Da diversi decenni la Cina ha riposto grande attenzione verso il Nord Africa e il Medio Oriente tramite numerose attività diplomatiche ed acquisizioni economiche. Degna di nota è l’attenzione rivolta a Israele, un paese che è riuscito ad imporsi come uno dei principali hub tecnologici ed economici a livello mondiale. Non sorprende, dunque, che la Repubblica Popolare abbia deciso di integrarlo all’interno della One Belt One Road Initiative, una strategia di penetrazione economico-politica che ha l’obiettivo di rafforzare il ruolo della Cina nel continente euroasiatico. Un percorso, questo, che si propone quale “continuazione spirituale” delle politiche di riforma e apertura adottate da Deng Xiaoping a partire dal 1978 e rafforzato ulteriormente al momento dell’entrata di Pechino nel WTO nel 2001.
In tale contesto appare interessante la posizione dello Stato ebraico che in anni recenti ha adottato una politica estera volta a trarre beneficio dalle nuove opportunità emerse con la crescita del continente asiatico, come dimostrato dalla strategia Pivot to Asia promossa informalmente dall’ex Primo Ministro Benjamin Netanyahu. Si può quindi registrare una convergenza di interessi tra questi due paesi, soprattutto in alcuni settori considerati di vitale importanza da entrambi: difesa, cybersicurezza, intelligenza artificiale e sviluppo di software. Per rafforzare questa partnership Pechino ha utilizzato un approccio pragmatico che unisce strumenti di hard e soft power già ampiamente testati con numerosi paesi del continente africano o asiatico. In altre parole, la Cina ha cercato di adottare il paradigma dell’espansione culturale ed economica americana degli anni ’50 e ’60, inquadrandolo però in una pianificazione statalista ed autoritaria.
In primo luogo, la Repubblica Popolare ha investito ingenti somme per diffondere la presenza degli Istituti Confucio, istituzioni gestite direttamente dal Ministero dell’Istruzione per promuovere corsi di lingua e cultura cinese in numerose università estere. Questi istituti sono stati però accusati di condurre simultaneamente anche attività di spionaggio e di censura a favore della propaganda cinese. Sebbene alcuni paesi, tra cui il Belgio, abbiano iniziato a chiudere alcuni Istituti Confucio, Israele non ha mostrato troppe preoccupazioni a riguardo, come testimoniato dal fatto che gli Istituti presenti presso l’Università di Tel Aviv e l’Università Ebraica di Gerusalemme continuano regolarmente le loro attività.
In secondo luogo, Pechino ha cercato di incrementare in maniera considerevole gli scambi internazionali a livello accademico. Nonostante i dati ufficiali siano frammentari, è possibile individuare una tendenza crescente nel numero di studenti cinesi in Israele, passati da 200 nel 2014 a circa 1,000 nel 2016. Un dato, questo, che trova ulteriore conferma nel più ampio trend della mobilità internazionale tra i due paesi. Il numero di turisti cinesi in Israele è infatti quadruplicato negli ultimi anni, passando da 32,400 nel 2014 a 123,900 nel 2017.
In terzo luogo, la Cina ha cercato di penetrare anche nel settore dei media tradizionali, come dimostrato dal caso della China Radio International (CRI) che, sin dal 2009, ha iniziato a mandare in onda trasmissioni in lingua ebraica che hanno ottenuto un buon seguito tra il pubblico locale. La CRI attraverso i suoi programmi ha inoltre veicolato messaggi utili alle finalità della politica estera cinese, in ciò favorita dal fatto che molti media tradizionali israeliani hanno riportato le sue notizie senza opportune verifiche. Le tre tendenze di soft power appena menzionate sono inoltre rafforzate dai principali dati economici. Negli ultimi anni, infatti, i rapporti commerciali tra i due paesi sono cresciuti in maniera sostenuta. Attualmente, la Cina importa da Israele beni e servizi per un valore di circa 6 miliardi di dollari l’anno, mentre ne esporta per una cifra pari a circa 11 miliardi.
Anche gli investimenti diretti esteri (IED) cinesi hanno visto una crescita notevole nel quadriennio 2016-2019, raggiungendo il valore massimo di 4,5 miliardi di dollari l’anno.
Un dato parzialmente in controtendenza rispetto a quelli sopra citati riguarda, invece, il numero di lavoratori cinesi in Israele. Questo trend può essere spiegato grazie ai recenti cambiamenti giuridici avvenuti all’interno del paese. Fino al 2017, infatti, i cittadini cinesi che desideravano lavorare in Israele erano costretti a pagare una tassa molto alta, pari a circa 7 mila dollari. I lavoratori cinesi, arrivando già indebitati a causa di questo sistema normativo, erano costretti ad accettare pessime condizioni di lavoro e scarsissime tutele. Per questo motivo, molti erano spinti ad entrare illegalmente nel paese senza essere registrati formalmente come manodopera straniera. Dopo il 2017, però, questa situazione è cambiata drasticamente. Un accordo bilaterale è stato infatti siglato per regolare l’arrivo di circa 4,000 lavoratori cinesi garantendogli minori costi d’entrata e, al tempo stesso, maggiori diritti. Questa tendenza è confermata dai dati del biennio 2017-2018 sotto riportati.
Ad ogni modo, questa strategia, sviluppatasi sul doppio binario economico e culturale sembra aver permesso a Pechino di raggiungere i risultati sperati. Secondo un sondaggio condotto dal Pew Research Center, il 66% degli israeliani intervistati hanno affermato di avere una visione positiva della Cina. Un dato, questo, che si pone in forte controtendenza rispetto a quelli raccolti nei paesi con le economie più avanzate. Meno di un terzo degli intervistati in Giappone (11%), Svezia (25%), Stati Uniti (26%), Canada (27%), e Francia (33%) ha, infatti, espresso un’opinione favorevole nei confronti di Pechino.
Alla luce dei dati raccolti finora è interessante comprendere quali siano i motivi che hanno spinto la Repubblica Popolare a cercare questa crescente integrazione economico-politica con Israele. A tale riguardo, possono essere individuate alcune aree di cooperazione bilaterale ritenute prioritarie da entrambi i paesi. Nell’ambito della difesa, per esempio, Pechino ha mostrato grande attenzione nei confronti delle capacità militari di Israele, sviluppate a partire dal 1948 a seguito delle guerre arabo-israeliane. Ad oggi, il piccolo paese affacciato sul Mediterraneo è uno dei principali fornitori d’armi della Cina, la quale, a sua volta, ricambia esportando numerosi droni ad uso militare, in particolare quelli prodotti dall’impresa DJI Technology Co. già messa al bando negli Stati Uniti per timori riguardanti la sicurezza nazionale. Nell’ambito tecnologico, inoltre, entrambi i paesi hanno vissuto in anni recenti un vero e proprio boom legato ai settori dell’intelligenza artificiale, delle telecomunicazioni e dello sviluppo di software. Per questo motivo una parte considerevole degli investimenti esteri diretti cinesi sono stati rivolti verso questi settori, come evidenziato nella tabella sottostante. Per Pechino l’interesse principale deriva dalla pratica del technology transfer, ovvero dai trasferimenti di conoscenze e know-how che accompagnano questi investimenti.
Infine, come già brevemente accennato, la Cina è interessata ad Israele in quanto attore strategico nell’area del Medio e Vicino Oriente. Pechino, in anni recenti, ha infatti rafforzato la sua penetrazione economica nel Mar Mediterraneo tramite l’acquisizione delle quote di maggioranza del porto del Pireo in Grecia ad opera dell’impresa statale cinese COSCO Shipping Lines. Una strategia simile è stata attuata in Israele con la costruzione e il controllo di un nuovo terminal presso il porto di Haifa che permetterà a Pechino di espandere la propria presenza nell’area.
In conclusione, la strategia di espansione cinese non è certamente limitata al caso israeliano, come testimoniato dall’intensificarsi dei rapporti bilaterali con numerosi paesi dell’Est Europa o della sponda Sud del Mediterraneo. I dati sopra citati pongono quindi Israele all’interno di quella che è, da parte di Pechino, una strategia di espansione culturale ed economica già ampiamente collaudata. Una valutazione in itinere ci permette di evidenziare come, dal lato cinese, gli sforzi sostenuti abbiano finora portato i risultati sperati. Nel caso di Israele non si registrano infatti le proteste sociali che hanno accompagnato la penetrazione economica cinese in molti paesi, come già avvenuto in Grecia a seguito dell’acquisizione del porto del Pireo. Al contrario, alti tassi di gradimento verso la Repubblica Popolare possono essere riscontrati tra la popolazione civile israeliana. Infine, i rapporti economici bilaterali hanno portato numerosi benefici a Pechino, sia in termini di technology transfer che in termini di commercio con un surplus di circa 5 miliardi di dollari l’anno. È innegabile però che Israele abbia una peculiarità che nessun altro paese dell’area possiede. La sua special relationship con gli Stati Uniti, soprattutto alla luce degli ultimi quattro anni di presidenza Trump, è infatti un fattore che non può essere messo in secondo piano. La Repubblica Popolare si trova quindi a gestire una cooperazione che, per sua stessa natura, deve essere necessariamente circoscritta ad alcuni ambiti specifici. Da parte sua, Israele, sarà impegnata in un’opera altrettanto complessa di bilanciamento tra i vantaggi economici derivanti da una maggiore cooperazione con Pechino e i vantaggi politici dati dall’alleanza con gli Stati Uniti. In questo contesto, il maggior rischio per la Cina nel prossimo futuro è che, con l’intensificarsi della guerra commerciale con gli Stati Uniti, il suo attuale rapporto con Israele possa essere messo in discussione, facendole così perdere i vantaggi strategici ottenuti nell’area mediterranea.
Elia Preto Martini
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