani potevano uscire di casa, in quanto durante il mese del Ramadan (che quest’anno è coinciso con la festività di Nowruz) è vietata qualsiasi celebrazione che non abbia natura religiosa. Nowruz è una festa nazionale pre-islamica, nonché la più importante celebrazione persiana. Nonostante il divieto, gran parte della popolazione è invece uscita di casa, violando le regole religiose, ascoltando musica e danzando, mostrando un atteggiamento di sfida collettiva nei confronti del sistema politico iraniano.
Il cambiamento sociale in questi 44 anni e la resistenza che ne è derivata dimostrano che gli iraniani ormai non accettano più leggi discriminatore come quelle imposte dal regime. La voglia di resistere è infatti più forte dei rischi di persecuzione, condanne pesanti, terrore e torture. La repressione governativa e le violenze verso i manifestanti, che rappresentano spesso famiglie in difficoltà economica, hanno aumentato la drammaticità e i sentimenti d’odio verso l’establishment.
Il paradosso è che, con la fondazione della Repubblica islamica, Ruhollah Khomeini aveva utilizzato diffusamente la parola mostaz’afin, letteralmente “i diseredati”, per creare un sistema socio-politico a favore delle persone emarginate. In seguito, nel 1979 egli creò la Fondazione dei diseredati (bonyad-e mostaz’afin), usando i capitali confiscati dalla Fondazione Pahlavi, che dopo la guerra tra Iran e Iraq era diventata la Fondazione dei diseredati e veterani di guerra. Oggi quello stesso strato sociale è sceso nelle strade a manifestare contro il regime di Teheran e a gridare “giustizia” con l’obiettivo di porre fine a questo sistema autoritario.
La rigidità governativa per alcune riforme fondamentali e l’impossibilità di organizzare un referendum popolare, nonostante l’art. 59 della Costituzione fornisca questo diritto, ha creato ulteriori tensioni. Il referendum, infatti, richiederebbe l’ordine da parte del Supremo leader Ali Khamenei e poi dei due terzi dei membri del Parlamento. Hassan Rouhani, ex presidente iraniano, diverse volte negli ultimi anni del suo mandato aveva menzionato di voler indire un referendum popolare per alcuni complessi problemi sociali, politici ed economici del Paese, ma non è stato mai ascoltato.
Infine, una serie di ulteriori punizioni verso le donne che non portano il velo è stata imposta dall’autorità iraniana, come il blocco all’accesso dei conti bancari, il blocco all’entrata dei luoghi pubblici, come biblioteche, università, scuole, ristoranti, centri commerciali. Ma ancora oggi la lotta continua e le persone che manifestano seguono una serie di azioni di disobbedienza civile nei confronti del regime per sfidare le leggi discriminatorie contro le donne.
Sebbene, a livello di social media, esista un supporto massivo verso le donne in Iran e i paesi occidentali abbiano cercato di imporre altre sanzioni contro il governo iraniano per la violazione dei diritti umani, nelle ultime settimane, l’Iran ha rafforzato la sua posizione a livello internazionale, soprattutto con la ripresa delle relazioni con l’Arabia Saudita, congelate dal 2016. Un ripristino che è stato possibile grazie al ruolo della Cina come mediatore tra i due attori mediorientali. Un accordo di pace che potrebbe cambiare fortemente il destino di diversi paesi nella regione, da quello yemenita e iracheno a quello libanese e siriano.
In Europa, invece, il Parlamento svedese ha votato a favore nel riconoscimento dell’IRGC come gruppo terroristico, mentre il 12 maggio 2023 il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite ha nominato Teheran presidente di un forum incentrato sull’uso della tecnologia (“Sociale Forum 2023 Unhcr”) per promuovere i diritti umani: una decisione contrastante rispetto al dicembre 2022, quando l’Onu aveva votato per estromettere l’Iran dalla Commissione sullo status delle donne perché “mina continuamente e sopprime sempre più i diritti umani delle donne e delle ragazze”.
Shirin Zakeri