A quasi un anno dalle decisioni prese dal presidente Kais Saied che hanno frenato il processo democratico, in Tunisia la situazione politica, economica e sociale continua a destare preoccupazione. Era il luglio del 2021 quando il professore di diritto costituzionale – diventato capo di Stato nel 2019 – ha invocato l’articolo 80 della Costituzione per sospendere il parlamento, destituire l’allora primo ministro Hichem Mechichi e introdurre lo stato di emergenza che ha caratterizzato il paese nordafricano negli ultimi dieci mesi. L’ex colonia francese si trova oggi ad affrontare una serie di sfide trasversali, mentre le conseguenze del conflitto in Ucraina – l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità in primis – stanno animando un contesto sociale già in forte difficoltà dopo la crisi pandemica ed economica. In tale quadro, le pressioni dall’esterno e i movimenti populisti stanno esacerbando la polarizzazione tra i sostenitori e gli oppositori del presidente, con una conseguente crescente repressione di Saied nei confronti del sistema democratico e di chi, dalla sua prospettiva, “incendia il paese”.
Negli ultimi mesi sono diverse le proteste scoppiate in risposta alle scelte del capo di Stato. I sostenitori di Saied, apparentemente la maggioranza della popolazione, si contrappongono a coloro che additano le decisioni del presidente come un vero e proprio “colpo di stato” e che rifiutano l’attuale situazione. Il presidente Saied ha la facoltà di scegliere se aumentare la pressione nei confronti dei suoi nemici oppure continuare per la sua strada. Ad ogni modo il rischio è quello di innescare reazioni incontrollabili tra la popolazione che potrebbero portare la Tunisia tra le fiamme di una nuova rivoluzione.
Lo scorso dicembre Saied, in un discorso indirizzato al paese, ha annunciato una tabella di marcia per una transizione politica, soprattutto in risposta alle continue richieste dei principali partner internazionali. Nel calendario redatto dalla presidenza, il 25 di luglio si svolgerà un referendum per approvare la revisione della Costituzione del 2014, dopo che un comitato nazionale avrà consultato ed approvato le varie proposte ricevute. Il 17 dicembre, invece, in occasione dell’anniversario della rivoluzione che ha portato alla caduta di Ben Ali, si dovrebbero svolgere le elezioni legislative. Di conseguenza, fino ad allora il presidente avrà le mani sul paese con la possibilità di rafforzare ulteriormente la sua posizione, come del resto gli ultimi eventi hanno dimostrato.
Il 30 marzo il presidente Saied ha emesso un decreto con il quale ha sciolto il Parlamento (già sospeso da luglio 2021) al fine di accompagnare il paese – nell’idea del capo di Stato – verso una nuova vita democratica. La reazione delle opposizioni non si è fatta attendere. Circa 124 parlamentari (su un totale di 217) si sono riuniti in una sessione straordinaria online per votare contro le “misure eccezionali” prese dal presidente. La mossa ha rappresentato la sfida più diretta rivolta a Saied dagli oppositori. Tuttavia, il suo effetto è stato poco incisivo sul percorso tunisino. Sebbene i partiti politici rimangano profondamente divisi tra di loro, una buona fetta si sta mobilitando apertamente contro Saied, chiedendo di adottare un approccio più inclusivo per ristrutturare la politica del paese. La riposta presidenziale si è tradotta in una richiesta di indagine per “cospirazione contro la sicurezza dello Stato”. Molti dei rappresentanti delle opposizioni, tra cui Rached Ghannouchi, capo del partito islamista Ennahda e presidente del parlamento sciolto, sono stati convocati a comparire negli uffici della polizia anti-terrorismo. Precedentemente, il presidente aveva già preso il controllo sulla magistratura: dopo aver sciolto il Consiglio superiore, ha creato un nuovo organo temporaneo con gli stessi compiti e poteri, nominando direttamente i membri.
Sul fronte referendum ed elezioni, le cose non cambiano. Il 20 maggio Saied ha nominato un professore di diritto, Sadok Belaid, alla guida del comitato nazionale – composto da decani di diritto e scienze politiche – che dovrà redigere la nuova Costituzione per una “nuova repubblica” e presentare la relazione alla presidenza. Al contempo, è stato creato un secondo comitato – composto da sei organizzazioni civili, compreso il principale sindacato del paese, l’UGTT (Union générale tunisienne du travail, in arabo الاتحاد العام التونسي للشغل) – al fine di ricevere nuove proposte di riforma. L’assenza dei partiti politici in tale processo è motivo di grande preoccupazione per gli osservatori internazionali. Nelle scorse settimane, l’ex professore ha nominato i nuovi membri della commissione elettorale, guidata da Farouk Bouasker. Tale azione aveva come obiettivo quello di prendere il controllo di uno degli ultimi organismi indipendente rimasti nel paese. Tra i nuovi nominati spicca Sami Ben Slama, sostenitore di Saied e feroce critico del partito islamista Ennahda. Le nuove nomine arrivano dopo che nel recente passato l’ex capo della commissione, Nabil Baffoun, aveva criticato la scelta del presidente di indire un referendum e le elezioni senza seguire il quadro costituzionale esistente oggi in Tunisia. Inoltre, il presidente ha fatto intendere chiaramente che non accetterà osservatori stranieri alle prossime elezioni di dicembre, in quanto, secondo Saied, la Tunisia ha già dimostrato in passato la sua credibilità in termini di elezioni democratiche agli occhi della comunità internazionale. Secondo quanto comunicato, le elezioni si svolgeranno in due turni e il popolo sarà chiamato a votare per i singoli nomi e non per le liste, come invece era avvenuto nell’ultima tornata elettorale.
Come già detto, nelle ultime settimane sono state diverse le manifestazioni e migliaia i tunisini scesi in piazza. Ma, se da una parte, appaiono “naturali” le proteste dell’opposizione e degli attivisti dei diritti umani contro l’uomo forte, dall’altra desta particolare curiosità quella parte di popolazione che manifesta a sostegno di Saied. Questi – sicuramente di numero inferiore rispetto ai rivali – concordano con le scelte prese dal capo di Stato e credono nella necessaria pulizia della vecchie élite per spazzare via corruzione e malgoverno. Inoltre, da tali voci arriva la richiesta (“esaudita” da Saied) di mettere al bando i partiti politici e gli oppositori. Nel recente passato, l’ex professore ha in più occasioni dimostrato di saper portare dalla sua parte buona parte del popolo, in varie circostanze con scelte “populiste” che hanno trovato un riscontro positivo in alcune fasce della società. Tra queste, la decisione di elargire un risarcimento per la famiglie dei “martiri” della rivoluzione: tutti quei tunisini appartenenti alla polizia, all’esercito e alla società civile che hanno lottato per ridere una nuova vita alla Tunisia.
Sembra chiaro come Saied difficilmente modificherà il suo programma di marcia. Il tutto in un contesto economico che appare sempre più complicato. Dopo diversi anni di bassa crescita e livelli di disoccupazione sempre più alti, molti tunisini attualmente si trovano nella condizione di dover lottare per portare a casa i beni di prima necessità. Tali difficoltà sono aumentate dopo lo scoppio del conflitto russo-ucraino che ha portato ad un aumento eccezionali dei prezzi del grano e delle risorse energetiche. Nel 2021 il debito pubblico registrato è stato di oltre 107 miliardi di dinari (circa 33 milioni di euro), pari all’85,8% del Pil, di cui 67,7 miliardi di debito estero (prestiti multilaterali e bilaterali). Quest’anno i numeri non dovrebbero scostarsi di molto. Tale previsione ha spinto l’agenzia Fitch a declassare il rating della Tunisia a ‘CCC’. Il declassamento riflette i maggiori rischi fiscali e di liquidità esterna nel contesto del ritardo sull’accordo per un nuovo programma di finanziamento con il Fondo monetario internazionale (Fmi) dopo i cambiamenti politici dell’ultimo anno. Secondo l’agenzia, il disavanzo pubblico registrerà l’8,5% nel 2022, rispetto al 7,8% del 2021. Le previsioni di crescita del paese saranno compensate dall’aumento dei sussidi necessari sui prezzi del carburante e dei beni alimentari per evitare un forte malcontento popolare. La crescente dipendenza della Tunisia dai prestiti e dagli elevati prezzi globali delle materie prime ha portato a un grave aumento dell’inflazione: nel mese di marzo il dato ha raggiunto il 7,2%, rispetto al 4,8% di marzo 2021. Da qui anche il recente finanziamento approvato dalla Banca mondiale di 400milioni di dollari per supportare le famiglie tunisine in grave difficoltà economiche. Molti osservatori ritengono che il paese sarà costretto a dichiarare default sui propri debiti se non si troverà rapidamente un accordo con il Fmi. Tale quadro economica lascia a Saied una scelta non facile tra un’intesa impopolare con l’organismo internazionale e un tracollo finanziario del suo paese. Il negoziato tra Tunisia e Fmi è iniziato prima degli eventi di luglio dell’anno scorso. Allo stato attuale, un accordo richiederebbe probabilmente misure come tagli ai sussidi e un congelamento dei salari del settore pubblico, già in forte ritardo. L’UGTT ha recentemente avvertito che, sebbene sia aperto alle riforme, queste dovranno essere “giuste ed eque per tutti i gruppi sociali”. Da parte sua, il presidente tunisino Saied ha avvertito che ci sono “linee rosse” nei colloqui del governo con il Fmi, suggerendo che non intende accettare i dettami di nessuno. Un piano di riforme in grado di accontentare le richieste del Fondo necessita di un confronto con tutti i principali attori presenti nel paese, dai partiti ai sindacati alla società civile. Perciò nei giorni scorsi, dopo vari solleciti, è arrivato l’annuncio di un dialogo nazionale. Tuttavia, Saied ha riferito che parlerà solo con le parti “non responsabili” dell’attuale crisi, da qui l’esclusione dei partiti politici. I colloqui proposti dal presidente includeranno il gruppo cosiddetto “National Dialogue Quartet” che ha vinto il Premio Nobel per la pace nel 2015 per il loro lavoro nella costruzione di quella che era, all’epoca, l’unica democrazia emersa dalla Primavera araba del 2011. Il quartetto è composto, oltre che dal già citato sindacato UGTT, dalla Lega dei diritti umani, dalla Confederazione dell’industria, del commercio e dell’artigianato (UTICA) e dall’Ordine degli avvocati.
Ad oggi risulta complicato capire quale sia effettivamente il piano del presidente Saied. I suoi critici sostengono come il presidente non abbia un programma economico o sociale preciso per risolvere l’attuale crisi e stia semplicemente guadagnando tempo per rafforzare la sua posizione politica. Nonostante le continue rassicurazioni da parte del capo di Stato ai “paesi amici” preoccupati per l’evolversi degli eventi, le decisioni prese fino ad oggi non garantiscono quell’impegno a favore di una difesa dell’ordine democratico. A ciò si aggiunge il malcontento popolare che potrebbe sfociare in una nuova rivolta come quella del 2010-2011. Lo sconvolgimento dell’equilibrio di poteri locali che il presidente ha avviato in nome della lotta alla corruzione e al fine di permettere l’ascesa di suoi sostenitori e uomini fidati in determinate aree del paese, tuttavia, sta inasprendo l’insoddisfazione dei tunisini. Il recente annuncio di un ulteriore aumento dei prezzi di alcuni generi alimentari, come latte, uova e pollame, come l’aumento mensile del 3% sulla benzina, e il sempre inferiore potere d’acquisto delle famiglie, aggrava la crisi in corso con il pericolo di proteste che le autorità potrebbero non essere in grado gestire. La guerra nell’Europa orientale sta enfatizzando tutti i problemi strutturali del paese maghrebino. Nonostante la Tunisia sia il primo consumatore al mondo di pane, la maggior parte del grano è importato dall’estero, soprattutto da Russia e Ucraina. Con lo blocco dei porti di Mariupol e Odessa, nell’ex colonia francese, così come nei paesi limitrofi nordafricani, iniziano a mancare tali prodotti. Tutto ciò si traduce in una catastrofe alimentare e in un possibile detonatore di sollevazione popolare. C’è da chiedersi se l’insieme di tutti questi elementi possa portare la Tunisia verso una nuova rivolta. Tuttavia, rispetto al passato, oggi il governo sembra essere più pronto rispetto ai suoi predecessori, che furono colti impreparati dalla forza e dalla costanza delle proteste.
Al di là del tragico simbolismo del crollo della democrazia solitaria della regione, la grave instabilità in Tunisia potrebbe avere ripercussioni nell’area e sui paesi limitrofi. In tal senso acquisisce importanza la reazione degli altri attori internazionali. Per gli Stati Uniti l’interesse è quello di aiutare il paese a ristabilizzarsi e continuare con il suo esperimento democratico. L’amministrazione Biden dovrebbe fare pressione sul presidente Saied per chiarire la sua tabella di marcia e porre rapidamente fine alla crisi politica. Dalla sponda nord del Mediterraneo, l’Unione europea e i suoi paesi membri invece temono possibili nuove turbolenze in Nord Africa, che potrebbero portare ad un aumento dei flussi migratori nel breve periodo e a ulteriori complicazioni per quanto riguarda i rifornimenti energetici. Sul caso specifico tunisino, l’Unione europea può incoraggiare Tunisi per un ritorno al dialogo democratico, supportando i colloqui tra i vari attori nazionali. La posizione rigida di Saied potrebbe mettere i paesi europei in una posizione in cui scegliere se rifiutare l’assistenza e opporsi a nuovi finanziamenti al fine di ottenere un miglioramento del quadro democratico, oppure cedere alla richieste del presidente tunisino e chiudere “entrambi gli occhi”. Ad oggi, tranne alcuni casi, sono state poche le prese di posizione dei paesi europei. Senza ombra di dubbio spetta alla politica interna trovare una soluzione per tentare di trovare un compromesso che possa garantire stabilità per il bene del paese, ma la comunità internazionale può fungere da supporto al processo democratico e, al contempo, porre dei “limiti” a quei comportamenti che indeboliscono questo processo.
Mario Savina