Mentre le tensioni tra Belgrado e Pristina rimangono ai massimi storici dai tempi dell’autoproclamata indipendenza kosovara nel 2008, il governo del Kosovo ha accusato quello di Belgrado di aver illegalmente rapito il 14 giugno scorso tre agenti di polizia nella zona di confine tra Kosovo e Serbia, nello specifico a Leposavić, a circa 300 metri all’interno del territorio kosovaro. Tuttavia, la Serbia ha risposto affermando invece che le forze dell’ordine sono state arrestate in territorio serbo, avendo sconfinato illegalmente. D’altronde, non è mai stata fissata ancora una chiara linea di demarcazione confinaria tra Kosovo e Serbia dal momento che quest’ultima non riconosce l’indipendenza kosovara e considera il confine con il Kosovo una mera “linea amministrativa” interna e non già un confine internazionale.
Secondo Pristina, dietro al rapimento degli agenti da parte dell’esercito serbo si celerebbe una vendetta per l’arresto avvenuto il giorno precedente a Mitrovica Nord di Milun Milenković Lune, leader di un gruppo politico che si definisce Protezione civile nonché noto gangster locale, in quanto sospettato di aver organizzato l’attacco alle forze della Kfor il 29 maggio. L’aggressione, come noto, ha visto più di 30 soldati della Kfor feriti, insieme a polizia e giornalisti.
Il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, ha richiesto l’immediato rilascio dei tre agenti di polizia rapiti, appellandosi alla comunità internazionali affinché condannasse quella che è stata percepita come un’“aggressione” da parte della Serbia. Al contrario, Petar Petković, direttore dell’Ufficio per il Kosovo e la Metochia – ossia l’ente governativo serbo ufficialmente responsabile della provincia autonoma di Kosovo e Metochia – ha sostenuto che le forze della gendarmeria serba sono intervenute per impedire alle persone arrestate, che risultavano pesantemente armate, di commettere un pericoloso atto criminale in territorio serbo. Anche il presidente serbo Aleksandar Vučić ha dichiarato che l’arresto è avvenuto nell’entroterra serbo, dopo che agli agenti era stato chiesto cosa ci facessero in territorio serbo armati di mitragliatrici. Secondo il governo serbo, l’obiettivo delle forze kosovare era quello di destabilizzare la precaria situazione e condurre un conflitto diretto contro la Serbia. Petković ha inoltre aggiunto che le indagini avrebbero determinato la natura del reato commesso e qual era effettivamente l’intenzione degli agenti kosovari. Poco dopo l’arresto, infatti, la Serbia ha avviato un procedimento legale contro gli agenti kosovari, declinando la richiesta degli Stati Uniti per un loro rilascio immediato e incondizionato. Dal canto suo, la polizia del Kosovo ha affermato di aver informato la Kfor e altre istituzioni di sicurezza affinché contribuissero a risolvere la questione. Kurti ha anche criticato le forze di pace internazionali per non aver chiarito ufficialmente la propria posizione in merito all’arresto dei tre agenti. In effetti, la missione militare internazionale guidata dalla Nato ha affermato di non sapere con esattezza dove si trovassero gli agenti al momento dell’arresto, se in territorio kosovaro o serbo.
L’incidente degli arresti è avvenuto al culmine di un susseguirsi di episodi che, a partire dalla “guerra delle targhe” e dalle proteste per i sindaci neoeletti di etnia albanese in Kosovo settentrionale, hanno visto la comunità internazionale – in particolare le istituzioni europee – attivarsi per favorire un’attenuazione delle tensioni. Sebbene la Serbia non riconosca ufficialmente alcuna istituzione del Kosovo, da oltre un decennio è in corso un dialogo facilitato dall’Unione europea (Ue) con l’obiettivo di normalizzare le relazioni tra Pristina e Belgrado. In occasione del recente arresto dei poliziotti kosovari, il portavoce dell’Ue Peter Stano ha dichiarato che gli Stati membri stanno prendendo in considerazione misure di ritorsione contro Pristina nel caso in cui il governo kosovaro non prendesse misure immediate per ridurre le tensioni. Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ha chiesto sia al primo ministro Kurti che al presidente Vučić di incontrarsi per colloqui urgenti a Bruxelles. L’appello al dialogo, tuttavia, è stato finora ignorato dal momento che nessuno dei due leader ha confermato la propria partecipazione. Anche gli Stati Uniti si sono uniti all’Ue nel chiedere ai due governi di prendere provvedimenti immediati per alleviare le tensioni, incluso, come visto, il rilascio incondizionato dei tre agenti di polizia del Kosovo. L’Ue e gli Stati Uniti temono che la crescente tensione tra i due vicini possa degenerare, scardinando i progressi compiuti negli ultimi anni nel processo di normalizzazione delle relazioni kosovaro-serbe.
Intanto, il Kosovo ha rafforzato i controlli alle frontiere. Ai camion con targa serba è stato impedito l’ingresso nel paese, indipendentemente dal fatto che fossero vuoti o carichi di merci. I camionisti hanno risposto con varie forme di protesta, sperando che così facendo Pristina accelerasse la decisione di annullare il provvedimento che vieta l’ingresso ai camion con merci serbe e con targa serba. Nella giornata del 21 giugno scorso, dalla città di Kraljevo al valico di Jarinje più di 700 camion con merci erano in attesa di transitare in Kosovo. Dal canto suo, già in seguito alla questione dell’elezione dei sindaci di etnia albanese nel Kosovo settentrionale, Vučić aveva ordinato il dispiegamento delle truppe serbe ai confini con il Kosovo, ordinando il massimo livello di allerta e prontezza al combattimento.
La nuova crisi solleva seri interrogativi sulla fattibilità della prosecuzione del dialogo tra Belgrado e Pristina. L’incidente degli arresti rappresenta sicuramente una battuta d’arresto per l’accordo mediato dall’Ue provvisoriamente concordato a febbraio scorso con l’obiettivo di normalizzare i rapporti e risolvere questioni annose, come la questione delle targhe automobilistiche e quella della partecipazione nelle organizzazioni internazionali. Il dispiegamento dell’esercito serbo al confine con il Kosovo, le reciproche accuse e l’intensa rivalità contribuiscono ad aumentare il rischio di un’escalation che può anche tradursi in un’apertura delle ostilità belliche. In un contesto così delicato come quello dell’Europa orientale, dove è già in corso una guerra dalla portata enorme in Ucraina, i paesi europei non possono permettersi che si apra un “secondo fronte” nei Balcani, che sicuramente contribuirebbe a destabilizzare l’intero continente. Inoltre, un’eventuale nuova guerra balcanica tra Kosovo e Serbia si potrebbe trasformare facilmente in un’ulteriore guerra per procura tra attori internazionali che hanno interessi prioritari nell’area, a cominciare da alcuni paesi della Nato e dalla Russia. Da qui la necessità categorica da parte della comunità internazionale affinché la crisi si risolva in modo pacifico, attraverso i buoni uffici diplomatici e la riapertura delle negoziazioni per la normalizzazione dei rapporti kosovaro-serbi. Soltanto la ripresa di un costruttivo dialogo tra le due parti mediato dall’Ue e dalla Kfor potrà scongiurare la deflagrazione di un ulteriore conflitto in Europa e gettare le premesse per la futura integrazione, se non euro-atlantica, quanto meno europea di Belgrado e Pristina.
Paolo Pizzolo