La spirale di violenze iniziata il 7 ottobre 2023 con gli attentati di Hamas contro Israele cui ha fatto seguito l’intervento militare israeliano nella Striscia di Gaza rappresenta una lacerante tragedia umanitaria che, al momento in cui queste righe vengono scritte, è costata la vita a 1.200 civili e 219 soldati israeliani, e, secondo le stime fornite dalle autorità di Gaza, a più di 25.000 palestinesi. Questo conflitto costituisce inoltre una seria minaccia alla sicurezza regionale del Medio Oriente, con ripercussioni potenzialmente globali. Gli Stati Uniti, per via della loro presenza militare e della rete di alleanze nella regione, svolgono un ruolo decisivo nel determinare tanto i rischi di un’escalation quanto le possibilità di evitare tale scenario.
Tra le aree che maggiormente rischiano di essere risucchiate nel conflitto si possono citare in primo luogo il sud del Libano e la Cisgiordania. Nel primo caso, il fattore di rischio è rappresentato dalla contrapposizione tra Israele e Hezbollah – un partito politico libanese dotato di una milizia che ha condotto diversi attentati terroristici a partire dagli anni Ottanta del Novecento ed è classificato come gruppo terrorista dal Dipartimento di Stato USA. Sebbene la leadership di Hezbollah non sembri intenzionata a cercare lo scontro con Israele, la guerra di Gaza ha fortemente ravvivato la tensione, causando attacchi e rappresaglie lungo la frontiera tra il Libano e Israele che hanno portato alla morte di circa 130 miliziani libanesi. Per quanto riguarda invece la Cisgiordania, si può notare che questa regione aveva registrato già prima della guerra un forte aumento della tensione, con attacchi da parte di gruppi terroristici palestinesi e operazioni di controterrorismo israeliane. Allo stesso tempo, tuttavia, si erano verificati anche numerosi attacchi contro civili palestinesi da parte di cittadini israeliani che abitano gli insediamenti nei territori occupati (una pratica incompatibile con i principi del diritto internazionale). Questo tipo di violenze è seriamente aumentato a partire dallo scorso ottobre. Secondo i dati delle Nazioni unite, 370 palestinesi hanno perso la vita tra il 7 ottobre 2023 e il 31 gennaio 2024 in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Tale dinamica rende maggiore il rischio di un conflitto su larga scala anche in Cisgiordania, e l’aumento delle violenze in quest’area ha spinto l’amministrazione Biden a istituire un regime di sanzioni contro gli autori delle aggressioni ai danni dei palestinesi.
Oltre a questi territori direttamente legati alla guerra in corso, si sono registrate tensioni e scontri anche a livello regionale, in particolare in Siria, in Iraq e nel Mar Rosso. La guerra tra Israele e Hamas ha in effetti rivitalizzato l’“Asse della resistenza” guidato dall’Iran che include il già citato Hezbollah, gli Houthi in Yemen, Hamas e il Movimento per il jihad islamico palestinese, nonché varie milizie filo-iraniane operanti in Siria e in Iraq. Questa coalizione, centrata sul regime di Teheran, rende le prospettive di un’escalation decisamente preoccupanti, e ha già prodotto importanti conseguenze economiche a livello internazionale per via della capacità di alcuni attori facenti parte dell’“Asse” di danneggiare i flussi commerciali attraverso il Mar Rosso. Questo fenomeno sta generando pesanti conseguenze economiche negative per il commercio internazionale in generale e sta gravemente inasprendo la crisi economica fronteggiata dall’Egitto (che ottiene importanti rendite dalla gestione del passaggio attraverso il Canale di Suez). Il potenziale distruttivo dell’“Asse della resistenza” rappresenta al momento la sfida militare più pressante per le forze americane in Medio Oriente.
Nonostante la percezione di un “ritiro” americano dalla regione, già prima del 7 ottobre la presenza militare a stelle e strisce in Medio Oriente era piuttosto consistente, con circa 45.000 soldati USA, schierati soprattutto nei paesi del Golfo Persico, ma con contingenti significativi anche in aree molto instabili come la Siria (900 soldati) e l’Iraq (2.500). A partire dallo scoppio del conflitto tra Israele e Hamas, la presenza americana in Medio Oriente è ulteriormente aumentata. Gli Stati Uniti hanno rapidamente schierato nella regione due portaerei con annessi gruppi navali di supporto per un totale di 7.500 soldati aggiuntivi: la USS Gerald Ford – la più grande portaerei al mondo, che dopo una sosta nel Mediterraneo orientale ha fatto ritorno negli Stati Uniti – e la USS Eisenhower. A questo massiccio incremento della presenza navale si sono sommati un sottomarino classe “Ohio,” un incremento delle forze aeree e dei sistemi di difesa antimissile e l’annuncio di un consistente pacchetto di aiuti economici a Israele per un ammontare di 14,3 miliardi di dollari USA (da aggiungere ai 3,8 miliardi di dollari di assistenza militare che Israele già riceve ogni anno dal governo di Washington).
Questo incremento della presenza militare americana fa parte di una complessa e delicata strategia elaborata dall’amministrazione guidata da Joe Biden, che mira tanto a garantire la sicurezza di Israele quanto a contenere il conflitto, nella speranza di limitare allo stesso tempo una catastrofe umanitaria tale da far deragliare definitivamente il processo di pace israelo-palestinese e vanificare altri obiettivi strategici americani – come la costruzione di un Medio Oriente più “integrato” e autosufficiente sotto il profilo della sicurezza e della stabilità geopolitica. In quest’ottica, il ruolo delle forze americane è quello di evitare un’escalation regionale esercitando un’azione di deterrenza nei confronti dei gruppi estremisti operanti nella regione ed evitare che Israele estenda le operazioni militari oltre la Striscia di Gaza, innescando un conflitto regionale.
Il problema sta nel fatto che, promuovendo una tale politica, gli Stati Uniti sono di fatto divenuti un attore ancora più centrale negli equilibri regionali, e si sono assunti la responsabilità di fronteggiare direttamente il rischio di un’escalation. Le difficoltà di questo approccio sono state finora evidenziate dalla scarsa cooperazione che il governo di Washington ha ricevuto dal governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu, che nonostante gli appelli molto chiari dell’amministrazione Biden ad attuare un’efficace strategia di controterrorismo basata sulla protezione della popolazione civile, ha spesso adottato un approccio militare indiscriminato, come l’interruzione della fornitura di acqua, cibo, elettricità e carburante nella Striscia di Gaza, l’ordine alla popolazione civile di abbandonare le proprie abitazioni e una massiccia campagna aerea comparabile a quelle avvenute durante la Seconda guerra mondiale.
Il prolungarsi del conflitto tra Israele e Hamas e l’aumento del numero delle vittime ha dunque avuto importanti ripercussioni in altri teatri regionali, portando a un serio incremento della tensione e degli scontri armati tra le forze americane e gli attori facenti parte dell’“Asse della resistenza”. I principali teatri di questa contrapposizione parallela a quella tra Israele e Hamas sono il Mar Rosso e l’arco di instabilità compreso tra la Siria e l’Iraq.
A partire dai giorni immediatamente successivi agli attentati del 7 ottobre, gli Houthi hanno infatti iniziato a effettuare attacchi contro le imbarcazioni mercantili che transitano nel Mar Rosso, utilizzando missili e droni, e in alcuni casi tentando di abbordare le imbarcazioni. Sebbene l’obiettivo dichiarato sia quello di bloccare esclusivamente il traffico marittimo da e verso Israele, di fatto gli attacchi degli Houthi hanno interessato qualsiasi tipo di imbarcazione, spingendo diverse aziende e operatori a evitare del tutto il Mar Rosso e il canale di Suez e a utilizzare la più lunga e costosa tratta che circumnaviga il continente africano. A partire dal novembre 2023 gli Houthi hanno condotto almeno 27 attacchi. Queste azioni hanno provocato risposte militari da parte delle forze statunitensi, che si sono concretizzate nel lancio dell’operazione Prosperity Guardian, a cui partecipano anche alleati di Washington tra cui il Regno Unito, la Francia, il Canada e l’Italia. A cavallo del nuovo anno le forze USA hanno effettuato un’operazione difensiva contro imbarcazioni Houthi nel Mar Rosso affondando tre battelli. A questi scontri ha fatto seguito una dichiarazione congiunta di condanna agli attacchi contro il traffico marittimo da parte del governo di Washington e di altri governi alleati. Lo scorso 11 gennaio le forze americane e britanniche hanno colpito 60 obiettivi relativi a 16 strutture militari Houthi in risposta a una serie di attacchi contro il traffico marittimo nel Mar Rosso, l’ultimo dei quali era avvenuto il 9 gennaio. Questa operazione ha causato 6 morti tra i miliziani Houthi, ma anche le forze americane hanno subito delle perdite. Lo scorso 22 gennaio due operatori delle forze speciali statunitensi Navy Seals sono stati dichiarati deceduti a seguito di un’azione effettuata al largo delle coste della Somalia allo scopo di intercettare un battello che trasportava armi iraniane destinate agli Houthi.
Le forze americane si sono inoltre scontrate con varie milizie filo-iraniane operanti in Siria e in Iraq. Nei giorni successivi agli attentati del 7 ottobre, alcune gruppi armati – noti come la “Resistenza islamica in Iraq” – hanno iniziato a condurre una serie di attacchi (22 alla fine di ottobre) contro basi militari americane in Siria e in Iraq, utilizzando droni e missili. A questi attacchi è seguita una risposta da parte dell’aviazione statunitense, ma questi scontri non hanno immediatamente provocato morti. Le schermaglie sono tuttavia continuate in maniera costante, con 150 attacchi contro forze USA e alleate operanti in Siria e Iraq da parte di milizie filo-iraniane a partire da metà ottobre 2023. La situazione su questo fronte ha conosciuto un importante peggioramento il 20 gennaio, quando un attacco missilistico alla base statunitense di Al Asad, nell’Iraq occidentale, ha portato al ferimento di alcuni militari americani. Un’ulteriore soglia è stata varcata domenica 28 gennaio, quando un attacco tramite droni contro una base statunitense situata a ridosso del confine tra la Giordania e la Siria è costato la vita a tre soldati americani. Questo attacco – che è avvenuto in concomitanza con un delicato negoziato per il rilascio degli ostaggi israeliani detenuti da Hamas – ha fortemente aumentato la pressione sull’amministrazione Biden, che il primo febbraio ha annunciato una risposta militare massiccia e articolata nell’arco di diversi giorni contro le milizie legate al regime di Teheran in Siria, con la possibilità di estendere le operazioni anche in Iraq. A questa dichiarazione è seguito un attacco aereo contro 85 obiettivi localizzati in Siria e in Iraq che si ritiene abbia portato alla morte di almeno 16 persone. In parallelo, le forze statunitensi e britanniche hanno colpito 30 obiettivi legati agli Houthi in Yemen. Anche se il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha specificato che gli Stati Uniti intendono limitare la risposta militare ai gruppi responsabili degli attacchi contro le forze USA, Jake Sullivan, il consigliere della Sicurezza nazionale di Biden, ha confermato l’intenzione del governo americano di condurre ulteriori azioni di questo tipo nel prossimo futuro. Questa strategia mira a ottenere indirettamente un’effetto deterrente nei confronti del regime di Teheran, che come già notato esercita una forte influenza su diversi attori non statali che operano nella regione. Tuttavia un tale approccio presenta chiaramente anche il rischio di incentivare un’escalation, e l’amministrazione Biden si trova inoltre a fronteggiare le critiche di alcuni esponenti del Partito repubblicano – come il senatore Lindsey Graham del South Carolina – che invocano rappresaglie militari dirette contro il regime di Teheran.
Come nel romanzo Catch-22 – in cui il protagonista si trova a causa delle sue stesse azioni a dover inevitabilmente correre i rischi che vorrebbe evitare – gli Stati Uniti si trovano in una dinamica paradossale: l’impegno politico e militare di Washington svolge un ruolo deterrente essenziale al fine ridurre le possibilità di una diffusione del conflitto a livello regionale, ma allo stesso tempo la presenza militare americana rappresenta di per sé un catalizzatore per le tensioni e un bersaglio per gli attori che basano la loro strategia sull’opposizione a Israele e agli USA. La chiave per uscire da questa situazione potrebbe risiedere nella capacità di Washington di ottenere progressi concreti sul fronte israelo-palestinese, con politiche volte a ridurre gli effetti collaterali sulla popolazione civile – finora drammatici – delle operazioni contro Hamas e alleviare la grave crisi umanitaria di Gaza. Il modo migliore per evitare un’escalation e neutralizzare l’influenza dell'”Asse” che ruota attorno al regime di Teheran potrebbe essere il rilancio del processo di pace, in modo da spezzare la catena di violenza che dilania il Medio Oriente dallo scorso ottobre e riavviare un percorso volto a garantire la sicurezza di Israele, la nascita di uno Stato palestinese indipendente e libero dalla violenza e dall’estremismo e la realizzazione del progetto di Medio Oriente integrato a cui mira il governo statunitense.
Diego Pagliarulo