Siria: vecchi problemi, nuove sfide

Tensioni con le minoranze, processo di transizione ad handicap, interferenze e pressioni enormi da parte di diversi attori esterni. Provando a fornire una fotografia tanto plastica quanto efficace di cosa sia la Siria post-assadiana, si potrebbero in un certo senso ridurre le dinamiche a questi tre importanti ma semplicistici elementi, che spiegano molte delle difficoltà e delle sfide a cui il Paese levantino sta andando incontro.

Non a caso, a tre mesi dal rovesciamento del regime di Bashar al-Assad, con una guerra civile mai terminata e una crisi economica e umanitaria tra le più gravose degli ultimi 15 anni, la Siria si trova dinanzi a un bivio pericoloso. Il governo guidato dall’autoproclamato presidente ad interim Ahmed al-Sharaa (meglio conosciuto come Abu Muhammad al-Julani) – leader di una milizia dal passato oscuro come Hayat Tahrir al-Sham (HTS) che non ha mai del tutto reciso i legami con il mondo dell’estremismo radicale violento di al-Qaeda e dello Stato islamico (Islamic State, IS) – si trova a dover scegliere tra l’intraprendere senza titubanze un chiaro percorso verso la democrazia o virare su una possibile inversione autoritaria.

Due scenari egualmente plausibili e dipendenti da più fattori, interni ed esterni, che continuano a minare i flebili tentativi della nuova leadership di guidare il Paese verso un processo ordinato, ma non necessariamente inteso come pienamente democratico. L’apertura dei lavori della Conferenza per il dialogo nazionale (25 febbraio), che ha visto riunirsi a Damasco 600 delegati delle varie comunità ed esponenti della società, è parsa più che altro un tentativo da parte di al-Sharaa di imporre la sua prospettiva e non un momento di reale confronto sulla strada da intraprendere per disegnare il futuro della Siria. La transizione si presenta al momento come un processo inevitabilmente articolato ed estremamente denso di interrogativi: tra questi, emergono con particolare forza quelli relativi alla stesura di una nuova Costituzione e alla creazione di un sistema giudiziario indipendente, che sia modellato sulla peculiare condizione del Paese e tenga conto delle sue trasformazioni, ma accanto a tali priorità sono da tenere in debita considerazione ulteriori urgenze, dalle riforme per l’ammodernamento delle istituzioni statali, alle garanzie delle libertà personali e in favore della società civile, alla trasformazione di un’economia stagnante e dedita ad attività illegali, fino alla definizione del ruolo dei gruppi combattenti non statali che devono essere disarmati affinché lo Stato possa rivendicare un legittimo monopolio della forza.  

Ahmed al-Sharaa in occasione della Conferenza sulla vittoria della rivoluzione siriana, l’8 dicembre 2024, presso il Palazzo presidenziale di Damasco. Fonte: Wikimedia commons

Tanti problemi, vecchi e nuovi, che non potranno essere risolti né in maniera cosmetica, né tantomeno in poche settimane di tentata conciliazione nazionale. Proprio quest’ultimo concetto è fondamentale per comprendere il contesto nel suo insieme e non perdere di vista altri elementi problematici, che in parte si legano anche alle interferenze portate dagli attori esterni, ancora molto presenti nel fragile e frammentato panorama siriano. In un contesto del genere – ancora animato dalla guerra civile e nel quale pacificazione e riconciliazione sembrano temi distanti dalla realtà – esistono infatti due variabili molto importanti che dovranno essere affrontate chiaramente: da un lato il ruolo di alawiti e baathisti, spina dorsale del vecchio regime di Assad, ancora numerosi e ben radicati lungo la fascia costiera; dall’altro il peso delle minoranze etnico-religiose nelle dinamiche nazionali.

Queste variabili hanno un valore politico – ma anche simbolico – enorme, e non potranno essere tenute per troppo tempo in una sorta di limbo, pena il rischio di una nuova esplosione delle violenze che potrebbero divenire incontrollate nel caso in cui l’esecutivo decidesse di affrontarle privilegiando la forza e il “muro contro muro”, come è accaduto in queste settimane. Una chiara testimonianza di questo scenario è quanto successo nelle aree tra Latakia e Tartus (7-9 marzo), dove si sono registrati violenti scontri tra forze governative, milizie loro alleate e gruppi armati alawiti resistenti al nuovo governo. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani (Syrian Observatory for Human Rights, SOHR), negli scontri andati in scena sarebbero state uccise circa un migliaio di persone, tra cui diverse centinaia di civili. L’accaduto è ben lungi dal potersi dichiarare terminato, ma fotografa bene quanto la situazione sia delicata e di non facile risoluzione, a causa delle resistenze interne di una parte di popolazione legata etnicamente, culturalmente o per pura opportunità affaristica al vecchio regime e alla famiglia Assad-Makhlouf, ossia l’architrave politica, sociale ed economica su cui si è innestata e modellata per 42 anni la struttura di Stato personalista e baathista siriana. Benché al-Sharaa parli di un Paese indivisibile e unito, è evidente che i fatti degli ultimi giorni dimostrino il contrario. Obiettivo della nuova leadership damascena è dimostrare che il governo si richiama a un islam tollerante, inclusivo e non violento, che non ha più nulla a che spartire con le radici qaediste ed è in grado di promuovere una transizione nazionale democratica. Tali eventi, invece, mettono ampiamente in discussione questo assunto, interrogando le reali capacità dell’autorità islamista al potere di promuovere un processo inclusivo. Un problema non di poco conto, specie considerando l’investitura ricevuta dalle capitali occidentali e arabe, le quali hanno posto nella rispetto dei diritti delle minoranze una linea rossa invalicabile nel sostegno ad al-Sharaa e all’esecutivo, nonché per riconsiderare a livello internazionale tutti i discorsi legati alle sanzioni pendenti nei confronti di HTS e del Paese.

Il presidente siriano ad interim Ahmed al-Sharaa accoglie la commissaria europea per la Parità, la Preparazione e la gestione delle Crisi Hadja Lahbib, nel gennaio del 2025. Fonte: Wikimedia commons

Ecco perché l’esistenza di una forte minoranza arabo-siriana che teme ricadute pesanti dal percorso immaginato dal nuovo esecutivo islamista potrebbe aprire una eguale dinamica da resa dei conti anche nei confronti dei curdi-siriani. Come molti osservatori hanno fatto notare, durante i lavori della Conferenza per il dialogo nazionale gli unici assenti di rilievo erano proprio i curdi, i quali avevano spiegato la loro mancata partecipazione come una chiara manifestazione della volontà del governo ad interim di escluderli dai tavoli di Damasco. In altre parole, la componente curda ha accusato al-Sharaa e il suo esecutivo di promuovere un processo politico solo all’apparenza inclusivo, ma in realtà interessato a guidare un peculiare percorso di transizione nel quale le minoranze – come curdi, alawiti e drusi – sono assenti o cooptate nel sistema di potere siriano. In particolare, i curdi riuniti nel cappello delle Forze democratiche siriane (Syrian Democratic Forces, SDF) e delle Unità di protezione popolare (Yekîneyên Parastina Gel, YPG) – queste ultime considerate dalla Turchia come un’estensione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Partîya Karkerén Kurdîstan,‎ PKK) e quindi classificate come un’organizzazione terroristica nel Paese – vengono percepite a Damasco come degli attori divisivi nel contesto di “riconciliazione” nazionale. Non è un caso che proprio il governo ad interim, con il decisivo supporto di Ankara, sia impegnato fin dall’ascesa al potere in un tentativo di contenimento delle aspirazioni di SDF e YPG. Queste forze controllano gran parte della Siria nord-orientale, mentre HTS e i suoi gruppi affiliati controllano il rimanente territorio, circa il 60% del totale. Sino ad oggi, SDF ha rifiutato di integrare le proprie forze nel nuovo esercito siriano, motivo per cui il gruppo sarebbe stato escluso, tra le altre cose, dalla Conferenza di dialogo nazionale e avrebbe sperimentato un ulteriore irrigidimento dell’esecutivo nei suoi confronti.

Il controllo sul terreno della Siria al 10 marzo 2025. In bianco, le aree controllate dal governo di transizione; in verde chiaro le zone in cui insiste l’Esercito nazionale siriano (SNA) filo-turco; in ocra il territorio occupato dalle Forze democratiche siriane (SDF); in verde acqua e in fucsia, le aree in cui sono collocate altre forze che si ribellavano al regime di Assad; in viola le Alture del Golan occupate dalle Forze di difesa israeliane (IDF). Fonte: Wikimedia commons

Tuttavia, sulla scia di quanto avvenuto presumibilmente qualche ora prima nelle rappresaglie a Latakia e Tartus, e nel timore che una tale dinamica si potesse attivare anche nei confronti dei curdi, le parti hanno firmato a sorpresa un accordo dal grande valore strategico per la Siria, se non addirittura di più per la Turchia. Infatti, il 10 marzo, il presidente al-Sharaa ha stipulato un’intesa con le milizie curde che porterà a un cessate il fuoco, all’integrazione delle SDF all’interno dell’esercito regolare di Damasco e al ripristino del controllo del governo centrale sui confini con Iraq e Turchia. Una mossa che si era resa in un certo qual modo necessaria dopo gli ultimi sviluppi che avevano coinvolto il PKK in Turchia. Il 27 febbraio, nello stupore generale, Abdullah Öcalan, fondatore e leader morale del Partito dei lavoratori del Kurdistan, in carcere a İmralı dal 1999, aveva infatti dichiarato la fine della lotta armata nei confronti di Ankara, dopo oltre 40 anni di conflitto. Benché SDF e YPG avessero subito derubricato tale evento a una questione interna alle dinamiche politiche turche, è innegabile che un annuncio simile abbia avuto degli impatti di non poco conto anche sulle ambizioni e sugli interessi delle formazioni curde (non solo quelle scissioniste) fortemente penetrate da esuli turchi del PKK tanto in Siria quanto in Iraq. Di fatto, SDF e YPG avrebbero potuto conservare un certo margine di manovra nelle aree nord-orientali dello Stato levantino sotto il loro controllo, ma solo nella misura in cui fossero scese ad una qualche formula di compromesso con il governo transitorio di HTS. In caso contrario, le formazioni curdo-siriane sarebbero andate incontro a un generale indebolimento e isolamento, aggravato dal contesto regionale in costante trasformazione, che, nel suo complesso, giocava in favore di Ankara. Invece, con questo accordo firmato tra governo di Damasco e SDF, si punta a ridefinire gli equilibri interni alla Siria, al mondo curdo e nei rapporti tra lo Stato levantino e l’autorità turca, fortemente esposta in prima linea in questo tentativo di transizione. Inoltre, l’intesa potrebbe aver contribuito a ridurre le tensioni dentro e fuori il Paese, per quanto i tempi non siano ancora maturi per capire se essa riuscirà a garantire la stabilità siriana (e turca).

Combattenti YPG nel quadro delle Forze democratiche siriane (SDF). Fonte: Kurdishstruggle, Flickr.com

Un tale sviluppo, però, non implica necessariamente una risoluzione definitiva delle controversie tra curdi, governo siriano ad interim e Turchia. Qualora il patto dovesse mutare per un qualsiasi motivo, è plausibile immaginare una ripresa delle pressione politiche e militari turche attraverso le milizie attive sul terreno siriano. Non a caso, sin dalla destituzione di Assad nel dicembre 2024, l’Esercito nazionale siriano (Syrian National Army, SNA), milizia alleata di HTS e fortemente filo-turca, ha guidato azioni militari sia contro le truppe lealiste di Assad, sia contro SDF lungo la direttrice Aleppo-Manbij, riuscendo a conquistare parti strategiche del cosiddetto Rojava. Sebbene il contesto sembri suggerire oggi un processo di de-escalation delle tensioni nell’area, gli obiettivi di SNA – e indirettamente della Turchia, che lo sostiene – non muterebbero nel complesso. Infatti, è nell’interesse turco creare un corridoio terrestre tra Afrin e al-Bab lungo il confine turco-siriano, che porti anche alla conquista di Kobane e permetta la creazione di un cuscinetto continuo e ininterrotto di oltre 900 chilometri. Ankara punterebbe così a stabilire una zona sicura lungo il confine condiviso con la Siria per proteggere la penisola anatolica dalle incursioni curde o, più in generale, dalla presenza curda oltre la sua frontiera. Il presidente Recep Tayyip Erdoğan e il ministro degli Esteri Hakan Fidan vedono con favore tali sviluppi sia in un’ottica di breve periodo, sia in una prospettiva più lunga: da un lato, Ankara punta a favorire il ritorno in Siria di oltre 3,6 milioni di rifugiati attualmente in Turchia, mentre nel medio-lungo termine lo Stato anatolico intende garantirsi un ruolo centrale nella ricostruzione economica e politica della Siria. Le forze curde sono consapevoli della loro posizione delicata: minoranza influente, ma vulnerabile. Pertanto, SDF e YPG dovranno mantenere aperti i canali di dialogo con Damasco per evitare un pericoloso isolamento, che rischierebbe di essere oggi più che mai controproducente alla luce del contesto regionale smaccatamente favorevole alla Turchia e alle forze governative in Siria.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. Ankara è tra gli attori regionali più attivi nell’attuale contesto siriano. Fonte: Wikimedia commons

All’interno di una cornice così fragile, Ankara sarebbe sicuramente il principale beneficiario di una riorganizzazione territoriale della Siria, ma deve altresì prestare attenzione ai movimenti di partner e/o possibili competitor, intenzionati a trarre vantaggio dalla transizione e/o a ricercare quelle opportunità di ridefinizione dei rapporti di forza nella regione mediterraneo-mediorientale. In questo scenario, particolare attenzione va rivolta a Russia e Iran, entrambi preoccupati per il crescente peso geopolitico della Turchia, ma impegnati ad affrontare questa fase di crisi con priorità diverse. La Russia sta capitalizzando i recenti sviluppi diplomatici legati agli sforzi statunitensi per risolvere il conflitto in Ucraina, ma deve stare attenta a non perdere il controllo definitivo (dopo oltre quarant’anni) delle basi a Tartus, Hmeimim e Qamishli. Una condizione che potrebbe portare il Cremlino anche a rivedere parzialmente i suoi posizionamenti nell’area e a puntare con più decisione sull’Africa e, in particolare, sulla Libia in funzione dichiaratamente anti-NATO. L’Iran, invece, si trova in una situazione di instabilità interna, aggravata dalle sanzioni internazionali e dall’indebolimento del cosiddetto “Asse della resistenza” filo-iraniano. Come Mosca, anche Teheran guarda all’Africa, soprattutto al Sudan, per estendere influenze in chiave anti-occidentale e aumentare la pressione nei confronti dei Paesi del Golfo in un quadrante esteso e fragile, che va dal Mar Rosso all’Oceano Indiano occidentale: l’obiettivo è dunque quello di condizionare direttamente la stabilità degli attori di area, incidendo ad esempio sulle dinamiche economico-energetico-commerciali globali circolanti tra Stretto di Hormuz, Bab al-Mandeb e Canale di Suez.

Sebbene esista una cooperazione tattica tra Turchia, Russia e Iran, i tre attori restano concorrenti tra loro in Siria e in altre aree strategiche come il Mediterraneo, il Levante, il Caucaso e l’Asia Centrale. Prima del cambio di regime in Siria, Ankara, Mosca e Teheran collaboravano attraverso tregue e accordi sul campo per evitare squilibri a favore di uno dei protagonisti. Tuttavia, la destituzione di Assad ha aperto nuove opportunità per la Turchia, che ora ha la possibilità di rafforzare la propria postura anche nei confronti degli alleati occidentali, come la NATO e gli Stati Uniti. Le relazioni tra Ankara e Washington restano tese, principalmente a causa del sostegno statunitense a YPG e SDF, considerate alleati chiave nella lotta contro l’IS. Tuttavia, questa dinamica potrebbe cambiare se la nuova amministrazione guidata da Donald Trump decidesse di ritirare i circa 2.000 soldati statunitensi presenti nel nord-est della Siria, nel governatorato di al-Hasaka. In questo scenario, nessun attore regionale resterebbe a guardare, e ognuno punterebbe a riempire lo spazio potenzialmente lasciato libero da Washington nel Paese. Le monarchie arabe del Golfo, ad esempio, vedono nella Siria un’opportunità per investire nella ricostruzione e rafforzare una leadership arabo-sunnita in chiave anti-iraniana. Israele, invece, punta a consolidare il controllo sulle Alture del Golan e nella Siria meridionale – sono in corso da settimane operazioni nell’area di Suwayda, nel tentativo di cooptare la minoranza drusa in chiave anti-governativa siriana. Tel Aviv mira a espandere la propria zona di sicurezza lungo il confine settentrionale, coinvolgendo anche il Libano, convinta che la nuova leadership di Damasco sia potenzialmente più pericolosa rispetto agli Assad per i suoi interessi di sicurezza nazionale.

È chiaro che questi fattori potrebbero alimentare nuove tensioni e aprire ulteriori spazi di competizione, non solo in Siria, ma anche in altri scenari strategici prossimi (Caucaso, Iraq, Levante e Africa mediterranea). In fin dei conti, una Siria frazionata e divisa lungo più linee di faglia è un contesto ideale per tutti gli attori vicini interessati a mantenerla debole ed estendere la propria influenza, perpetuando quello schema di anomia mediorientale nel quale Damasco dovrebbe rappresentare un pericoloso campanello d’allarme del perpetuarsi dell’instabilità regionale. Pertanto, occorre non sottovalutare il ruolo che potrebbero attualmente avere in Siria le minoranze, le cui ambizioni rischiano tuttavia di essere strumentalizzate dalle interferenze esterne e di contribuire al preoccupante schema di disordine regionale.

Giuseppe Dentice