Un atteggiamento inizialmente prudente, dettato dalla necessità di studiare attentamente le mosse da compiere quello di Mosca. Qualche dichiarazione sull’importanza di un cessate il fuoco e soprattutto sulle pesanti responsabilità dell’Occidente, a conferma della volontà di esercitare un ruolo in questa crisi ma anche di collocarla in uno scenario più ampio, nel quale la posta in gioco è una complessiva revisione dell’ordine internazionale. E ancora, prolungati – e paradossalmente rumorosi – silenzi, sicuramente non graditi dalla parte che li ha subiti ma che certificano l’estrema complessità della situazione.
Sono oramai trascorse più di due settimane dal lancio della violenta offensiva di Hamas contro Israele, ribattezzata operazione Alluvione al-Aqsa, da quel 7 ottobre che sembra destinato a rappresentare una data spartiacque non solo per la dinamica del conflitto israelo-palestinese, ma per il futuro dell’intero Medio oriente, i cui fragili equilibri potrebbero essere ridefiniti, rielaborati e potenzialmente persino distrutti se le ostilità dovessero travalicare gli attuali confini.
Gli Stati Uniti non hanno avuto dubbi sulla posizione da assumere: totale sostegno a Tel Aviv, riconoscimento del suo diritto all’autodifesa, impegno a sradicare la minaccia di Hamas – paragonata più volte al sedicente Stato islamico (IS) – e un generoso pacchetto di misure a supporto di tale sforzo, con la richiesta avanzata da Biden al Congresso di mettere a disposizione circa 14 miliardi di dollari per Israele. Un appoggio dunque quasi incondizionato, che il presidente USA ha però temperato con una serie di pressioni sul fronte degli aiuti umanitari – ottenendo così il via libera al passaggio dei convogli attraverso il valico di Rafah – e con il lancio di un chiaro monito a Benjamin Netanyahu durante la visita a Tel Aviv del 18 ottobre: la rabbia non vi consumi, perché solo così sarà possibile evitare gli errori che Washington commise dopo l’11 settembre. Un’assunzione di responsabilità, e al contempo un invito all’alleato a riflettere sulle iniziative da assumere nelle prossime settimane.
La Russia si è invece mostrata decisamente più cauta. Come evidenziato dall’analista politica Hanna Notte in un contributo pubblicato su Foreign Policy, il Cremlino ha infatti coltivato negli anni proficui rapporti con Hamas, i cui rappresentanti si sono recati più volte nella capitale russa per interloquire sia con il ministro degli Esteri Sergej Lavrov che con il suo vice Mikhail Bogdanov, deputato a occuparsi del delicato dossier mediorientale. Inoltre l’8 ottobre, in un’intervista rilasciata a RT Arabic – il canale in lingua araba dell’emittente Russia Today – Ali Baraka, alto funzionario di Hamas, ha affermato che l’organizzazione disponeva di una licenza per la produzione a livello locale di munizioni per kalashnikov, e che addirittura Mosca simpatizzerebbe nel conflitto con la fazione che detiene il potere politico a Gaza. A completare il quadro poi, è arrivata la scoperta nei giorni scorsi che il sito di Hamas sarebbe ospitato dai server russi, con i data center situati proprio nella capitale e nei suoi dintorni.
Al tempo stesso però, la Russia ha mantenuto solide relazioni anche con Israele, tanto dal punto di vista commerciale quanto sotto il profilo politico, come dimostra lo stretto coordinamento delle attività delle rispettive forze aeree in Siria e la sostanziale accondiscendenza del Cremlino ai periodici raid israeliani sulle postazioni di Hezbollah in territorio siriano. I due paesi risultano peraltro uniti da significativi legami tra le diaspore – in Russia ci sono ancora circa 155.000 ebrei, mentre dalla disgregazione dell’URSS oltre un milione di cittadini ex sovietici si è trasferito in Israele – e persino dal feeling personale tra Netanyahu e Vladimir Putin, con il presidente russo che aveva invece avuto rapporti decisamente più controversi con il predecessore dell’attuale primo ministro israeliano, Yair Lapid.
Pertanto, non sorprende che in questa situazione il Cremlino abbia preso tempo, esprimendo le prime considerazioni a distanza di tre giorni dal massacro al festival musicale nei pressi del kibbutz di Re’im, dalla cattura di oltre 200 ostaggi e dalle brutali uccisioni nei kibbutz di Kfar Aza e Be’eri. L’occasione per affrontare il tema è stata la visita in Russia del primo ministro iracheno Mohammad Shia al-Sudani, ma la disamina di Putin – più che focalizzarsi sulle drammatiche violenze in corso – è stata di tipo retrospettivo, storico, e ha mirato a evidenziare i fallimenti della politica mediorientale degli Stati Uniti, veri responsabili di quell’instabilità perché autoproclamatisi detentori del monopolio delle iniziative di pace ma incapaci di trovare compromessi ragionevoli, che tenessero debitamente conto degli interessi dei palestinesi e della loro esigenza di uno Stato indipendente. Al di là dunque delle generiche affermazioni del portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov, che ha evidenziato come la Russia abbia mantenuto aperti i canali di comunicazione con entrambe le parti in conflitto al fine di esercitare un potenziale ruolo di mediazione, Mosca ha innanzitutto voluto segnare una netta cesura tra sé e Washington, recuperando un argomento – quello della statualità palestinese – che continua a far presa tra i paesi del Sud globale, su cui la Russia vorrebbe fare affidamento nella sua difficile sfida – eminentemente anti-occidentale – per la costruzione di un nuovo ordine internazionale. In questa cornice, la chiamata di Putin a Netanyahu è arrivata soltanto il 16 di ottobre, dopo le telefonate ad altri leader politici regionali come il presidente siriano Bashar al-Assad, quello egiziano Abdel Fattah al-Sisi e quello dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas. Durante il colloquio, il capo dello Stato russo ha condannato apertamente l’uso della violenza contro i civili e ribadito la sua disponibilità a lavorare per la fine del conflitto: evidentemente troppo tardi rispetto all’esplosione delle violenze, e troppo poco rispetto alle aspettative di Tel Aviv, soprattutto alla luce del fatto che solo tre giorni prima Putin – pur riconoscendo l’inaudita crudeltà dell’attacco subito da Israele – aveva sottolineato come anche la rappresaglia israeliana si fosse già rivelata particolarmente crudele, esortando addirittura a evitare un assedio a Gaza paragonabile a quello nazista di Leningrado durante la Seconda guerra mondiale. Il tutto mentre dall’altra parte il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si era affrettato a manifestare la propria vicinanza a Israele, dicendosi pronto – secondo quanto rivelato da fonti di stampa – a recarsi nel Paese come gesto di solidarietà: una proposta, quest’ultima, apparentemente rifiutata dalle autorità israeliane, perché i tempi non sarebbero stati propizi per l’iniziativa.
Così, il conflitto tra Israele e Hamas e quello che si sta consumando da febbraio 2022 sul suolo ucraino finiscono per mostrare evidenti punti di contatto, mentre la Russia dietro le quinte prova a tessere la sua tela. Sempre su Foreign Policy, il 17 ottobre, è stata pubblicata un’analisi a firma Amy Mackinnon e Jack Detsch, dal titolo What Putin Stands to Gain From Israel-Hamas War, ossia «Cosa può guadagnare Putin dalla guerra tra Israele e Hamas»: e la prima, immediata risposta è che l’apertura di un fronte conflittuale di tale rilevanza può parzialmente attenuare l’attenzione, mediatica e politica, da quella che il Cremlino ha ribattezzato l’«operazione militare speciale» in Ucraina, a tutto vantaggio di Mosca. Mentre gli occhi del mondo erano puntati su Gaza, le truppe russe hanno infatti sferrato un’importante offensiva su Avdiivka, nell’oblast di Donetsk: una notizia che prima del 7 ottobre avrebbe avuto ben altra risonanza, e che invece oggi passa quasi in secondo piano. È poi indubbio che a Putin farebbe comodo una minore determinazione dell’Occidente nella difesa di Kiev, tanto più in un momento in cui i decisori politici statunitensi ed europei devono stabilire dove allocare le risorse e sono chiamate a confrontarsi con opinioni pubbliche logorate dal rischio di un prolungamento sine die della guerra in Ucraina. In alcuni ambienti del Congresso USA, il dibattito era già partito all’indomani dell’offensiva di Hamas: prioritaria è la difesa di Israele, anche se questo dovesse significare ridurre i fondi per Kiev. In questa cornice pertanto, il presidente Biden ha deciso di intervenire prontamente, indirizzando al Congresso stesso una richiesta di 106 miliardi di dollari aggiuntivi da destinare alla sicurezza nazionale, 61 dei quali indirizzati all’Ucraina e 14 – come già detto – a Israele. Il tutto preceduto da un chiaro messaggio alla nazione, che ancora una volta salda i due conflitti: se i terroristi non vengono puniti per il terrore che seminano, e i dittatori per le aggressioni che commettono, essi diffonderanno ancora più caos, morte e distruzione.
Se però una guerra localizzata entro la striscia di Gaza può andare incontro a talune esigenze dell’establishment russo, un’eventuale propagazione dell’instabilità su scala regionale finirebbe per danneggiare anche Mosca: finora infatti, il Cremlino è riuscito a muoversi con abilità e destrezza in uno scenario particolarmente caotico, cercando di coltivare buoni rapporti con i diversi interlocutori dell’area nei dossier di reciproco interesse, ma è chiaro che un’accentuazione delle tensioni sconvolgerebbe gli equilibri.
Come ha ben evidenziato Giorgio Cafiero su The News Arab, un coinvolgimento diretto di Hezbollah nel conflitto porterebbe l’organizzazione a serrare i ranghi e richiamare le sue forze attive in Siria, indebolendo così il regime di Bashar al-Assad già provato da una difficile situazione economica. Un rischio che evidentemente la Russia non vuole correre perché la costringerebbe a uno sforzo supplementare in difesa dei suoi interessi in territorio siriano, operazione tutt’altro che agevole visto il massiccio impegno in Ucraina. L’asse che parte da Damasco e passa per Hezbollah arriva poi a Teheran, che della causa di Hamas si è fatta difensore pur negando un ruolo negli attacchi del 7 ottobre: in un conflitto regionale, l’Iran sarebbe parte in causa di primissimo piano, e il Cremlino sarebbe così obbligato a prendere una posizione chiara tra Israele e il regime degli ayatollah, che nel frattempo sta rifornendo Mosca di droni e altro materiale da combattimento sul fronte ucraino. Senza poi dimenticare l’instabilità che coinvolgerebbe i partner del Golfo, con cui la Russia mantiene importanti legami sul fronte delle politiche energetiche. Per questo, Putin continua per ora a giocare la carta della mediazione, provando a sfruttare i vantaggi di un conflitto al momento geograficamente limitato e condendo il tutto con abbondanti dosi di retorica antioccidentale. Auspicando che il corso degli eventi non imponga scelte di campo più nette.
Vincenzo Piglionica