Equilibri precari infranti, normalizzazioni dei rapporti rimandate sine die perché i venti di guerra soffiano impetuosi sulla regione, un disastro che si è abbattuto sulle vite di centinaia di migliaia di persone e che è stato non solo denunciato dalle organizzazioni attive nella Striscia, ma sostanzialmente confermato dal segretario generale delle Nazioni unite António Guterres, secondo cui «l’incubo di Gaza è più di una crisi umanitaria, ma una crisi dell’umanità».
È oramai trascorso un mese e mezzo dalla brutale aggressione perpetrata dai miliziani del braccio armato di Hamas – le brigate Ezzedin al-Qassam – contro Israele; un mese e mezzo da quel 7 ottobre che potrebbe rappresentare una data spartiacque nella storia, dopo aver gettato una luce cupa sulla profonda vulnerabilità di Tel Aviv, segnato il corso degli eventi in un Medio Oriente assai fragile e imposto una presa di posizione ai grandi attori regionali e globali. La risposta israeliana è stata durissima, in linea con quanto dichiarato da Benjamin Netanyahu subito dopo l’aggressione: il Paese non sta affrontando una delle periodiche operazioni militari che hanno segnato nell’ultimo ventennio la conflittualità israelo-palestinese, né è impegnato in semplici combattimenti, ma si considera in guerra e punta pertanto alla distruzione del nemico, costi quel che costi e indipendentemente dal tempo che sarà necessario. Né le critiche esplicite né gli appelli alla prudenza, questi ultimi spesso pronunciati a porte chiuse da alleati di indiscutibile fedeltà, sembrano per il momento in grado di scalfire la determinazione del primo ministro di Israele, al di là di alcune concessioni sul fronte umanitario e dell’ultimo accordo per una tregua di 4 giorni per il rilascio di alcuni ostaggi: per Netanyahu non sono ammessi tentennamenti, perché questa è la battaglia definitiva e Israele è intenzionato a vincerla, «per il suo bene e per il bene del mondo».
Il mondo però, con il passare delle settimane, non sembra vederla allo stesso modo. Il capo del governo israeliano, da parte sua, davanti alla stampa è stato esplicito: nessuna pressione e nessuna «falsa accusa contro i soldati, l’esercito o il paese» distoglieranno Tel Aviv dal combattere per la sua «giusta causa», né Israele rinuncerà al suo diritto all’autodifesa. Con il contatore delle vittime che però avanza inesorabilmente, e che secondo quanto riferito dalle autorità di Gaza ha oramai superato i 14.000 morti, una riflessione complessiva si impone, prestando soprattutto attenzione a quegli attori politici che con insistenza si stanno facendo spazio sulla scena internazionale e che colpevolmente sono stati trascurati troppo a lungo dall’Occidente.
The West is losing the Global South over Gaza, recita il titolo di un editoriale a firma H.A. Hellyer pubblicato sul Time all’inizio del mese di novembre, indicando come il conflitto esploso nella Striscia stia ampliando ulteriormente la già rilevante frattura esistente tra i paesi del cd. Sud globale e quelli occidentali. Eppure, tale evoluzione non era necessariamente scontata: la brutalità dei fatti del 7 ottobre aveva infatti scosso le coscienze e determinato una censura pressoché unanime delle azioni di Hamas.
La ricognizione effettuata il giorno 9, all’indomani dell’aggressione, da Sarang Shidore per il Quincy Institute for Responsible Statecraft, appare in questo senso assai utile: nell’analisi si rileva ad esempio come il Brasile abbia condannato gli attacchi perpetrati sul territorio israeliano, porgendo le condoglianze ai familiari delle vittime, manifestando la sua solidarietà al popolo di Israele e sottolineando come non possa esistere alcun tipo di giustificazione alla violenza, in particolar modo quando questa colpisce i civili. Di tenore analogo le considerazioni del ministero degli Esteri messicano, che ha richiamato la «deplorevole perdita di vite umane» a seguito dell’offensiva sferrata dal territorio della Striscia, mentre il primo ministro indiano Narendra Modi si è detto scioccato per quanto accaduto e ha rimarcato la sua vicinanza a Israele. Il Kenya poi, con assoluta fermezza, ha voluto censurare «nel modo più duro possibile gli attacchi ingiustificati dei miliziani di Hamas», e un’esplicita condanna è arrivata anche da Singapore, che ha sottolineato come l’offensiva abbia provocato numerose vittime tra civili innocenti.
Naturalmente, in questo quadro complesso e articolato, sono i punti di vista a fare la differenza, e se da una parte taluni attori del Sud globale si sono prevalentemente concentrati sui drammatici eventi del 7 ottobre, dall’altra non sono mancate posizioni più orientate a soffermarsi su quelle che sarebbero le ragioni dello scontro, e dunque in questa prospettiva apertamente critiche nei confronti di Israele: così, attraverso una nota emessa dal suo Dipartimento delle relazioni internazionali e della cooperazione, il Sudafrica si è subito detto preoccupato per la devastante escalation, attribuendo tuttavia l’ennesima deflagrazione del conflitto «alla perdurante occupazione illegale […] alla continua espansione degli insediamenti, alla dissacrazione della moschea di al-Aqsa e dei siti sacri cristiani e all’oppressione ininterrotta del popolo palestinese». Esprimendo poi il suo rammarico per i tanti feriti e le vite civili spezzate, il governo del Bangladesh ha fatto presente che «l’occupazione israeliana e gli insediamenti nei territori palestinesi non porteranno la pace» nella regione mediorientale, mentre il presidente indonesiano Joko Widodo, sollecitando l’immediata cessazione delle ostilità, ha dichiarato che le cause del conflitto – ossia «l’occupazione del territorio della Palestina da parte di Israele» – devono essere risolte secondo quanto stabilito dalle Nazioni Unite.
In linea generale, pur con sfumature e intensità talvolta anche marcatamente differenti, la condanna nei confronti di Hamas è stata comunque assai ampia. Tornando all’editoriale di H.A. Hellyer, è dunque dall’8 ottobre – e non dal 7 – che l’Occidente ha iniziato a perdere il Sud globale su Gaza, poiché nella prospettiva di questi paesi – tradizionalmente solidali con la causa palestinese – il diritto israeliano all’autodifesa sarebbe stato declinato, e poi immediatamente esercitato, in modo del tutto incompatibile con quell’«ordine internazionale basato sulle regole» di cui l’Occidente stesso si è proclamato strenuo difensore, senza che però da tale fronte arrivasse una netta presa di distanze.
All’interno di questa cornice, il paragone con il conflitto in corso in Ucraina è inevitabilmente emerso, ma se per Joe Biden è servito a creare un parallelismo tra Putin e Hamas, minacce diverse che però condividerebbero l’obiettivo di «annientare le democrazie a loro vicine», per gran parte del Sud globale esso avrebbe svelato una volta di più i doppi standard dell’Occidente, accusato di una interpretazione selettiva del diritto internazionale a seconda degli interessi in gioco: in sostanza, ciò che vale per Kiev non varrebbe per Gaza. Tale aspetto sembrerebbe peraltro non essere sfuggito neppure alle autorità politiche ucraine. Come ben evidenziato in un contributo di Jędrzej Czerep e Patryk Kugiel per The Polish Institute of International Affairs, Volodymyr Zelensky aveva infatti espresso inequivocabile solidarietà a Israele subito dopo i massacri al festival presso il kibbutz di Re’im, a Kfar Aza e Be’eri, sottolineando il diritto di Tel Aviv a difendersi e invitando il mondo a mostrarsi unito affinché il terrore non distruggesse ulteriori vite, ma già il 17 ottobre – a pochi giorni dalla prima, durissima reazione di Israele – il ministero degli Esteri ucraino aveva parzialmente rimodulato il messaggio: così, accanto alla ferma condanna nei confronti di Hamas, era comparso un chiaro riferimento alla necessità di ripristinare la stabilità e la sicurezza della regione mediorientale, ridando slancio alla soluzione dei due Stati e risolvendo attraverso gli strumenti della politica e della diplomazia la questione degli insediamenti. Il 25 ottobre poi, in un confronto con le delegazioni delle comunità arabe residenti nel paese, il Rappresentante speciale dell’Ucraina per il Medio Oriente e l’Africa Maksym Subkh ha ribadito tale posizione, aggiungendo che Kiev sostiene gli sforzi internazionali per l’apertura di corridoi umanitari che garantiscano alla popolazione palestinese cibo, medicine e beni di prima necessità: anche in questo caso, una prospettiva di più ampio respiro, probabilmente nel tentativo di avvicinare a sé un ‘pezzo’ di mondo che in oltre un anno e mezzo di guerra sul territorio ucraino si è raramente sbilanciato a favore dell’una o dell’altra parte in conflitto.
La cesura tra Occidente e Sud globale si è manifestata plasticamente il 27 ottobre, in occasione del voto in Assemblea generale Onu sulla risoluzione non vincolante presentata dalla Giordania per «un’immediata, duratura e sostenibile tregua umanitaria» a Gaza: a fronte dei 121 ‘sì’ espressi da un’amplissima e variegata platea di Stati – compresi quasi unanimemente quelli del Global South – si sono infatti registrate l’opposizione di 14 paesi, tra cui spiccano – oltre ovviamente a Israele – gli USA, e l’astensione di altri 44 in gran parte riconducibili al blocco occidentale, Italia compresa. La posta in gioco è evidentemente alta, e non si limita alla posizione da adottare rispetto al conflitto israelo-palestinese: come rilevato su The Conversation da Jorge Heine, il nodo fondamentale riguarda i futuri assetti e gli equilibri di potere che andranno a configurarsi nello scacchiere internazionale, con un Sud globale che sta tentando di organizzarsi in maniera più strutturata, vede in Cina e Russia interlocutori particolarmente recettivi – interessante in questo senso l’allargamento dei Brics ad altri 6 paesi a partire dal 2024 – e dall’altra parte si scontra con un Occidente ancora sordo alle sue istanze.
Il voto alle Nazioni Unite del 27 ottobre ha peraltro evidenziato come le divergenze si stiano accentuando all’interno dello stesso Occidente, tanto che tra i paesi dell’Ue in otto si sono pronunciati a favore della risoluzione – tra cui Francia, Portogallo e Spagna –, in 15 si sono astenuti e in quattro hanno espresso la loro contrarietà. Peraltro, proprio al livello dell’Unione, non sono mancati sul tema del conflitto a Gaza i distinguo, con Ursula von der Leyen assai esplicita nel suo sostegno a Israele e per questo quasi ‘richiamata all’ordine’ dall’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell, che rimarcando come la politica estera dell’Unione sia materia eminentemente intergovernativa affidata alle competenze del Consiglio europeo e del Consiglio affari esteri, ha di fatto ridimensionato il ruolo della presidente della Commissione sulla questione. Vero e proprio passo falso è stato invece quello del commissario per l’Allargamento e la politica di Vicinato Olivér Várhelyi, che all’indomani degli attentati del 7 ottobre ha annunciato in autonomia la sospensione degli aiuti europei ai territori palestinesi, costringendo la Commissione a una rapida puntualizzazione con la quale è stato reso noto un «riesame urgente» dell’assistenza per garantire che nessun finanziamento dell’Unione consenta indirettamente ad alcuna organizzazione terroristica di perpetrare attacchi contro Israele. Quindi è toccato anche a Borrell essere corretto, dopo aver pubblicato un post su X il 28 ottobre per richiamare l’estrema necessità di una «pausa umanitaria»: il Consiglio europeo aveva però parlato di ‘pause’ al plurale, mentre l’uso del termine al singolare avrebbe lasciato intendere un aperto sostegno a un’ipotesi di cessate il fuoco duraturo. Di qui la presa di posizione del ministro austriaco degli Esteri Alexander Schallenberg, che ha sollecitato l’Alto rappresentante ad attenersi agli orientamenti espressi in sede di Consiglio europeo.
Le difficoltà manifestate nell’elaborazione di una proposta chiara sul conflitto, le divisioni esistenti tra gli Stati membri sulla questione e i limitati strumenti di cui l’Unione dispone in politica estera hanno così nuovamente relegato Bruxelles ad attore marginale in una crisi di rilevanza cruciale, dalle cui evoluzioni dipenderà un pezzo di futuro del Medio Oriente e non solo. La timidezza mostrata poi rispetto alla dura e prolungata replica israeliana agli attacchi ha inflitto un duro colpo alla credibilità dell’Unione come ‘potenza normativa’, capace cioè di esercitare la propria influenza grazie alla forza dei suoi valori nonché convinta sostenitrice della tutela dei diritti umani e del rispetto del diritto internazionale. Accentuando così ulteriormente la sua distanza da un Sud globale che non intende più accettare il ruolo di spettatore passivo degli equilibri del mondo.
Vincenzo Piglionica