L’attacco condotto lo scorso 7 ottobre dalle brigate Izz-Din al-Qassam, braccio armato di Hamas, ha dato via all’operazione militare Toofan al-Aqsa – “Tempesta al-Aqsa”. La reazione di Israele, dopo una prima fase di disorientamento, è stata senza precedenti. Nella breve intervista che segue il Generale Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa italiana, parla delle conseguenze politiche, delle strategie militari di Tel Aviv e delle conseguenze dell’attuale crisi a livello regionale e globale.
D: La reazione di Israele all’attacco sferrato da Hamas lo scorso 7 ottobre al momento è stata di tipo esclusivamente militare. Quali sono i rischi di un simile approccio per Israele e per la stabilità della regione?
- Gen. Camporini: La risposta militare dello Stato di Israele deve essere interpretata come una reazione molto di pelle, dettata dalla grandezza dell’evento e dalla necessità poi di metabolizzarlo. Si è parlato a lungo di un’offensiva terrestre delle Forze di difesa israeliane (Israel Defense Forces – IDF) con l’obiettivo di stanare Hamas. Al di là dalle sollecitazioni esterne ed interne ad Israele, si è poi compreso con il passare dei giorni che non è sufficiente “un’occupazione” militare della Striscia di Gaza per risolvere la questione, ma vi è la necessità di soluzioni politiche. La mancata operazione, ad oggi, su larga scala forse è indice di questa riflessione che sembra maturare. Dopo una prima reazione, ora sembra che la conduzione delle operazioni sia più ragionata, tuttavia [Israele] necessita di altri progressi per una soluzione politica negoziata. La mancanza delle parti negoziali è uno dei nodi. Al momento Hamas non può essere considerata una parte negoziale legittima, mentre il governo di Benjamin Netanyahu è ritenuto responsabile [della mancata sicurezza di Israele] e non all’altezza di tale percorso politico. In Israele sono presenti personalità che sarebbero capaci di svolgere tale ruolo, un esempio è Gabi Ashkenazi [già Capo di Stato maggiore della Difesa e ministro degli Esteri]. Questa, e altre personalità, dovrebbero riuscire ad imporsi come nuovi leader politici e soggetti negoziali credibili per una seconda fase che vada nella direzione dei due popoli due Stati.
D: La “soluzione dei due Stati”, più volte auspicata da Nazioni unite, Europa, Stati Uniti, e in queste ultime settimane invocata con forza dai paesi arabi, sembra un’opzione al momento scartata da Israele, almeno dall’attuale leadership politica.
- Gen. Camporini: Sì, bisogna che la spinta dei fondamentalisti religiosi [israeliani] venga respinta ed emerga quella parte di paese che intende andare verso questa direzione. Parimenti Hamas non è un soggetto con il quale è possibile negoziare una seconda fase. In tal senso, deve emergere una nuova classe dirigente politica palestinese e, in questo, un ruolo centrale lo possono giocare i paesi arabi.
D: La posizione dei paesi arabi, in questo momento, appare complessa: da una parte le loro leadership vogliono continuare nel percorso di normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele, che ha ricadute positive su molti fronti, dall’altra non possono ignorare le manifestazioni popolari di vicinanza al popolo palestinese. Dopo l’esperienza delle Primavere arabe del 2011 le opinioni pubbliche arabe hanno iniziato ad avere un peso diverso.
- Gen. Camporini: Sono pienamente d’accordo con lei. Noto anche io una certa difficoltà dei paesi arabi. In questo frangente un paese come l’Egitto potrebbe avere un ruolo fondamentale.
D: Da pochi giorni è iniziata l’operazione di terra, ancora non su larga scala, da parte delle truppe israeliane nella Striscia di Gaza. Quali sono, sul piano militare, i rischi di una simile operazione e quali i rischi sul piano politico per Israele. L’Iran e gli Hezbollah libanesi hanno più volte intimato a Israele di non procedere con le operazioni di terra nella Striscia di Gaza. Crede che sia plausibile, e in quale misura, un intervento su larga scala delle forze militari di Hezbollah nel conflitto?
- Gen. Camporini: Secondo me, Hezbollah non ha interesse, e nemmeno la volontà, di intervenire nel conflitto. Se avesse voluto farlo sarebbe dovuta intervire il pomeriggio del 7 ottobre, nel momento più difficile per Israele. In quel frangente sarebbe stata un’operazione militare razionale. Però non lo ha fatto e questo ne determina le volontà. Oggi Hezbollah si limita a scaramucce e a fare la faccia feroce al confine; credo che abbia più interesse a rafforzare la propria presenza all’interno del paese che ad aprire le ostilità con Tel Aviv. Riguardo l’operazione di terra di Israele, credo che sia un’azione militarmente priva di razionalità, un’operazione di occupazione temporanea non riuscirebbe a conseguire gli obiettivi politici dichiarati, quelli di eliminare le capacità operative di Hamas nella Striscia di Gaza. Questo è possibile farlo con operazioni mirate delle forze speciali e attraverso il supporto dei servizi di intelligence. Quindi, identificare i luoghi dei personaggi militari di spicco di Hamas ed eliminarli. Credo possa essere una strategia efficace. Una lotta casa per casa, galleria per galleria, avrebbe dei costi umani intollerabili in termini militari e civili.
D: Lo scoppio della crisi ha determinato un’intensa attività diplomatica che ha visto coinvolti i principali player regionali e internazionali. Come giudica l’attuale posizione degli Stati Uniti?
- Gen. Camporini: La scelta da parte dell’amministrazione americana di posizionare due portaerei, [la USS Gerald R. Ford (CVN-78) e la USS Dwight D. Eisenhower (CVN-69)] segue la logica della deterrenza tipica dell’impiego politico delle Forze armate. Gli Stati Uniti si stanno rendendo conto che la scelta presa a suo tempo dall’amministrazione di Barack Obama del disimpegno dal Medio Oriente è stata una scelta strategicamente sbagliata. Il disimpegno americano ha aperto la strada ad altri attori nell’area come Mosca. Joe Biden si trova nella posizione di dover dimostrare che la presenza statunitense nell’area segue un interesse americano mai venuto meno. Dobbiamo anche prendere in considerazione la situazione interna agli Stati Uniti, molto nebulosa in questo frangente.
D: Tra gli attori globali notiamo un certo attivismo diplomatico cinese. I messaggi arrivati da Pechino per una soluzione diplomatica della questione palestinese nella direzione dei due Stati sono il proseguimento di una certa politica di soft power, inaugurata da decenni, che fa presa nelle popolazioni arabe sempre più lontane dall’attrazione gravitazionale occidentale. Cosa pensa del ruolo cinese in questa fase?
- Gen. Camporini: La posizione cinese è molto chiara. La definisco come neocolonialismo, con strumenti e metodi diversi da quelli dei paesi occidentali, ma che attraverso la leva economica mette in posizione di sudditanza molti dei paesi africani. La postura cinese deriva da una politica di lungo periodo; Pechino ha una strategia che guarda ai prossimi decenni, a differenza dei nostri cicli politici molto più brevi. Tuttavia, bisogna verificare nel tempo se il gigante cinese non abbia dei piedi finanziari troppo deboli, questo avrebbe ripercussioni per tutti, naturalmente.
D: Abbiamo lasciato per ultima l’Europa, forse non casualmente. Qual è la sua opinione in merito alla posizione tenuta finora da Bruxelles?
- Gen. Camporini: Da federalista convinto non credo ci sia l’Europa. Sono amareggiato da questo. Manca un meccanismo di elaborazione rapido di una politica comune. Si osservano iniziative dei singoli, vedi Francia, Germania e la stessa Italia, che si fanno concorrenza e questo non agevola. Il peso economico non eguaglia quello politico. L’Europa è un gigante economico che rimane un nano politico e militare, un’immagine vecchia e stantia ma che corrisponde alla realtà. Ci sarebbe bisogno di una leadership europea capace di elaborare delle politiche comuni che ad oggi manca. Ci vorrebbero delle convergenze per una politica comune, almeno su alcuni aspetti, e in particolare per ciò che riguarda l’Africa e il Medio Oriente.
Mohamed El Khaddar