La guerra di aggressione russa che da più di un anno dilania l’Ucraina ha inevitabilmente monopolizzato l’attenzione degli statisti e dell’opinione pubblica occidentali, ponendo in secondo piano molti dei dossier che dominano le dinamiche geopolitiche dello scacchiere mediterraneo e mediorientale. Questo calo di attenzione non deve tuttavia far dimenticare che il Mediterraneo e il Medio Oriente presentano ancora numerosi focolai di tensione, in molti casi collegati al conflitto ucraino o esacerbati dalle conseguenze indirette della guerra in Europa. La natura sempre più tesa dei rapporti tra la Russia e l’Occidente è chiaramente evidenziata dal recente schieramento di aerei F-22 da parte degli Stati Uniti in Medio Oriente, in risposta a quello che il governo di Washington definisce un “comportamento imprudente e non-professionale” da parte delle forze aeree russe operanti in Siria. Tra gli elementi di rischio che sembrano essere maggiormente influenzati dalla situazione in Ucraina si possono in particolare citare i negoziati a riguardo del programma nucleare iraniano e l’evoluzione dei prezzi delle risorse energetiche e dei generi alimentari – dossier economici e di sicurezza che potrebbero avere conseguenze notevoli per gli equilibri geopolitici del Mediterraneo e del Medio Oriente.
La guerra in Ucraina ha favorito una più stretta collaborazione tra l’Iran e la Russia, sia sul piano politico che sotto il profilo militare. Lo scorso febbraio, l’Iran è stato uno dei pochi Stati membri delle Nazioni unite a non condannare la guerra di aggressione lanciata dal regime di Vladimir Putin contro l’Ucraina – scegliendo di astenersi dal voto. L’Iran ha anche garantito assistenza militare alla Russia, fornendo in particolare dei droni che sono stati utilizzati contro l’Ucraina. I rapporti militari tra Teheran e Mosca hanno continuato a crescere anche di recente, e in particolare sembra essersi creata una connessione marittima stabile tra Iran e Russia attraverso il Mar Caspio. Il governo russo ha anche segnalato l’intenzione di investire nello sviluppo delle infrastrutture e dei trasporti in Iran.
La cooperazione tra Teheran e Mosca ha reso più complicata la gestione del dossier relativo al programma nucleare iraniano e in particolare i tentativi di rivitalizzare la cornice di cooperazione creata dall’accordo del 2015 – noto come Joint Comprehensive Plan of Action o Jcpoa – che dispone un regime di ispezioni internazionali e una graduale rimozione delle sanzioni internazionali contro il regime di Teheran, allo scopo di garantire che il programma nucleare iraniano abbia esclusivamente una dimensione civile. Il trattato è ancora formalmente in vigore, ma gli Stati Uniti hanno abbandonato l’accordo e adottato un aspro regime di sanzioni nel maggio 2018, durante gli anni dell’amministrazione guidata da Donald Trump, e a seguito di questa scelta molto controversa l’Iran ha iniziato a violare molte delle disposizioni del Jcpoa – che fino a quel punto era stato applicato con successo. Entrambi questi sviluppi hanno reso molto più alte le probabilità che l’Iran possa dotarsi di una bomba atomica, e che il Medio Oriente precipiti in una corsa agli armamenti o in nuova spirale di conflitto.
Le tensioni tra Stati Uniti e Iran rimangono notevoli. Il governo di Washington ha recentemente inasprito le sanzioni economiche contro il regime di Teheran e confiscato una petroliera che trasportava petrolio iraniano. Nonostante questi episodi, ci sono segnali che sembrano indicare la possibilità di progressi significativi sulla strada di un nuovo accordo. Allo stesso tempo, tuttavia, vanno osservati alcuni elementi che potrebbero far deragliare il percorso verso una soluzione del problema. Sul fronte degli sviluppi incoraggianti, si può segnalare il riavvicinamento tra l’Iran e l’Arabia Saudita. Grazie a una mediazione cinese, i due paesi – che rappresentano i principali poli di una dinamica di contrapposizione regionale tra le monarchie arabe del Golfo Persico e il regime di Teheran – hanno deciso di ripristinare le relazioni diplomatiche, interrotte dal 2016. Il riavvicinamento tra Teheran e Riad sembra riflettere una tendenza generale tra i paesi arabi del Golfo in favore di una riduzione della tensione e un maggiore interesse nel trovare una soluzione politica alla questione del nucleare iraniano, e forse anche nella ricerca di un accordo di più ampio respiro. Anche se il protagonista della mediazione tra Teheran e Riad è stato il governo cinese, questo sviluppo è in linea con le preferenze e gli obiettivi dell’amministrazione statunitense guidata da Joe Biden, che ha costantemente indicato il suo interesse a ripristinare la cornice del Jcpoa.
Sebbene i contatti ufficiali tra rappresentanti USA e iraniani in relazione all’accordo del 2015 restano ancora interrotti, canali informali indicano la possibilità di una sorta di “cessate-il-fuoco politico” tra Washington e Teheran, un accordo tacito in base a cui l’Iran si impegnerebbe a non superare i livelli di guardia relativi all’arricchimento dell’uranio e altre attività connesse al programma nucleare, limitare le attività delle milizie filo-iraniane operanti in Iraq e Siria ed evitare la vendita di missili alla Russia, e in cambio gli Stati Uniti accetterebbero di non inasprire ulteriormente le sanzioni e non ripetere episodi come la recente confisca di petroliere cariche di petrolio iraniano. La volontà di evitare un’ulteriore escalation è stata manifestata anche dall’ayatollah Ali Khamenei – la “guida suprema” del regime di Teheran – che ha recentemente ribadito la linea ufficiale secondo cui il programma nucleare iraniano ha scopi esclusivamente civili e l’impegno del regime a non perseguire lo sviluppo di un arsenale atomico, dichiarando che “non c’è nulla di male in un accordo” con l’Occidente, a patto che l’Iran possa continuare il suo programma nucleare.
Questo quadro ottimistico è tuttavia complicato dall’orientamento del governo israeliano nei confronti dell’Iran. La leadership israeliana ha costantemente espresso una profonda avversione nei confronti del programma nucleare iraniano e manifestato una dura opposizione nei confronti dell’accordo del 2015 – un atteggiamento condiviso fino alla scorsa primavera anche dall’Arabia Saudita e da altre monarchie del Golfo. Israele ha anche chiaramente manifestato l’intenzione di riservarsi la possibilità di utilizzare l’opzione militare a fini di controproliferazione nei confronti dell’Iran. Il sempre più stretto legame di cooperazione tra Teheran e Mosca sta inoltre rendendo più complesso e volatile l’atteggiamento del governo isaeliano. I leader di Israele hanno evitato di prendere una posizione netta di condanna e opposizione nei confronti dell’aggressione russa allo scopo di evitare un incremento della tensione e rischi di incidenti tra forze russe e israeliane operanti in Siria. Tuttavia la crescente collaborazione militare tra Russia e Iran sta allarmando i dirigenti israeliani, che temono che un rafforzamento militare iraniano possa a lungo andare compromettere le opzioni disponibili ad evitare che il regime di Teheran entri in possesso di un deterrente atomico. È ragionevole ritenere che un’azione militare israeliana contro l’Iran avrebbe conseguenze gravi e per molti versi controproducenti in termini di stabilità regionale e potrebbe portare a un maggiore isolamento politico di Israele, dopo anni di progressi nel percorso di normalizzazione inaugurato dagli “Accordi di Abramo” e fortemente sostenuto dagli Stati Uniti. Un’azione militare andrebbe anche contro l’approccio che il governo di Washington sta adottando nei confronti della questione del nucleare iraniano, anche se non è chiaro quanto un’iniziativa del genere potrebbe compromettere i rapporti tra Israele e Stati Uniti. Anche se l’amministrazione Biden ha chiaramente manifestato la sua preferenza per una soluzione non militare, lo scorso maggio Jake Sullivan – il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente USA – ha ribadito la natura “ferrea” della relazione con Israele e ha riconosciuto la “libertà di azione” del paese.
Un ultimo elemento di incertezza da considerare in relazione alla questione del nucleare iraniano riguarda la situazione interna al paese. L’economia iraniana è stata fortemente penalizzata dalle sanzioni economiche statunitensi e internazionali, e lo scorso febbraio il tasso di inflazione ha superato il 47%. A partire dal settembre del 2022 il regime di Teheran si trova inoltre a fronteggiare un vasto movimento di protesta esploso a seguito dell’uccisione di Mahsa Amini – una rivolta contro il regime che persiste da mesi nonostante la brutale campagna di repressione portata avanti dal governo iraniano. A questo quadro di instabilità economica e sociale si aggiunge il rischio politico legato allo stato di salute dell’ayatollah Khamenei e rischi di instabilità politica interna che potrebbero essere determinati dalla ricerca di un suo successore.
Oltre a rendere sempre più intricata la questione del nucleare iraniano, la guerra in Ucraina sta influenzando anche le relazioni tra Arabia Saudita e Russia, con conseguenze significative sull’evoluzione del mercato delle risorse energetiche. Il prezzo del petrolio rappresenta un dato essenziale sia per il governo saudita che per quello russo. Un prezzo abbastanza elevato (circa 80 dollari al barile al momento in cui queste linee vengono scritte) permette infatti all’Arabia Saudita di godere di rendite tali da sostenere il tenore di vita della popolazione del Regno – e la stabilità interna – evitando incrementi del debito pubblico. Allo stesso tempo appare chiaro che le rendite derivanti dalla vendita di idrocarburi rappresentano una risorsa fondamentale anche per il regime di Vladimir Putin, impegnato in una guerra di aggressione che si è rivelata – grazie all’efficacia della resistenza ucraina – molto più lunga e costosa del previsto. Questa convergenza di interessi ha favorito un’intesa volta ad arrestare il calo del prezzo del petrolio che si è registrato negli ultimi mesi, attraverso il taglio della produzione da parte dell’OPEC+ – un’organizzazione che raggruppa paesi membri dell’OPEC, come l’Arabia Saudita, e altri produttori non facenti parte dell’organizzazione, come la Russia. L’OPEC+ ha approvato dei tagli lo scorso aprile e ha ulteriormente esteso l’impegno a limitare l’offerta a inizio giugno, provocando come previsto un incremento dei prezzi (che hanno toccato i 77 dollari al barile). È da notare che l’intesa tra Riad e Mosca stride di fatto sia con le preferenze di Washington – il principale garante della sicurezza dell’Arabia Saudita – che con quelle di Pechino – il cui governo negli ultimi mesi si è particolarmente speso per favorire la ripresa delle relazioni fra Arabia Saudita e Iran. La Cina è infatti il principale importatore di petrolio al mondo e un cliente fondamentale sia per l’Arabia Saudita che per la Russia. Gli Stati Uniti sono attualmente autosufficienti dal punto di vista energetico ed esportano significative quantità di idrocarburi. Tuttavia, in quanto paese leader di una rete di alleanze che comprende molti paesi importatori di petrolio e per via della posizione centrale degli USA nell’economia globale, anche il governo di Washington non gradisce un rialzo dei prezzi delle risorse energetiche, che ha effetti inflazionistici e recessivi e fra l’altro, come già accennato, aumenta le capacità della Russia di portare avanti l’invasione dell’Ucraina. Sembra tuttavia che il governo russo non stia mantenendo in pieno l’impegno a tagliare la produzione. Una mancanza di collaborazione penalizzerebbe ovviamente l’Arabia Saudita, che potrebbe a sua volta adottare una ritorsione aumentando massicciamente la propria produzione di greggio provocando così una caduta dei prezzi che danneggerebbe seriamente la Russia, la cui industria petrolifera è caratterizzata da costi di estrazione maggiori ed è soggetta a sanzioni occidentali.
La guerra in Ucraina sta inoltre avendo serie ripercussioni sulla sicurezza alimentare dei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, a causa del consistente aumento dei prezzi dei generi alimentari provocato dal conflitto. A tal proposito è interessante notare che, oltre ad aver causato un’emergenza umanitaria e un disastro ambientale (che rende anche più complicato garantire la sicurezza della centrale nucleare di Zaporizhya), la distruzione della diga di Nova Kakhovka sul fiume Dnepr lo scorso 8 giugno ha anche reso inutilizzabili i terreni agricoli del sud dell’Ucraina. Questo sviluppo, esacerbato dalle dinamiche speculative che caratterizzano i mercati globali delle materie prime, ha immediatamente portato a un’impennata dei prezzi dei prodotti agricoli.
In generale, i paesi del Medio Oriente della sponda sud del Meditarraneo sono degli importatori di generi alimentari mentre sia la Russia che l’Ucraina sono degli esportatori chiave a livello globale nel settore agricolo, in particolare per quanto riguarda i cereali e i fertilizzanti. Il conflitto, e in particolare la significativa riduzione della produzione agricola ucraina che ne consegue, hanno dunque serie conseguenze sulla vita di milioni di individui e potrebbero ulteriormente minare la stabilità politica di paesi che stanno attraversando fasi acute di crisi, come la Tunisia, il Libano o l’Egitto. Gli effetti potenzialmente disastrosi dell’incremento dell’insicurezza alimentare causato dalla guerra in Ucraina si estende fra l’altro anche al di là del Mediterraneo e del Medio Oriente. Lo scorso 16 e 17 giugno, una delegazione di leader africani si è recata in visita a Kiev e a San Pietroburgo nella speranza di favorire una via di uscita dal conflitto ucraino e scongiurare violazioni della Black Sea Grain Initiative, un accordo firmato nel luglio 2022 e rinnovato lo scorso maggio che assicura la possibilità per l’Ucraina di esportare prodotti agricoli attraverso il Mar Nero.
Il conflitto che dilania l’Ucraina da ormai più di quindici mesi continua dunque ad avere ripercussioni dirette e indirette serie e ramificate per il Mediterraneo e per il Medio Oriente, rendendo più incerta e intricata la gestione di sfide come il programma nucleare iraniano, aumentando la volatilità delle alleanze regionali, e amplificando significativamente l’insicurezza sociale e l’instabilità politica di paesi che già si trovano a fronteggiare delicate situazioni di crisi.
Diego Pagliarulo