Libia: la fame di potere e l’instabile status quo

A distanza di quasi 13 anni dalla morte di Moammar Gheddafi, in Libia la situazione rimane complessa e in perenne bilico. Mentre la risoluzione delle questioni-chiave, necessarie a determinare un’effettiva stabilizzazione del paese sembra un miraggio, i recenti conflitti che hanno coinvolto la Banca centrale hanno rafforzato, ulteriormente, le distanze che separano le due fazioni rivali. La fame di potere e ricchezze sta mettendo in discussione l’attuale status quo e, al contempo, sta usurando l’accordo sul cessate il fuoco raggiunto nel 2020, mantenuto vivo solo grazie al ruolo degli attori esterni. Il gioco dei player internazionali continua ad avere un peso specifico importante e a influenzare la scelta dei diversi protagonisti domestici, benché alcuni sviluppi, come il riavvicinamento di Turchia ed Egitto, siano visti in termini positivi per il raggiungimento di una soluzione al puzzle libico.

Mappa della Libia. Fonte: Wikimedia Commons

Secondo il Fiscal Transparency Report 2024, pubblicato dal Dipartimento di Stato statunitense, le divisioni politiche hanno impedito negli ultimi anni di implementare i normali processi di bilancio, il che ha influenzato negativamente sia la trasparenza fiscale che le operazioni governative. Nel 2024, da una parte, il Governo di unità nazionale (Gun), con sede a Tripoli, non ha pubblicato una proposta di bilancio esecutivo, assegnando e distribuendo fondi senza l’approvazione parlamentare e senza nessun tipo di supervisione; dall’altra, la Camera dei rappresentanti (House of Rappresentatives – HoR) ha approvato un bilancio per l’altro esecutivo con sede in Cirenaica, il Governo di stabilità nazionale (Gsn), che ha speso fondi di provenienza poco chiara senza supervisione e senza coordinamento con le autorità di Tripoli. A queste gravi difficoltà oggettive, negli ultimi mesi si sono aggiunti una serie di eventi che hanno aggravato ulteriormente il già complesso quadro. Tra questi, la decisione unilaterale del Consiglio presidenziale (Cp), sostenuta dal premier del Gun, Abdulhamid Dbeibah, di sostituire lo “storico” governatore della Banca centrale (Bc), Saddik al-Kabir, ha generato alta tensione sull’intero scacchiere politico. Le conseguenze di tale mossa sono state il blocco delle esportazioni di petrolio, l’isolamento del paese dai sistemi finanziari internazionali e la cessazione di tutti i pagamenti e crediti. La decisione è parsa come l’epilogo della “storia d’amore” tra al-Kabir e il clan di Dbeibah. Da quanto dichiarato dall’ormai ex governatore, «i rapporti con il governo di Dbeibah hanno iniziato a deteriorarsi dopo che la Banca centrale ha chiesto nell’ottobre 2023 di iniziare a elaborare un bilancio unificato per il 2024». Tra le diverse narrazioni che hanno portato alla rottura tra Bc e Gun, vi è l’esagerata spesa del governo di Tripoli, diventata insostenibile secondo l’istituzione finanziaria, in particolar modo in quei settori pubblici controllati da persone vicine alla cerchia di Dbeibah. Quest’ultima ha un protagonista, considerato la vera eminenza grigia del premier misuratino: il nipote Ibrahim Dbeibah, figlio di Ali, fautore dell’accordo con gli Haftar per la nomina di Fareth Bengdara alla guida della National Oil Corporation (Noc). Alla fine del 2023, al-Kabir ha iniziato a bloccare i versamenti nei confronti del Gun, arrivando alla rottura e allo scontro con i Dbeibah. La conseguenza è stata un riavvicinamento dell’ex governatore con la fazione orientale, non solo in termini politici ma anche di concessioni economiche. Non è un caso, infatti, che la decisione di estromettere al-Kabir, nel frattempo fuggito in Turchia per salvaguardarsi dopo il rapimento di alcuni funzionari della Bc, sia stata rifiutata sia dall’HoR che da Khalifa Haftar, e che quest’ultimo abbia ordinato il blocco degli impianti petroliferi sotto il suo controllo.

Intanto, su sollecito della comunità internazionale, i rappresentanti della HoR e dell’Hcs hanno raggiunto un compromesso sulla nomina di una nuova dirigenza per l’ente. Le due parti hanno siglato un accordo sulle procedure, i criteri e le tempistiche per la nomina di un governatore, di un vicegovernatore e di un consiglio di amministrazione, in conformità con l’accordo politico del 2015. Ad assumere la carica ad interim, in attesa che gli organi legislativi concordino sulla questione delle posizioni sovrane, sarà Naji Essa (attuale direttore del Dipartimento di vigilanza bancaria e valutaria), mentre il suo vice sarà Miree al-Barisee (attuale vicegovernatore proveniente dall’est).

Intervista all’ex governatore della Banca centrale, Saddik al-Kabir.

Gli Haftar oggi ricevono da Tripoli i finanziamenti necessari per la gestione amministrativa della regione sotto il loro controllo, nonostante il paradosso che tali flussi vadano nelle casse di un governo parallelo. Al contempo, la loro influenza sulla Noc continua a essere forte e determinante, così come il ruolo nel contrabbando di vario genere rientra tra le fonti di reddito principali per la loro sopravvivenza. Il controllo totale sul sistema finanziario della regione e l’assenza di un meccanismo di rendicontazione credibile hanno permesso la cancellazione di vecchi debiti e, grazie al flusso continuo di dinari dal mercato nero, la spesa – in particolare nel settore dell’edilizia – è ritornata ad essere tra le voci in grado di dare un senso alla loro amministrazione.

A ciò si aggiunge il non sopito desiderio del feldmaresciallo di controllare l’intero territorio dell’ex colonia italiana. Nei mesi scorsi diverse operazioni, soprattutto nella regione meridionale e in quelle al confine con Tunisia e Algeria, e i continui rifornimenti militari dall’estero hanno agitato le notti del governo e delle milizie di Tripoli. Sebbene con alcune di queste ultime ci sia in corso da tempo un dialogo in chiave anti-Dbeibah, l’ascesa definitiva di Haftar renderebbe il loro ruolo del tutto insignificante. Per tale motivo, ad oggi, l’unica possibilità per l’uomo forte della Cirenaica rimane quella dell’uso della forza. La presenza turca in Tripolitania è l’ostacolo principale alle ambizioni di Haftar e della sua famiglia. Detto ciò, il sempre maggiore supporto della Russia, così come l’attenzione a lui dedicata da tutta la comunità internazionale, non fanno presagire nulla di buono.

Sul fronte più strettamente politico, lo scontro rimane sempre vivo. La HoR lo scorso 13 agosto, per l’ennesima volta, ha annunciato la fine del mandato del Gun di Tripoli, riconoscendo come unico esecutivo il Gsn, guidato da Osama Hamad. Durante la seduta in cui è stata votata tale decisione, la HoR ha conferito al suo presidente, Aguila Saleh, il ruolo di comandante supremo delle Forze armate, carica fino ad oggi assunta dal presidente del Cp, Mohamed al-Menfi. Quest’ultimo organo è stato anch’esso considerato decaduto e quindi privo di qualsiasi autorità legale per continuare la propria attività. Khaled al-Mishri – in qualità di presidente dell’Alto Consiglio di Stato (High Council of State – Hcs) – ha risposto alla decisione proveniente da Tobruch con una lettera inviata all’HoR in cui considera l’atto invalido, a causa della violazione delle disposizioni aggiuntive dell’accordo politico firmato a Skhirat nel 2015. In particolar modo, secondo al-Mishri – rieletto nuovamente a capo dell’organo legislativo con sede a Tripoli nelle elezioni della scorsa estate, dopo il breve mandato di Mohamad Takala –, il Cp è l’organo che esercita i poteri di comandante in capo dell’esercito, aggiungendo che l’articolo 12 delle disposizioni aggiuntive dell’accordo politico stabilisce che qualora fosse necessario apportare una modifica successiva alla Dichiarazione costituzionale che incida direttamente o indirettamente sull’accordo o su una delle istituzioni che ne derivano, la HoR e l’Hcs sono obbligati a concordare tra loro la formula di tale modifica, a condizione che venga definitivamente approvata senza modifiche dalla HoR, secondo il meccanismo contenuto nella Dichiarazione costituzionale. Nonostante il dialogo tra i due organi legislativi, necessario per trovare un’intesa sulle questioni chiave, soprattutto in ambito costituzionale ed elettorale, le azioni unilaterali e i differenti punti di vista, condizionati dai giochi di potere, continuano ad accentuare le distanze.

Khalifa Haftar (a sinistra) e Abdulhamid Dbeibah (a destra). Fonte: Libya AlAhrar

Infine, la seconda vita di al-Mishri alla guida dell’Hcs rischia di vedere la fine dopo poco più di un mese. Nella seduta del 6 agosto, durante la quale si votava il nuovo responsabile dell’organo, il presidente uscente Takala aveva chiesto l’annullamento del voto, per dubbi su una scheda, e quindi la ripetizione della tornata. Takala aveva annunciato di voler ricorrere per vie giudiziarie, mentre al-Mishri ha sempre ritenuto che solo la commissione legale dell’Hcs fosse autorizzata a risolvere la controversia interna. Il 25 settembre la Corte d’appello di Tripoli del Sud ha accolto il ricorso presentato dall’ex presidente e ha stabilito che le elezioni presidenziali dell’organo non erano valide. La carica in questione è fondamentale per gli sviluppi del processo politico: infatti, la nomina di Takala era stata voluta fortemente da Dbeibah, viceversa al-Mishri si è scontrato spesso con il premier del Gun a causa del suo continuo dialogo con l’HoR e in più occasioni si è espresso anche a favore della creazione di un nuovo esecutivo transitorio per accompagnare il paese alle urne, in netto contrasto con gli interessi dell’imprenditore misuratino.

In tutto questo marasma, gli attori esterni giocano ancora un ruolo di  primo piano. Il radicamento nel paese maghrebino di player come Russia e Turchia, ma anche Egitto ed Emirati Arabi Uniti, rende la prospettiva di un conflitto sempre probabile, con il possibile allargamento oltre i confini libici vista la presenza di tali attori anche nella regione del Sahel e non solo. Al contrario, i paesi occidentali continuano a cambiare le proprie politiche, modificando l’approccio a seconda del momento. La ricerca di continui accordi tra le diverse parti, promossi da Nazioni unite e comunità internazionale, è stata tra le cause che hanno prodotto l’attuale impasse. Anziché dare priorità alla ristrutturazione e creazione delle istituzioni necessarie per quel processo di state building avviato all’indomani della rivolta del 2011, si è optato per una confusa strategia basata su una finta inclusività che ha permesso ai pochi forti di acquisire sempre più potere e controllo del territorio, attraverso corruzione e profitto. Appare chiaro, quindi, come sia quasi impossibile una soluzione nel brevissimo periodo, anche nel remoto caso in cui gli attori esterni possano trovare punti in comune per avviare un dialogo costruttivo.

Mario Savina