L’amministrazione statunitense guidata da Joe Biden è impegnata in una complessa mediazione che potrebbe portare a una normalizzazione delle relazioni tra Israele e l’Arabia Saudita. Questa iniziativa punta a sfruttare i numerosi e significativi punti di convergenza tra gli interessi di Washington e dei suoi due partner regionali, ma allo stesso tempo potrebbe portare alla rinuncia di altri importanti obiettivi strategici o al rischio di compromettere alcune questioni di principio.
Israele e Arabia Saudita sono due alleati storici degli Stati Uniti nello scacchiere mediorientale. Il rapporto di cooperazione tra Washington e Riad risale alle ultime fasi della Seconda guerra mondiale, quando apparve chiaro ai leader americani che il petrolio dell’Arabia Saudita e dei paesi del Golfo persico sarebbe stato necessario a garantire la sicurezza energetica dei partner europei e asiatici di Washington. Gli Stati Uniti hanno anche rivestito un ruolo fondamentale nel processo che ha portato all’indipendenza e al riconoscimento internazionale di Israele tra il 1947 e il 1948, e la cooperazione tra i due paesi ha raggiunto un livello particolarmente stretto ed elevato a partire dagli anni Settanta del Ventesimo secolo.
Da allora, infatti, la cooperazione politica e militare tra USA e Israele si è costantemente approfondita, facendo un ulteriore salto di qualità a seguito degli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 e del lancio della “Guerra al terrore”, tanto che oggi Israele è uno dei principali beneficiari degli aiuti economici elargiti da Washington – una forma di sostegno che si manifesta soprattutto in forma di aiuti militari. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo fondamentale nel processo di pace iniziato proprio negli anni Settanta tra Israele e i suoi vicini arabi. Il primo trattato di pace fu stipulato grazie alla mediazione del presidente James Carter tra Israele ed Egitto nel 1979, e questo impegno è continuato nel corso degli anni, manifestandosi recentemente con gli “Accordi di Abramo” che hanno portato alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco e il Sudan. Gli Stati Uniti rappresentano inoltre un attore decisivo nel difficile e doloroso sforzo di trovare una soluzione al conflitto israelo-palestinese volta a garantire la creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele.
Gli Stati Uniti sono attualmente di gran lunga il primo fornitore di armi dell’Arabia Saudita e fino al 1979 il paese è stato, insieme all’Iran, uno dei “due pilastri” della strategia di sicurezza USA nel Golfo Persico. La rivoluzione iraniana del 1979 e la salita al potere del regime dell’ayatollah Ruhollah Khomeini costrinse tuttavia gli USA a rivedere questa strategia. L’antiamericanismo rappresenta infatti un aspetto fondamentale del regime islamista fondato da Khomeini – i cui successori sono ancora al potere a Teheran. La perdita di un partner così importante in una regione che stava diventando sempre più cruciale per il mercato energetico mondiale indusse il già citato presidente Carter a enunciare nel 1980 la “dottrina Carter” che implicava un impegno da parte di Washington a intervenire direttamente, anche con mezzi militari, in caso di minacce nei confronti dell’indipendenza dei partner americani nella regione – una dottrina applicata ad esempio tra il 1990 e il 1991 durante la crisi del Golfo, con un intervento militare volto prima a garantire la sicurezza dell’Arabia Saudita e poi a ripristinare la sovranità del Kuwait a seguito dell’invasione da parte del regime di Saddam Hussein. A seguito della tragedia dell’11 settembre, il presidente George W. Bush decise di modificare ed espandere ulteriormente l’impegno americano nella regione, lanciando un controverso progetto di interventismo militare volto ad “esportare la democrazia” in Medio Oriente, culminato con la guerra in Iraq del 2003. Gli alti costi umani ed economici e il mancato raggiungimento degli obiettivi dichiarati da Bush hanno tuttavia indotto i suoi successori alla Casa Bianca a cercare un nuovo approccio.
Anche se sia Israele sia l’Arabia Saudita rappresentano partner fondamentali di Washington nel Medio Oriente, i rapporti fra questi due Stati sono stati caratterizzati da una complessa dinamica conflittuale, legata in particolare al rifiuto da parte di Riad e di molti altri governi arabi di riconoscere la legittimità dello Stato di Israele e al tradizionale sostegno saudita per la causa palestinese – una questione in relazione a cui i progressi sono stati drammaticamente scarsi anche a causa della reticenza israeliana ad abbandonare i territori palestinesi occupati a seguito delle guerre arabo-israeliane, ma che risulta di primaria importanza agli occhi dell’opinione pubblica saudita, araba e internazionale.
I rapporti bilaterali tra il governo di Washington e i suoi omologhi saudita e israeliano sono diventati molto più tesi e complicati in tempi recenti. Tra i fattori che hanno contribuito a peggiorare i rapporti tra Washignton e Riad si possono citare il brutale omicidio del giornalista saudita – ma residente negli USA – Jamal Khashogghi (avvenuto all’interno del conslato saudita di Istanbul, in Turchia), la decisione da parte dl governo saudita di tagliare la produzione di petrolio (in collaborazione con la Russia) al fine di favorire in rialzo dei prezzi sui mercati mondiali, e le sensazione da parte dei leader di Riad che la determinazione degli Stati Uniti a proteggere militarmente il regno sia entrata in una dinamica di erosione.
Anche la relazione tra Stati Uniti e Israele sta attraversando una fase molto difficile. L’attuale primo ministro israeliano Benjamin “Bibi” Netanyahu – l’abile ma controverso leader conservatore che ha dominato la scena politica israeliana a partire dagli anni Novanta del secolo scorso – ha da sempre mostrato un atteggiamento di avversione nei confronti del processo di pace israelo-palestinese ed è al momento sotto inchiesta nel suo paese per corruzione. Il governo di coalizione presieduto da Netanyahu si basa inoltre su una coalizione tra il suo partito – il Likud – e una serie di forze politiche di destra nazionalista e religiosa i cui esponenti di spicco sono palesemente opposti alla realizzazione dello Stato palestinese e sono invece determinati a favorire il più possibile la colonizzazione dei territori occupati da parte di cittadini israeliani – una pratica contraria al diritto internazionale e incompatibile con la soluzione “a due Stati” sostenuta da Washington e dalla comunità intenazionale. In aggiunta, i partner nazionalisti e religiosi di Netanyahu hanno espresso orientamenti omofobi e anti-arabi (un quinto dei cittadini dello Stato di Israele è arabo e musulmano) e il governo si è impegnato in una controversa riforma della giustizia che potrebbe compromettere il ruolo di garante degli equilibri costituzionali svolto dalla Corte suprema del paese – un progetto che ha indotto migliaia di israeliani a scendere in piazza per manifestare la loro preoccupazione circa il futuro della democrazia nel paese e che ha generato un movimento di protesta che continua tutt’ora.
Nonostante queste serie difficoltà, altri fattori segnalano in effetti un’occasione complessa ma preziosa per migliorare la cooperazione tra Washington e i suoi due partner mediorientali e favorire una svolta nelle relazioni tra Israele e Arabia Saudita. Come già osservato, dopo il picco di coinvolgimento diretto raggiunto con la guerra in Iraq, i leader americani hanno costantemente espresso la volontà di rimodulare il ruolo degli Stati Uniti nella regione. Come specificato nella Strategia di sicurezza nazionale pubblicata lo scorso ottobre e recentemente ribadito da Jake Sullivan – il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden – l’approccio americano punta a favorire l’emergere di un Medio Oriente più “integrato” e “interconnesso”, in grado di permettere ai partner di Washington di rispondere più autonomamente alle necessità di stabilità geopolitica e agli obiettivi di prosperità economica nella regione, permettendo allo stesso tempo di ridurre la necessità di una significativa presenza diretta statunitense nella regione. Gli Stati Uniti puntano in effetti a creare un blocco regionale capace di contenere autonomamente l’Iran, permettendo di ridurre la presenza militare americana. Sia gli USA che Israele e i sauditi vedono infatti il regime di Teheran come la minaccia principale agli equilibri del Medio Oriente, e questa convergenza di interessi di sicurezza può essere un fattore che l’amministrazione Biden può sfruttare per favorire un riavvicinamento tra i suoi partner regionali e perseguire l’obiettivo di creare un Medio Oriente più integrato e autonomo ma al tempo stesso compatibile con la strategia di sicurezza americana.
Dal canto loro, i sauditi puntano a una maggiore cooperazione militare e a un’esplicita garanzia di sicurezza da parte di Washington, qualcosa di simile all’impegno americano nei confronti dei paesi Nato (il famoso articolo 5 del Trattato dell’Atlantico del Nord, che considera un’aggressione contro uno Stato membro come un’aggressione nei confronti di tutti i paesi dell’alleanza) e il sostegno USA a un programma nucleare civile saudita (che potrebbe includere anche l’arricchimento dell’uranio). In più, una normalizzazione offrirebbe al governo di Riad la possibilità di instaurare vantaggiosi rapporti commerciali con Israele, la cui economia è particolarmente competitiva in settori chiave come l’alta tecnologia e gli armamenti.
Anche Israele potrebbe ovviamente trovare nell’Arabia Saudita un ricco e importante partner commerciale. Israele condivide inoltre l’avversione dei sauditi nei confronti dell’Iran e potrebbe incrementare i progressi ottenuti con gli “Accordi di Abramo”, che stanno permettendo al paese di uscire dall’isolamento regionale in cui si è trovato per decenni. Per di più, i negoziati con i sauditi sono un modo di ricucire i rapporti con Washington, incrinati dalle scelte politiche di quello che è stato definito il governo più a destra della storia del paese e in particolare dalla controversa riforma della giustizia.
Alcuni recenti sviluppi possono essere letti come segnali di progresso in direzione della normalizzazione auspicata da Washington. Lo scorso anno, ad esempio, Israele ha dato il suo assenso al trasferimento delle isole di Tiran e Sanafir (nel Mar Rosso) dall’Egitto all’Arabia Saudita. Questo gesto era necessario per permettere il ritiro di una forza multinazionale di osservatori e rendere possibile il trasferimento. Dal canto suo, il governo di Riad ha recentemente stabilito che l’ambasciatore saudita in Giordania svolgerà anche la funzione di inviato presso l’Autorità palestinese, una decisione che è stata letta tanto come una conferma dell’impegno saudita nei confronti dei palestinesi quanto come un segnale di flessibilità indirizzato a Israele. Questo complesso e delicato sforzo di mediazione da parte dell’amministrazione Biden presenta tuttavia numerosi rischi e difficoltà.
Il rischio più ovvio è che la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita venga ottenuta a spese della necessità di garantire la nascita dello Stato palestinese. L’obiettivo di risolvere la questione israelo-palestinese era stato manifestato già in occasione del trattato di pace con l’Egitto del 1979 e la soluzione a due Stati è divenuta l’obiettivo dichiarato di Washington e della comunità internazionale a partire dagli accordi di Oslo del 1993. Tuttavia, i progressi nel percorso di normalizzazione dei rapporti tra Israele e i suoi vicini arabi non sono stati accompagnati da simili successi sul fronte del processo di pace israelo-palestinese, e come già notato l’attuale governo presieduto da Netanyahu ha dimostrato una seria avversione alla realizzazione di questo obiettivo.
In secondo luogo, un successo in campo internazionale potrebbe rafforzare le tendenze illiberali del governo di destra identitaria e religiosa in Israele, riducendo la pressione che il governo di Washington può esercitare su questioni di vitale importanza come la controversa riforma della giustizia e più in generale la tenuta delle istituzioni democratiche e dello Stato di diritto in Israele. Più in generale, la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita potrebbe rendere più difficile la promozione e la tutela dei diritti umani nella regione e in Arabia Saudita – un paese che nonostante alcuni recenti progressi come la riapertura dei cinema e il permesso di guidare le automobili accordato alle donne, risulta essere secondo le stime dell’organizzazione non governativa Freedom House uno dei regimi più repressivi al mondo.
È infine necessario chiedersi se una normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita realizzata nelle attuali condizioni regionali possa effettivamente garantire un Medio Oriente più integrato e un equilibrio più sostenibile e conforme agli interessi di Washington o se un tale sviluppo non possa avere l’effetto paradossale di rendere necessario un maggiore coinvolgimento USA nella regione. Il governo saudita – guidato dal principe Mohammed Bin Salman, erede al trono e attualmente primo ministro del paese – ambisce ad avere un ruolo internazionale più autonomo e, come già accennato, in molti casi ha dimostrato una forte reticenza a venire incontro agli interessi di Washington. Anche la relazione tra l’amministrazione Biden e il governo Netanyahu in Israele appare segnata da una dinamica di disaccordo in cui le preoccupazioni americane in relazione ai rischi di una svolta illiberale non sembrano essere sempre seguite da risposte significative e concrete.
Una normalizzazione, soprattutto se accompagnata da una forte garanzia di sostegno militare USA e dal via libera a un vasto programma nucleare saudita, potrebbe spingere i governi di Israele e dell’Arabia Saudita ad adottare un atteggiamento meno prudente nei confronti dell’Iran aumentando – anziché diminuire – il rischio di una nuova guerra in Medio Oriente e la necessità di un nuovo intervento USA in caso di conflitto, oppure generare una spirale di proliferazione nucleare nella regione.
La prospettiva di un accordo tra Israele e Arabia Saudita sotto l’egida degli Stati Uniti rappresenterebbe una svolta storica per gli equilibri geopolitici del Medio Oriente e potrebbe offrire a Washington la possibilità di consolidare la centralità del ruolo americano nella regione, riducendo al tempo stesso la necessità di una massiccia presenza militare a stelle e strisce. Tuttavia, il prezzo necessario a favorire un accordo potrebbe implicare seri compromessi sotto il profilo dei valori liberali su cui si basa la leadership globale degli Stati Uniti e la visione di Washington nei confronti della regione, e potrebbe perfino implicare sviluppi geopolitici controproducenti rispetto alle priorità strategiche e di sicurezza degli Stati Uniti.
Diego Pagliarulo