In oltre 40 anni, il regime iraniano ha dovuto più volte fare i conti con omicidi mirati e attacchi a suoi obiettivi sensibili, ma quello che il 3 gennaio 2024 ha brutalmente scosso la città di Kerman risulta, per diversi motivi, uno degli attentati terroristici più gravi nella recente storia della Repubblica islamica. Una doppia esplosione che ha lasciato dietro di sé una drammatica scia di sangue, con almeno 94 morti accertate, ma che assume particolare rilevanza anche per la scelta di un target altamente simbolico, poiché le vittime si apprestavano a partecipare a una cerimonia commemorativa in occasione del quarto anniversario dell’assassinio del generale Qassem Soleimani, ucciso a Baghdad nel gennaio del 2020 da un drone statunitense.
L’attacco è stato sferrato dal ramo afghano dell’ISIS, lo Stato islamico – Provincia di Khorasan (ISIS-K), responsabile di azioni eclatanti come il bombardamento di un affollato aeroporto di Kabul durante il caotico ritiro delle forze statunitensi nell’agosto del 2021.
Non è peraltro la prima volta che l’Iran finisce nel mirino del sedicente Stato islamico: già nel giugno del 2017 l’organizzazione terroristica aveva infatti lanciato due attacchi in simultanea contro la sede del Parlamento e il Mausoleo di Khomeini a Teheran, provocando la morte di 17 persone, mentre l’attentato perpetrato nell’ottobre del 2022 presso il santuario di Shiraz “Shah Cheragh” aveva causato 13 vittime. Nello scorso mese di dicembre erano stati invece i militanti baluci di Jaish al-Adl a colpire la Repubblica islamica, uccidendo 11 agenti di polizia a Rask nella provincia di frontiera del Sistan e Balucistan, al confine con l’Afghanistan e il Pakistan: dunque una serie di offensive particolarmente efferate, che oltre a costare la vita a vittime innocenti hanno messo in luce – pressoché senza soluzione di continuità – le preoccupanti falle nella sicurezza del regime degli ayatollah.
Nonostante le rivendicazioni dell’ISIS-K per quanto accaduto a Kerman, le autorità iraniane hanno immediatamente puntato il dito contro Stati Uniti e Israele. L’Agenzia di stampa TASNIM ha riportato un inequivocabile comunicato degli uffici di rappresentanza della Guida suprema presso le università di tutto il paese, che hanno condannato gli attentati e accusato gli USA di essere «complici certi dei crimini di Netanyahu», aggiungendo un’esplicita minaccia: senza un immediato ritiro dall’area, Washington – che «sa bene di non godere nella nostra regione della necessaria legittimità e della completa sicurezza» – dovrà essere pronta a «ordinare molte bare per i suoi soldati».
Di analogo tenore le considerazioni espresse dal Consiglio dei Guardiani, secondo cui «la vergogna e la condanna si abbatteranno sui criminali sionisti e takfiristi» mentre «la determinazione di Soleimani e l’unità del popolo iraniano si rafforzeranno ulteriormente», poiché «questo orribile atto terroristico e criminale evidenzia la malvagità dei nemici e mostra agli occhi del mondo la rettitudine del nobile popolo iraniano e l’oppressione che esso ha subito».
Immediata è stata ovviamente la presa di distanze dell’amministrazione statunitense, che ha respinto con fermezza le accuse di Teheran e smentito l’esistenza di prove circa un possibile coinvolgimento di Tel Aviv negli attacchi. Dall’opinione pubblica iraniana non sono invece mancate le critiche nei confronti delle autorità locali, soprattutto per il gran numero di studenti che senza il permesso dei genitori erano stati portati alla commemorazione in onore di Soleimani, finendo poi vittime degli attentati.
A poche settimane dai due importanti appuntamenti elettorali per il rinnovo della composizione del Parlamento (Majles-e Shura-ye Eslami) e dell’Assemblea degli Esperti (Majles-e Khobregan-e Rahbar) – entrambi previsti per il prossimo 1° marzo – l’establishment della Repubblica islamica si è dunque trovato a fronteggiare un crescente malcontento, sia a causa dell’oramai cronica malagestione del potere politico che per il deterioramento delle condizioni di sicurezza nel paese.
Intanto da Kabul Abdulqader Balkhi – portavoce del Ministero degli Esteri talebano – ha duramente condannato gli attentati avvenuti a Kerman e garantito la massima collaborazione per assicurare i colpevoli alla giustizia. All’interno di tale cornice sono inoltre da inquadrare i negoziati approfonditi avvenuti nei giorni scorsi tra Pakistan e Iran, con uno specifico focus sulla necessità di prevenire e contrastare la minaccia terroristica proveniente dall’Afghanistan.
Teheran ha comunque deciso di prendere subito l’iniziativa: già lunedì 15 gennaio, il Corpo delle Guardie della rivoluzione islamica (Islamic revolutionary guard corps, IRGC) ha infatti reso noto di aver lanciato missili balistici contro presunti “centri di spionaggio” israeliani a Erbil, nel nord dell’Iraq, dove sono state inoltre udite numerose esplosioni vicino al consolato statunitense. Ciò ha provocato l’immediata presa di posizione del primo ministro della Regione autonoma del Kurdistan iracheno Masrour Barzani, che ha condannato l’attacco definendolo un «crimine contro il popolo curdo», mentre il ministero degli Esteri di Baghdad ha presentato – tramite la propria rappresentanza permanente presso l’organizzazione – protesta formale al Segretario generale e al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite.
Nella medesima giornata, le Guardie della rivoluzione hanno poi rivendicato alcune azioni mirate a colpire obiettivi dell’ISIS nel Nord della Siria, evidenziando in un comunicato diffuso dall’agenzia IRNA di aver «identificato i punti di ritrovo dei comandanti coinvolti in recenti operazioni terroristiche» e di aver reagito in risposta «agli atti criminali commessi contro i nostri compatrioti.
Il giorno successivo, Teheran ha quindi lanciato un nuovo attacco missilistico nel Pakistan occidentale, nella provincia del Balucistan, puntando alcune basi di Jaish al-Adl: anche in questo caso la reazione è arrivata a stretto giro, con le autorità di Islamabad che hanno lanciato un monito sulle potenziali “gravi conseguenze” dell’offensiva. A fronte del rischio di una pericolosa escalation, la Cina ha dunque deciso di far valere i propri rapporti con i due interlocutori, esortando le parti alla necessaria moderazione.
Al netto dei tentativi di mediazione, appare tuttavia indiscutibile che le tensioni tra i paesi della regione abbiano raggiunto la soglia di allerta e destino pertanto preoccupazione, soprattutto per il tangibile rischio che gli scontri si allarghino fino a “saldarsi” con il conflitto in corso tra Israele e Hamas, nel quale Teheran ha però dichiarato di non voler essere coinvolta.
48 ore dopo l’operazione iraniana sul suolo pakistano, Islamabad ha dunque lanciato diversi missili su Saravan, nella provincia del Sistan e Balucistan: l’iniziativa, formalmente destinata alla distruzione dei nascondigli dei terroristi nell’area, ha rappresentato il primo attacco missilistico sul suolo della Repubblica islamica dell’Iran dalla fine del conflitto iraniano-iracheno nel 1988.
Nel momento in cui si scrive, le parti hanno comunque mostrato l’intenzione di mantenere la situazione sotto controllo. Il 18 gennaio, il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian ha infatti dichiarato di voler coltivare relazioni di buon vicinato con il Pakistan, invitando al tempo stesso Islamabad a impedire la creazione di “basi terroristiche” sul suo territorio.
Dunque dichiarazioni complessivamente distensive, a cui l’omologo pakistano Jalil Abbas Jilani ha risposto con affermazioni dello stesso tenore, sottolineando come il suo paese non abbia alcun interesse a un’escalation con Teheran e che «l’attacco nel Sistan e Balucistan era finalizzato al perseguimento della sicurezza e dell’interesse nazionale, che sono fondamentali e non possono essere compromessi”. In un colloquio telefonico, Amir-Abdollahian e Jilani hanno quindi concordato di allentare la tensione e convenuto che la cooperazione a livello operativo, nonché il coordinamento nella lotta al terrorismo e su altri aspetti di reciproco interesse, dovrebbero essere rafforzati.
Nel frattempo però è stato Israele a muoversi, effettuando un attacco missilistico a Damasco nel quale sono stati uccisi cinque membri delle IRGC iraniane. L’Iran ha così accusato Tel Aviv di aver compiuto un «tentativo disperato di diffondere instabilità», rimarcando di poter esercitare il diritto alla rappresaglia. Le forze di difesa israeliane, dal canto loro, hanno rifiutato di commentare, mentre il comando centrale degli Stati Uniti ha dichiarato di essere impegnato nella valutazione dei danni dopo che il 20 gennaio miliziani sostenuti da Teheran hanno lanciato missili balistici e razzi in direzione della base aerea di Ain al-Asad, nell’Iraq occidentale.
Shirin Zakeri