Il prossimo 6 ottobre, in Tunisia, si svolgeranno le elezioni presidenziali. La tornata elettorale è importante per una serie di ragioni: è il primo voto presidenziale dagli eventi che hanno destabilizzato il quadro politico e costituzionale nel paese dei gelsomini, che hanno come punto di partenza il contestato 25 luglio del 2021; il voto sarà decisivo per il percorso “autoritario” dell’attuale capo di Stato e vincitore delle elezioni del 2019, Kaïs Saïed; la prossima presidenza dovrebbe avere come focus la ripresa economica-finanziaria del paese; la Tunisia, così come la vicina Libia, è fonte di preoccupazione per l’Italia e l’Unione europea.
L’attuale parvenza di stabilità politica, la delicata situazione economica, una struttura statale in tensione e nessuna programmazione per il medio-lungo periodo rendono il contesto e il futuro non così roseo. Sul fronte politico, dal 2021 si è assistito a un crescente accentramento dei poteri nelle mani del presidente, che ha tentato di sfruttare alcune questioni – su tutte, la lotta all’opposizione e il dossier migratorio –, attraverso un discorso basato, principalmente, su complottismo e retorica. Successivamente alla sua salita al potere, l’ex professore di diritto costituzionale ha modificato la Carta costituzionale e istituito di fatto un nuovo sistema politico basato su elezioni legislative e locali. Nonostante i sondaggi degli ultimi anni abbiano sempre confermato una certa popolarità di Saïed e un avallo alle sue scelte politiche, la scarsa partecipazione alle urne ha dimostrato la fragilità del sistema socio-politico. L’ultimo esempio è stato il voto dello scorso 24 dicembre, che ha visto, come già successo in altri casi, un tasso di affluenza alle urne molto basso, a dimostrazione della disillusione popolare.
Dopo l’annuncio del 2 luglio scorso, in cui il presidente confermava la data delle presidenziali, diciassette potenziali candidati hanno espresso il loro interesse a concorrere per la massima carica dello Stato, ma la commissione elettorale (Instance Supérieure Indépendante pour les Élections, Isie) – anch’essa riformata nel 2022 – ha dato semaforo verde solo a tre di questi, una differenza notevole rispetto alla tornata del 2019 quando i candidati furono ventisei. Quattordici sono stati estromessi per non aver acquisito il numero di firme necessario (un elenco di firme di appoggio di 10 membri del Parlamento, 40 presidenti eletti di governi locali o 10.000 elettori registrati da almeno 10 circoscrizioni, con almeno 500 firme di elettori per circoscrizione), per non aver soddisfatto i criteri di nazionalità (cittadino tunisino, con genitori e nonni paterni e materni tunisini e senza doppia cittadinanza) o per non aver fornito una garanzia finanziaria sufficiente. Inoltre, sette soggetti hanno affermato – fatto negato però dalla Isie – di non essere riusciti a presentare la documentazione utile per la loro candidatura, a causa delle difficoltà incontrate nella richiesta al Ministero degli Interni dei documenti legali che dimostrassero la fedina penale pulita, un nuovo requisito istituito da Saïed. E mentre la Corte amministrativa tunisina, il massimo organo incaricato delle controversie elettorali, ha stabilito che tre dei candidati estromessi avrebbero dovuto essere reintegrati nella corsa, l’Isie ha respinto la decisione, affermando che: «La commissione è l’unico organo costituzionalmente incaricato dell’integrità delle elezioni». A tal proposito, il 27 settembre, durante una sessione straordinaria del Parlamento, è stata approvata una proposta di modifica alla legge elettorale che prevede il trasferimento delle competenze sulle controversie dalla Corte amministrativa alla giustizia ordinaria; i risultati preliminari potranno essere contestati solo al Tribunale di primo grado di Tunisi. L’atto ha creato non pochi malumori nelle opposizioni, portando decide di persone in piazza.
Inoltre, come riportato anche da Human Rights Watch, diversi candidati hanno ritirato la propria candidatura dopo gli attacchi e le condanne subite in questi ultimi mesi. A mo’ di esempio, si può citare, tra gli altri, il caso di Lofti Mrahiri, leader dell’Unione popolare repubblicana, condannato a otto mesi di prigione, con il divieto a vita di candidarsi per aver presumibilmente “fatto donazioni al fine di influenzare gli elettori”; oppure, la condanna di due anni di prigione inferta ad Abir Moussi, la forte oppositrice e leader del Partito destouriano libero, per aver diffuso “notizie e voci false” sulla commissione elettorale, ai sensi dell’art. 24 del decreto legge 54 sulla criminalità informatica. Quest’ultimo decreto è stato molto discusso e criticato da attivisti e dalla comunità internazionale per il forte carattere repressivo. Infatti, la sua lettura permette di capire come esso possa essere utilizzato contro oppositori e media: “Chiunque utilizzi consapevolmente sistemi e reti di informazione e comunicazione per produrre, diffondere, disseminare, inviare o scrivere notizie false, dati falsi, voci, documenti falsi o falsificati o falsamente attribuiti ad altri allo scopo di violare i diritti altrui o di nuocere alla sicurezza pubblica o alla difesa nazionale o di seminare il terrore tra la popolazione è punito con cinque anni di reclusione e una multa di cinquantamila dinari. Le pene previste sono raddoppiate se l’interessato è un pubblico ufficiale o assimilato”.
I tre candidati ufficiali che concorreranno alla massima carica dello Stato saranno quindi: Ayachi Zammel, Zouhair Maghzaoui e, appunto, Kaïs Saïed. Il primo, imprenditore ed ex parlamentare, ha fondato il suo partito Azimoun nel giugno 2022; nelle sue uscite, con lo slogan “Voltare pagina”, si è sempre presentato come liberale e democratico convinto, affermando il suo impegno per la libertà di espressione e di stampa e il sostegno ai prigionieri politici. Il secondo, Zouhair Maghzaoui, è segretario generale del partito nazionalista arabo “Movimento popolare”. Nonostante nella prima fase abbia di fatto sostenuto le azioni di Saïed, dal 2023 ha iniziato a prendere le distanze dall’attuale presidente e a criticare alcune scelte, in particolar modo sulla guerra alla libertà di espressione e sugli accordi con l’Italia sulla questione migratoria. Infine, Kaïs Saïed: vincitore indipendente al ballottaggio nelle presidenziali del 2019, con oltre il 70% di consensi, ha fatto della lotta contro partiti e “nemici del popolo” il suo cavallo di battaglia; nonostante una posizione tradizionalista e conservatrice, si è sempre presentato come elemento di discontinuità rispetto all’establishment, inserendosi nella frattura élite-popolo.
Il mandato 2019-2024 di Saïed è stato improntato su una serie di azioni tese a modificare strutturalmente l’intero sistema, così da permettere e garantire la continuazione del suo operato. Utilizzando il suo ruolo e la sua ampia esperienza in tema di diritto costituzionale è stato in grado di attuare e giustificare le proprie scelte, nonostante i boicottaggi dell’opposizione – debole e poco organizzata, anche a causa delle forte repressione – e la scarsa fiducia della popolazione. Questi cinque anni sono stati segnati da aspre critiche sulla repressione contro alcune libertà fondamentali, sul tema del maltrattamento delle minoranze, in particolar modo dopo l’avvio della guerra ai migranti irregolari presenti sul territorio tunisino, e sulla difficoltà nel riuscire a trovare una soluzione alla grave crisi economica che attanaglia il paese maghrebino. A maggio 2024, la Banca mondiale ha avvertito sulle previsioni di crescita della Tunisia, con stime che non dovrebbero andare oltre il 2% alla fine dell’anno in corso. Il tasso di disoccupazione continua a mantenersi su livelli alti, circa 16% nel secondo trimestre del 2024 (nel 2023 si era attestato sugli stessi valori). L’inflazione, nonostante un miglioramento rispetto al recente passato, ad agosto registrava un dato del 6,7%, mentre il debito pubblico rimane a circa l’80% del Pil. La ritrosia di Saïed nel cedere alla riforme economiche e sociali imposte dal Fondo monetario internazionale come requisito per il prestito di 1,9 miliardi di dollari ha portato i colloqui a una fase di stallo che non vede, al momento, una possibile via d’uscita.
Con questi numeri, la presidenza che guiderà il paese nei prossimi cinque anni avrà il compito di attuare un ambizioso programma di riforme per soddisfare le esigenze di finanziamento e promuovere una crescita economica sostenibile. Con le giuste politiche, l’economia tunisina avrebbe un potenziale significativo per prosperare nel prossimo futuro. Tuttavia, bisognerebbe ridurre al minimo l’impatto sulle famiglie della crisi economica. Negli ultimi anni, infatti, per molti tunisini, i blackout elettrici e la scarsità idrica sono diventati sfide quotidiane. La cattiva gestione delle risorse e l’incapacità di fornire beni di prima necessità come cibo, acqua e alloggi hanno causato una diffusa ansia sociale e un certo disincanto verso la politica che merita, evidentemente, di essere valutato con maggiore attenzione da parte delle autorità nazionali.
L’esito delle presidenziali, ad oggi, pare essere scontato, e non sono previste sorprese. In linea con la politica fino ad oggi espressa, Saïed ha dichiarato che non permetterà a osservatori stranieri di supervisionare il voto. Questo renderà ancora meno credibile il risultato che uscirà dalle urne. Al di là del contesto domestico, le elezioni del 6 ottobre, per le quali si prevede ancora una volta una scarsa partecipazione popolare, rappresentano un passaggio importante nel più ampio quadro regionale: la conferma o meno di un “ritorno” al modello autoritario, che negli ultimi anni sta acquisendo sempre più spazio e conferme, a svantaggio della transizione democratica che, invece, pare non trovare più terreno fertile nell’intera area nordafricana e mediorientale. Nel frattempo, l’Unione europea e l’Italia restano ad osservare gli eventi, interessate in particolar modo ai flussi migratori e a evitare un’ulteriore crisi, trascurando di fatto le modalità con cui, in Tunisia, la stabilità viene oggi mantenuta.
Mario Savina