Nei Balcani occidentali si sta giocando una partita molto importante per gli equilibri regionali. Di recente, Belgrado ha riutilizzato la carta dell’etnonazionalismo ma su un quadrante differente rispetto al consueto scenario kosovaro. Infatti, se per portare acqua al proprio mulino, la narrativa serba ha quasi sempre puntato sulle condizioni politiche e sociali in cui versano i serbi del Kosovo, questa volta la partita si gioca a ovest e, più precisamente, in Bosnia-Erzegovina (BiH), dove il presidente serbo Aleksandar Vučić ha trovato nel presidente della Republika Srpska (RS), Milorad Dodik, un’ottima sponda per favorire la sua “ambiguità strategica” e cercare di imporsi come attore centrale delle dinamiche regionali. Fermo restando che Belgrado non ha abbandonato la comunità serba del Kosovo, la liaison con il presidente Dodik è parsa a Vučić più efficace per mettere prima di tutto l’Unione europea e, poi, la Bosnia Erzegovina – Stato candidato all’adesione dal marzo 2022 – in una situazione politicamente complicata.
Dodik e Vučić: un’alleanza di circostanza con non poche ambiguità
Entrambi politici di lungo corso, i due hanno rafforzato le proprie relazioni solo negli ultimi anni, complice anche la polarizzazione internazionale che ha seguito l’invasione russa dell’Ucraina. Durante la sua carriera politica, Vučić ha sempre sostenuto l’integrità territoriale della BiH guardandosi bene dal supportare le pressioni della RS per un referendum secessionista, soprattutto perché un’eventuale indipendenza dei serbi di Bosnia avrebbe potuto giustificare il referendum kosovaro del febbraio 2008. Ed effettivamente, quest’ultimo è stato usato dai leader della RS e, recentemente, dallo stesso Dodik come precedente per sostenere l’indipendenza dei serbi della BiH. Al di fuori dei confini della RS, tale situazione ha tenuto Dodik lontano da possibili alleanze regionali o internazionali, obbligandolo de facto, da un lato, a sottostare al desiderio dei bosgnacchi di aderire all’Ue – su cui lo stesso “uomo forte di Banja Luka” era d’accordo fino a qualche anno fa – e, dall’altro, a temere la minaccia di ritorsione (anche militare) da parte delle comunità bosgnacche e bosniaco-croate ma anche di altri attori internazionali.
Al contrario della controparte serba, la critica all’assetto di Dayton da parte di Dodik è stata un leitmotiv che negli ultimi due anni si è manifestato attraverso l’appropriazione da parte della RS di alcune prerogative in ambito medico, fiscale, giuridico, di sicurezza e difesa che, in linea di principio, spettano all’entità centrale (Belgrado). In prima battuta, questi emendamenti sono stati discussi dal parlamento della RS e poi approvati a fine 2021, concretizzandosi all’inizio del 2022, proprio in concomitanza con l’invasione russa dell’Ucraina – evento utilizzato dallo stesso Dodik per giustificare i cambiamenti nella politica interna della RS.
Questa situazione estremamente complessa, tanto per Belgrado quanto per l’Ue e i suoi alleati, ha tenuto al di là dell’orizzonte politico balcanico una “alleanza di tutti i serbi” che, però, negli ultimi tempi rischia di crollare a causa della mutata situazione internazionale e del voto dell’Assemblea generale delle Nazioni unite sull’istituzione di una giornata internazionale per il ricordo del genocidio di Srebrenica del luglio 1995.
Il massacro di Srebrenica trent’anni dopo: causa di tensione regionale e internazionale
La Risoluzione Onu per l’istituzione di una giornata internazionale in ricordo del genocidio di Srebrenica – ogni 11 luglio – è stata scritta da Germania e Ruanda (sotto proposta del rappresentante permanente all’Onu della BiH, Zlatko Lagumdžija) e co-sponsorizzata da Albania, Bosnia-Erzegovina, Cile, Finlandia, Francia, Irlanda, Italia, Giordania, Paesi Bassi, Liechtenstein, Malesia, Nuova Zelanda, Slovenia, Turchia e Stati Uniti. Questa doveva essere votata dall’Assemblea generale il 27 aprile scorso, ma alla fine la votazione è stata posposta per ben due volte – presumibilmente per disaccordi sul testo definitivo da presentare e causa della pressione russa in seno al Consiglio di sicurezza.
La risoluzione implica il riconoscimento politico internazionale del genocidio di Srebrenica. Però, apparentemente il documento non prevede un’esplicita menzione alla responsabilità della Serbia o della RS, ma cita solo che tale massacro fu fatto a scapito della comunità bosniaco-musulmana. Sebbene, lo stesso genocidio sia già stato riconosciuto dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja e dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, il membro serbo della presidenza della BiH, Željka Cvijanović, ha sottolineato come tale risoluzione sia un tentativo per concentrare l’iniziativa politica nelle mani dei rappresentanti bosgnacchi della BiH, escludendo quelli serbi che non sono stati consultati per la scrittura di questo documento che sarà poi votato all’Assemblea generale delle Nazioni unite. Secondo Cvijanović, i trent’anni dalla fine della guerra civile in Bosnia dovrebbero essere un’occasione per commemorare la tragedia di tutte le comunità della BiH e non solo di una parte. La risoluzione è considerata dagli attori politici della RS come un tentativo dall’esterno d’interferire con i processi democratici e politici interni, di destabilizzare la pace e la stabilità del paese, minando lo stesso ordine costituzionale scaturito da Dayton. La stessa Cvijanović ha messo in discussione il ruolo dell’Alto rappresentante per la BiH, Christian Schmidt, accusandolo di essere un “governatore neocoloniale”, un “classico despota” che usa il proprio potere in maniera assoluta e irresponsabile. Dal canto suo, il rappresentante permanente di Belgrado, Marko Đurić, si è associato alle dichiarazioni di Cvijanović sulla risoluzione, giudicandola discriminatoria e divisiva.
In questo clima di rinnovata crisi nei Balcani occidentali, Dodik ha cercato e trovato una sponda nella Serbia di Vučić e, non a caso, nella Federazione russa.
Polarizzazione e rischio di secessione
Negli ultimi anni, l’Ue sta cercando di mantenere faticosamente la pace nei Balcani occidentali nel tentativo di ampliare la propria influenza nell’area al fine di completare il processo d’integrazione europea dei paesi della regione. Dopo aver risolto la diatriba sulla nomenclatura della Macedonia del Nord e aver ridotto le influenze russe all’interno del Montenegro, Bruxelles sta cercando, da un lato, di trovare un accordo con Belgrado per avviare un solido processo di adesione della Serbia e del Kosovo all’Unione – frapponendosi tra le spallate di Pristina per l’indipendenza e le reazioni intimidatorie del governo serbo – e, dall’altro, di sistemare una volta per tutte la questione bosniaca “sciogliendola” all’interno della propria rule of law, favorevole ai principi di sussidiarietà e autonomia ma, al contempo, sostenitrice del principio di integrità territoriale degli Stati.
L’unica maniera per far saltare questa visione europea è soffiare sul fuoco dell’etnonazionalismo; e, negli ultimi due anni, questo è esattamente quello che sta accadendo. La retorica del duo Dodik-Vučić si potrebbe sintetizzare come segue: se la comunità serba della RS non sarà interpellata per la scrittura della risoluzione su Srebrenica, allora la comunità serba dei Balcani occidentali è pronta a mettere in discussione l’assetto istituzionale stabilito a Dayton e confederarsi in un movimento di solidarietà regionale a tutela degli interessi serbi. Se fosse limitata al dialogo tra Belgrado e Banja Luka, questa retorica rimarrebbe tale, ma alle spalle vi è il sostegno di Mosca, da sempre in prima fila per sostenere le cause dei “fratelli minori” serbi – che, però, recentemente stavano cedendo ben volentieri alle lusinghe di Bruxelles. Soprattutto Dodik, negli ultimi tre anni ha cercato incessantemente la sponda di Mosca sia in seno alle Nazioni unite che per un supporto interno, complici anche le sanzioni a lui imposte da Stati Uniti e Regno Unito a causa del trasferimento di competenze forzato dall’entità centrale della BiH alla RS a cui si accennava precedentemente. Successivamente a questa vicenda, alcuni report e lo stesso ministro della Difesa bosniaco, Zukan Helez, hanno denunciato la presenza nel paese di personale militare russo intento ad addestrare milizie della RS direttamente sotto il controllo di Banja Luka.
Con l’annunciato voto in seno all’Assemblea generale dell’Onu, Dodik ha spinto verso la crisi, accusando a fine marzo 2024 Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania di comportarsi come Stati colonizzatori e usurpatori, che lavorano per la distruzione dell’ordine costituzionale in Bosnia-Erzegovina attraverso una guerra ibrida contro la RS e la Serbia di Vučić – dichiarando la stessa BiH uno Stato senza futuro che sta andando verso una “pacifica dissoluzione”.
Se le parole del presidente Dodik sono solo un tentativo à la Pyongyang di alzare la tensione regionale per cercare di accrescere il proprio peso politico – e quello di alcuni attori esterni, lo sapremo certamente dopo il voto dell’Assemblea generale. Infatti, sia Dodik che Vučić hanno annunciato che, saputo l’esito della votazione sul genocidio di Srebrenica, convocheranno una Assemblea del popolo serbo per reagire in modo serio a quella che, per loro, è la più grande squalifica morale, giuridica e politica che sia mai stata perpetrata contro di esso in tempi recenti. L’Assemblea del popolo serbo si sarebbe dovuta tenere durante i giorni della Pasqua ortodossa (5 e 6 maggio) ma il rinvio del voto alle Nazioni unite ha costretto a riprogrammare questo evento in cui si sarebbero dovute prendere decisioni molto importanti per la sopravvivenza del popolo serbo. Sembrerebbe chiaro che gli interessi in gioco, interni ed esterni ai Balcani occidentali, sono molteplici e, politicamente, c’è un’aria di secessione che è monitorata con estrema attenzione da Washington, Bruxelles e Mosca. Quel che è certo è che, se questa situazione dovesse deteriorare, l’idea di una “pacifica dissoluzione”, così come annunciata da Dodik, è una mera illusione se consideriamo quanto le altre comunità della BiH siano determinate nel preservare l’ordine di Dayton, sostenute con convinzione dagli Stati Uniti, dal Regno Unito e dalla missione europea Eufor.
Marcello Ciola