Dalla caduta di Moammar Gheddafi, la crisi in Libia è stata al centro del palcoscenico internazionale e la divisione tra le fazioni domestiche non ha permesso di traguardare l’obiettivo di una stabilizzazione definitiva. Al contempo, l’influenza degli attori stranieri è stata determinante per gli sviluppi politici e militari. Per ovvi motivi, la maggiore attenzione è stata dedicata a quei paesi che hanno avuto un ruolo di primo piano nel supporto, militare ed economico, alle due fazioni: per citarne alcuni, si pensi a Turchia e Qatar, dietro gli esecutivi di Tripoli, o ad Egitto, Russia ed Emirati Arabi Uniti, a sostegno di Khalifa Haftar. Ad altri attori, viceversa, è stata prestata meno attenzione, nonostante vi fossero evidenti segnali di un forte interesse sia sul dossier libico che sull’intera regione. In tale quadro, la presenza della Cina nel paese maghrebino è stata spesso trascurata. Evidentemente, rispetto ad altri, Pechino ha avuto un ruolo più marginale e, contemporaneamente, il mancato supporto militare esplicito ha reso il Dragone rosso un partner degno di dialogo, sia in Tripolitania che in Cirenaica. In tal senso, la Cina sta investendo costantemente al fine di integrare la Libia nelle più sue ampie ambizioni globali, al di là di quale sarà l’assetto istituzionale libico futuro.
La posizione di attesa e neutralità di Pechino è da far risalire alla risoluzione 1973, adottata l’11 marzo del 2011, con cui si diede avvio all’operazione a guida Nato contro le forze lealiste del regime di Gheddafi; in quel caso, infatti, la Cina si astenne al momento del voto. La postura assunta rifletteva la “neutralità calcolata” in Libia e in generale nella regione. La allora decisione di astenersi su un voto così determinante per il futuro dell’ex colonia italiana – che ha messo Pechino in una posizione su cui costruire i rapporti con i nuovi governanti libici – può essere giustificata da alcuni elementi. Anzitutto, la Cina aveva il chiaro obiettivo di tutelare i propri interessi attivi in terra libica: il costante dialogo con il regime di Gheddafi e l’avvio dei colloqui con le fazioni rivali già durante i mesi del conflitto civile erano un segnale forte delle intenzioni cinesi. In aggiunta, in una fase di forte crescita come attore globale, usare il veto alla risoluzione onusiana avrebbe messo in cattiva luce Pechino agli occhi della comunità internazionale, quest’ultima preoccupata per la crisi umanitaria conseguente al conflitto. Inoltre, avallare il principio della responsibility to protect avrebbe complicato i progetti futuri (un eventuale intervento militare) della Cina nei confronti di Taiwan. Infine, la reputazione: l’operazione della Nato ha creato non pochi problemi in termini di credibilità agli occhi del mondo arabo, e non solo; l’astensione ha consentito alla Cina di non essere coinvolta direttamente in tale dinamica. Tuttavia, la decisione ha portato anche qualche critica, in particolar modo sul fronte interno, dove la decisione di astenersi e il mancata utilizzo del veto – che ha quindi permesso l’operazione militare – non si sposava completamente con la politica di non intervento adottata sino a quel momento.

Fonte: Green Finance & Development Center
Da allora il coinvolgimento in Libia si è concentrato sulla penetrazione economica – la sua linea di influenza più solida – e sulla diplomazia dietro le quinte. Alla base di queste attività, fino ad oggi, ci sono state le ambizioni mercantiliste e la diffidenza nei confronti di un coinvolgimento militare. Eppure, nonostante la stretta aderenza ai principi di impegno cauto e limitato, la Cina ha mostrato un’acuta consapevolezza delle realtà locali, riconfigurando il suo approccio per adattarsi alle mutevoli condizioni e massimizzando i suoi guadagni per tenere conto dell’esito incerto del conflitto. Nonostante le recenti notizie di droni cinesi diretti in Cirenaica, al contrario di tanti attori interessati a questioni di sicurezza e militari, la Cina ha basato, almeno fino ad oggi, i suoi interessi nel paese maghrebino su fattori puramente economici e strategici. Senza dubbio, il conflitto libico ha reso difficile il raggiungimento di determinati obiettivi, rallentando il processo di coinvolgimento nell’ampia rete cinese, anche al fine di inglobare la Libia nella Belt and Road Initiative (Bri). Al momento della rivolta nel 2011, in Libia operavano decine di imprese cinesi, il valore dei contratti era salito a circa 20 miliardi di dollari e decine di migliaia di lavoratori cinesi erano impegnati in diversi progetti infrastrutturali. La cooperazione energetica – per lungo tempo al centro delle relazioni bilaterali – era fiorente, con la Libia che forniva circa il 3% delle forniture petrolifere alla Cina, rappresentando un decimo delle esportazioni di greggio di Tripoli. Le principali compagnie petrolifere statali cinesi (Cnpc, Sinopec Group e Cnooc) erano coinvolte in diversi progetti. Tuttavia, la posizione equilibrata cinese ha permesso di affrontare la crisi libica tutelando i propri interessi, nonostante le ovvie perdite. Per Pechino, infatti, la Libia è sempre rimasta un attore di importanza strategica e le relazioni sono state impostate per la tutela e lo sviluppo di interessi che fossero funzionali a soddisfare sia Pechino che Tripoli e Bengasi.

L’attenzione dedicata al paese maghrebino rientra nel più ampio progetto che ha portato il Dragone rosso a diventare un attore globale impegnato nello sviluppo e nella stabilità internazionale. Al contempo, il ritorno ad un ruolo attivo – attraverso nuovi investimenti e il coinvolgimento nella ricostruzione del paese – è in linea con la sua crescente influenza nella regione nordafricana; quest’ultima sta diventando motivo di forte preoccupazione per i paesi occidentali, in particolar modo quelli europei, che vedono nella Cina un’antagonista, sia a livello economico che strategico. Evidentemente, la posizione geografica, un ponte tra Africa ed Europa, e la sua ricchezza in termini di risorse energetiche rendono l’ex colonia italiana un partner importante ai fini dell’espansione cinese nel Mediterraneo e nel continente africano. D’altra parte, anche la Libia trae vantaggio da questa relazione. Nell’attuale fase di transizione, il paese maghrebino ha necessità di accogliere flussi economici provenienti dall’estero; al contempo, la Cina offre un’alternativa – economica e politica – ai paesi europei e agli Stati Uniti.

Fonte: ChinaMed
La volontà reciproca di rafforzare le relazioni è stata sugellata con la firma di una partnership strategica tra i due paesi, nel settembre 2024, in occasione del Forum di cooperazione Cina-Africa (Focac) 2024. Qualche anno prima, nel 2018, sempre durante il Focac, era stato firmato un protocollo d’intesa, che apriva la strada all’adesione della Libia alla Bri e al ritorno delle imprese cinesi nell’ex colonia italiana. Sebbene in più occasioni da Tripoli siano arrivate ampie aperture agli investimenti cinesi, anche in Cirenaica la porta è sempre stata aperta. La Cnpc (China National Petroleum Corporation) e le sue controllate, ad esempio, in più occasioni, si sono dichiarate pronte a impegnarsi in quest’ultima regione, che comprende gran parte delle infrastrutture petrolifere. Una delegazione della Noc (National Oil Corporation) libica ha visitato la Cina nel 2019 per discutere di commercio petrolifero e della possibile collaborazione con Cnpc per l’esplorazione e lo sviluppo dei giacimenti petroliferi e dei servizi libici. Ancora più recentemente non sono mancati incontri e colloqui tra le due parti. Ad aprile 2024, una sussidiaria della Noc, Agoco (Arabian Gulf Oil Company), con sede a Bengasi, ha firmato un accordo con la cinese PetroChina per vendere il 40% delle risorse estratte dai bacini di Al Nafura e Al Sarir, in cambio di investimenti in infrastrutture e armi. Il 31 maggio 2024, a Pechino, è stato inaugurato il primo Forum economico Cina-Libia, alla presenza del primo ministro del Governo di unità nazionale (Gun) di Tripoli, Abdulhamid Dbeibah, che, durante il suo intervento, ha voluto sottolineare l’importanza degli investimenti cinesi e della cooperazione tra i due paesi, evidenziando come il numero dei lavoratori cinesi nel paese maghrebino fosse arrivato a circa 23mila, dopo il declino avvenuto negli anni più bui del conflitto civile. I settori più interessati sono l’energetico e l’infrastrutturale. A mo’ di esempio si possono citare alcuni casi: il lavoro per il megaprogetto della Terza Circonvallazione di Tripoli (Ttrr), in cui è importante il contributo fornito della cinese OVM; la stessa OVM è coinvolta in lavori a Bengasi e Derna, nella regione orientale; ancora, nel novembre del 2023, la China Harbour Engineering Company ha siglato un accordo con le autorità della Misrata Free Zone per aumentare gli investimenti nell’area; sempre nel 2023, sono avanzati i colloqui con la società cinese PowerChina per la realizzazione di un progetto di energia solare da 1500 megawatt nella Libia orientale; ad agosto 2024, i rappresentanti di alcune aziende cinesi e quelli del comune di Zawiya hanno affrontato la possibilità della costruzione di un nuovo porto nell’area interessata. A fine 2024, le autorità della Sirte Free Zone hanno siglato una partnership con la compagnia cinese Huawei per lo sviluppo di uno Smart Port; la stessa Huawei sta guidando altri progetti di connettività, tra cui un cavo sottomarino che collegherà Derna alla Grecia, potenziando significativamente l’infrastruttura digitale del paese maghrebino.
Anche i dati che arrivano dal settore del commercio vanno nella stessa direzione. Nel 2024, il volume degli scambi tra Cina e Libia ha raggiunto i 4,75 miliardi di dollari, con le esportazioni cinesi che ammontavano a 3,59 miliardi e le importazioni a 1,16 miliardi. La Cina esporta principalmente prodotti meccanici ed elettrici, tessili e mobili, e importa quasi solamente petrolio greggio. Da quest’ultimo dato risulta chiaro come sia importante sul piano strategico garantire la propria sicurezza energetica, vista la dipendenza dai mercati stranieri, in particolar modo quelli della regione Mena, attraverso il consolidamento di una partnership come quella con la Libia.

In definitiva, nel corso degli anni, la Cina è riuscita a evitare di rimanere coinvolta nel conflitto e, invece, si è preparata a trarre benefici nel prossimo futuro, indipendentemente dall’esito della disputa domestica libica. Una strategia che, come detto, è stata incentrata anche sulla sua reputazione: in tutta la regione Mena, Pechino ha lavorato per contrastare le narrazioni occidentali che la etichettano come attore destabilizzante e una minaccia all’ordine globale. In tal senso, la Cina ha consolidato la sua narrativa tentando l’integrazione del maggior numero di Stati nelle nuove strutture di governance: per esempio, la Global Civilization Initiative e la Global Security Initiative. Anche nel più ampio quadro dei Brics sono arrivate dichiarazioni dalla Libia di un interesse ad aderire al gruppo e di rafforzare la cooperazione con i paesi membri. Al contempo, l’influenza cinese in Libia e nella regione, come detto, rappresenta una sfida strategica significativa ai ruoli di Ue e USA. Gli Stati Uniti hanno tentato di aumentare il loro peso nell’ex Jamahiriya sia a livello politico che militare attraverso missioni e rappresentanze, soprattutto alla luce della difficoltà del processo politico e della sempre maggiore presenza militare russa. A Washington si sono resi conto che la loro assenza ha lasciato spazio ad alcune potenze internazionali, come Cina e Russia appunto. Detto questo, con il ritorno di Donald Trump alcune certezze si sono sgretolate; il dossier libico potrebbe essere considerato importante, anche in considerazione dell’eventuale conflitto economico con l’Unione europea. Quest’ultima considera la Libia come partner fondamentale nel Mediterraneo, sia a livello energetico che securitario, e un’ulteriore modifica dell’assetto delle influenze straniere nel paese potrebbe avere conseguenze negative per gli interessi europei. Allo stato attuale delle cose, la Cina sembra avere tutto da guadagnare: paesi come la Libia – che oggi hanno ancora legami molto forti con l’Europa – potrebbero decidere nel prossimo futuro di allontanarsi dall’Occidente e accettare il regionalismo e policentrismo suggerito da attori come Pechino e Mosca. In assenza di quello che sembra un necessario cambio di rotta, politico e strategico, l’Ue e l’Occidente potrebbero, quindi, perdere terreno in contesti come quello libico a favore del pragmatismo della Cina e/o di una cooperazione regionale (per esempio con Turchia e paesi del Golfo) che potrebbe essere considerata più incline alle proprie aspettative.
Mario Savina