A quasi dieci anni dalle Primavere arabe, lo slancio rivoluzionario in Egitto sembra prendere nuova vita. Il dissenso nei confronti del governo è prevalente in tutto il paese, e si manifesta con l’esplosione di proteste popolari e mobilitazioni di massa, nonostante le misure repressive adottate dal regime autocratico guidato dal generale Abdel Fattah al-Sisi. Le proteste hanno visto una forte reazione da parte del governo, con migliaia di incarcerazioni – come se il regime volesse dimostrare una forza che in realtà sembra venire sempre meno dal punto di vista della legittimazione popolare. L’instabilità interna, l’aumento delle disuguaglianze sociali e l’emergenza sanitaria causata dalla pandemia di Covid-19 stanno ricreando quelle condizioni di malcontento che già abbiamo avuto modo di osservare in occasione delle Primavere arabe e che hanno portato nel 2011 alla caduta del regime di Hosni Mubarak.
La rivolta del 2011 aveva messo un punto al lungo capitolo di autoritarismo incentrato sulla figura di Mubarak, e aveva dato il via a una transizione democratica estremamente fragile e dominata da forze islamiste, rappresentate in particolare da Mohamed Morsi, eletto presidente nel giugno 2012. Questa controversa parentesi si è chiusa bruscamente nell’estate 2013, cedendo il passo a una nuova fase autoritaria dominata da al-Sisi e dalle forze militari e di sicurezza. Paradossalmente, la rivoluzione che aveva come obiettivo principale la diffusione della democrazia ha portato ad un sistema autoritario di stampo militare.
La gestione attuale del potere in Egitto può ricordare per molti versi il regime di Gamal Abdel Nasser negli anni Cinquanta e Sessanta. Rivolgendosi soprattutto agli osservatori esteri, nel corso degli anni al-Sisi ha tentato in più occasioni di far apparire il suo governo più democratico di quanto possa sembrare, ma molte sue iniziative sono state smentite dal ruolo svolto dai militari in tutti i settori. Mentre l’obiettivo iniziale della repressione governativa erano la Fratellanza musulmana e il resto delle forze islamiste del paese, con il passare del tempo il raggio d’azione ha iniziato a comprendere l’opposizione di qualsiasi tipo, anche quella non islamista, compresi alcuni attori politici che nel 2013 erano al fianco del colpo di Stato che ha portato al potere l’attuale presidente. Quest’ansia di voler eliminare tutti i “nemici” interni è stata più volte definita come una debolezza del regime e come una testimonianza della sua instabilità. Il governo di al-Sisi sembra impegnarsi a reprimere qualsiasi minaccia prima ancora che questa si materializzi concretamente; lo dimostra anche l’intolleranza verso qualsiasi forma di protesta o mobilitazione popolare.
Nelle scorse settimane molti sono stati i casi di manifestazioni spontanee di collera contro un governo definito militarista e corrotto, e soprattutto considerato responsabile delle attuali condizioni di vita estremamente gravi per la maggior parte degli egiziani. Il motivo scatenante delle recenti proteste è da ricollegarsi alle misure governative volte a contrastare l’abusivismo edilizio: su tutte un’ordinanza dello scorso gennaio che permetterebbe allo Stato di costruire anche in aree ufficialmente non edificabili, demolendo, contemporaneamente, tutti quegli edifici abusivi, tra cui numerose abitazioni appartenenti ai più poveri. Altri fattori che hanno alimentato il clima di mobilitazione sono l’aumento dei prezzi di beni e servizi, il controllo dei media come megafono della politica di al-Sisi e l’incapacità dello stato di gestire i dossier regionali.
Come in molte altre parti del mondo, la pandemia di Covid-19 ha portato alla luce i problemi strutturali dell’economia egiziana. Negli ultimi anni, il ruolo dello Stato nell’economia è stato rafforzato in maniera evidente, rilegando il settore privato nella posizione subordinata di esecutore della volontà del potere. In una situazione caratterizzata da una lenta ripresa economica, l’emergenza sanitaria sembra trascinare nuovamente l’Egitto in una profonda crisi. Il calo dell’attività economica è ancora più evidente in un paese che ha adottato misure di risanamento del bilancio e ha aumentato la spesa pubblica per i principali progetti infrastrutturali che sono in corso d’opera. Tra i problemi socio-economici bisogna tenere in considerazione il continuo aumento della disoccupazione, la crescita demografica e il problema idrico. Queste ultime due questioni sono al centro del dibattito degli ultimi mesi.
La popolazione egiziana ha sorpassato i 101 milioni, con un aumento di oltre 7 milioni rispetto all’ultimo censimento del 2017, iniziando a diventare una sfida decisamente pressante per un paese con risorse limitate come l’Egitto. Durante una cerimonia delle forze armate, lo scorso 11 ottobre, al-Sisi ha invitato i media e le università a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della crescita demografica. Per contribuire a frenare l’impennata del tasso di natalità, il governo ha lanciato alla fine di settembre anche una campagna di pianificazione familiare denominata “Two Is Enough”, che mira a superare tradizioni culturali radicate in quelle regioni del paese in cui i figli vengono visti come manodopera o come polizza assicurativa per gli anziani. Giornali e televisioni hanno dato ampio spazio al problema della sovrappopolazione, con particolare attenzione allo squilibrio dell’aumento demografico e alla limitata disponibilità di servizi e risorse.
Attenzione merita anche la questione idrica, e soprattutto il suo aspetto geopolitico: il progetto etiope di costruire una diga sul Nilo è un elemento di tensione regionale che vede il governo del Cairo impegnato in un complicato scontro con l’Etiopia e il Sudan. La Grand Ethiopian Renaissance Dam, anche conosciuta come Gerd, è infatti motivo di tensione ormai da anni tra i tre stati confinanti, dal momento che non si riesce a trovare un accordo sul compeltamento e sul funzionamento del progetto idroelettrico. La controversia riguarda soprattutto il Cairo e Addis Abeba: il governo etiope ha avviato nel 2011 la realizzazione della diga, destinata a diventare la più grande del continente. La posizione egiziana è quella di assicurarsi che la diga non causi danni significativi ai paesi situati a valle e che il suo riempimento avvenga in maniera graduale, così da non far scendere drasticamente il livello del fiume. Nelle ultime settimane le delegazioni dei tre paesi hanno ripreso i colloqui per tentare di raggiungere un accordo che soddisfi tutti.
L’Egitto è inoltre una delle parti più coinvolte nella risoluzione del conflitto libico. La politica egiziana nei confronti dell’ex colonia italiana è guidata da molteplici interessi, che vanno dalle pressanti preoccupazioni di sicurezza a considerazioni di tipo economico, coinvolgendo anche obiettivi di carattere ideologico come la lotta contro i Fratelli musulmani e l’islam politico. L’azione del regime al-Sisi è stata sostenuta anche dai paesi del Golfo – Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita su tutti – che sperano di porre fine alla presenza della Fratellanza musulmana nel Nord Africa e sono attratti non solo dalle risorse energetiche libiche, ma anche dalle scoperte di gas naturale nell’aerea orientale del Mediterraneo. Sulla questione libica al-Sisi ha avuto spesso un atteggiamento contraddittorio: da un lato, ha sempre sostenuto – e lo fa ancora oggi – il dialogo politico, offrendo anche il suo paese come sede per negoziati tra le diverse fazioni libiche alla ricerca di una soluzione che sia in grado di porre fine ai disaccordi tra Est e Ovest. Tuttavia, dall’altro lato, il regime del Cairo ha offerto nel corso del tempo un supporto piuttosto evidente al leader dell’Esercito nazionale libico, Khalifa Haftar (che controlla la parte est della Libia) nella sua guerra contro il Governo di accordo nazionale di Tripoli guidato dal Fayez al-Sarraj (e riconosciuto dalle Nazioni unite). Bisogna in ogni caso osservare che, per l’Egitto, una Libia stabile con un governo centrale in grado di proteggere i propri confini e impegnarsi in scambi commerciali proficui con i partner confinanti sembra la soluzione preferibile a lungo termine. Inoltre, l’Egitto spera di avere importanti vantaggi economici dalla futura ricostruzione della Libia.
Anche la vittoria di Joe Biden alle presidenziali Usa rischia di aumentare i problemi di al-Sisi dopo una fase di relazioni relativamente cordiali con il presidente Donald Trump, e far tornare quell’atmosfera gelida che caratterizzava le relazioni bilaterali tra Usa ed Egitto durante la presidenza di Barack Obama. Il predecessore di Trump, infatti, non aveva mai concesso al presidente egiziano l’onore di una visita ufficiale, e la sua amministrazione aveva a lungo considerato il rovesciamento di Morsi nel luglio del 2013 come un colpo di Stato militare contro un governo legittimamente eletto dal popolo, sebbene per molti versi sconveniente. L’amministrazione Obama aveva congelato circa 260 milioni di dollari in aiuti militari per quasi due anni (per poi sbloccarli successivamente), sospendendo anche le esercitazioni militari congiunte con l’Egitto, nel tentativo di far pressione sul Cairo per ripristinare il processo democratico e il rispetto dei diritti fondamentali, che sembravano essere spariti sotto il governo di al-Sisi. Il fantasma di un ritorno a un’atmosfera di tensione appare molto più probabile con Biden alla Casa Bianca. Il maggiore potenziale attrito riguarda i diritti umani. Biden sembra intenzionato ad adottare una visione della politica estera che abbia al centro il rispetto dei diritti umani e la promozione della democrazia, e in più occasioni ha dichiarato che la cooperazione con quei paesi che non rispettano gli standard di democrazia e Stato di diritto potrebbe essere compromessa. Inoltre, resta da vedere l’atteggiamento di Washington nei confronti dell’Iran: il governo del Cairo è decisamente meno preoccupato dei suoi alleati del Golfo circa il programma nucleare iraniano, ma percepisce in ogni caso il regime di Teheran come una minaccia alla stabilità regionale, e teme uno scenario in cui avversari come Turchia e Qatar possano affiancarsi all’Iran.
L’Egitto non è più visto nella regione come il paese-guida che ha sfidato in passato l’Occidente o come un centro culturale con influenza sull’intera regione mediorientale. Ad oggi la posizione del Cairo sembra chiaramente subordinata ai paesi amici del Golfo, e la stessa mancanza di carisma che caratterizza la figura di al-Sisi lo dimostra. L’importanza geopolitica dell’Egitto risiedeva principalmente nelle dimensioni e nella sua posizione strategica nel quadro della regione, fattori che lo rendevano il più grande paese di lingua araba e una sorta di egemone sociopolitico. L’Egitto di oggi appare tuttavia come un’ombra del suo passato nasseriano, con una reputazione ai minimi.
Mario Savina