Il 20 giugno scorso, Naftali Bennett, ormai ex Primo ministro israeliano, ha annunciato lo scioglimento dell’esecutivo a seguito di una ulteriore defezione nella coalizione al governo. Le dimissioni di Nir Orbach, membro del parlamento e del partito Yamina, hanno infatti determinato la perdita della maggioranza per la coalizione al potere, rendendo possibile al fronte di opposizione di proporre il voto di sfiducia e lo scioglimento anticipato della Knesset (il parlamento monocamerale israeliano), avvenuto effettivamente il 30 giugno. Pertanto, dal 1° luglio l’incarico di Primo ministro ad interim è stato affidato a Yair Lapid, ex ministro degli affari esteri, il quale avrebbe dovuto in ogni caso ereditare la leadership dell’esecutivo da settembre 2023, secondo quanto stabilito dall’accordo con Bennett nel 2021. Gli israeliani, dunque, saranno chiamati alle urne a novembre per eleggere i nuovi membri della Knesset per la quinta volta in quattro anni: fattore considerato da alcuni osservatori una “minaccia alla democrazia israeliana”, dal momento che la frequente dissoluzione dei governi mette a rischio non solo la stabilità politica, ma anche quella socioeconomica dello Stato ebraico.
Nonostante lo scioglimento dell’esecutivo sia stato più volte considerato un evento inaspettato, l’attuale crisi governativa si inserisce nel quadro dell’impasse politica che il paese attraversa da oltre tre anni: solo tra il 2018 e il 2021, infatti, sono state indette quattro elezioni legislative a causa della sfiducia votata ai governi e per l’impossibilità di formare delle coalizioni di maggioranza. Tuttavia, se le cause dello stallo politico dei governi di Netanyahu furono attribuite principalmente alla controversa figura dell’allora Primo ministro, accusato di corruzione e frode fiscale, i fattori della caduta del governo Bennett-Lapid si possono spiegare invece con la frammentata composizione della coalizione di maggioranza, ideologicamente molto divisa. Questa era infatti composta da otto gruppi politici appartenenti ai diversi rami parlamentari: di destra (Yamina, Yisrael Beiteinu, New Hope), centristi (Yesh Atid, Blue and White) e di centro-sinistra (Labour, Meretz). Oltre a questi, è importante evidenziare anche l’inclusione nella coalizione del gruppo arabo-israeliano United Arab List (partito Ra’am in ebraico), che rappresenta un unicum nella storia politica di Israele.
Come suggerito dal vasto spettro politico dell’esecutivo, nel corso del primo anno di governo sono state molteplici le criticità riscontrate, che più volte hanno messo in discussione la stabilità del governo. In particolare, i membri della maggioranza hanno condiviso un solo dossier dell’agenda politica di Bennett-Lapid, relativo principalmente all’implementazione di riforme per la ripresa economica dopo la crisi causata dalla pandemia di Covid-19. Al contrario, le politiche proposte relativamente alle questioni di sicurezza e difesa dell’interesse nazionale si sono rivelate l’ostacolo principale alla stabilità governativa. In tal senso, la presenza della United Arab List al governo è stata oggetto di critiche e divisioni interne alla coalizione stessa e alla Knesset. È possibile infatti riconoscere come elemento di frizione proprio la divergenza tra gli interessi del partito arabo-israeliano e quelli del centro-destra e dell’ex Primo ministro, Bennett, le cui politiche hanno reso sempre più agevole l’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania a danno della popolazione palestinese. Tuttavia, il punto di rottura tra il partito Ra’am e la restante coalizione è stato raggiunto, lo scorso aprile, a seguito delle violente operazioni di controterrorismo delle Israel Defence Forces, condotte nelle principali città della Cisgiordania, e delle aggressioni dei coloni e delle forze di sicurezza israeliane nei confronti dei civili palestinesi in preghiera alla moschea al-Aqṣā, a Gerusalemme, durante il mese sacro di Ramaḍān. Proprio per tali ragioni, i membri del Ra’am hanno congelato volontariamente la propria partecipazione al parlamento per tre settimane, destabilizzando fortemente la risicata maggioranza della coalizione. La fragilità dell’esecutivo di Bennett e Lapid è stata, invece, accolta molto positivamente da Benjamin Netanyahu, leader del Likud, che nel maggio scorso ha proposto lo scioglimento anticipato dell’assemblea legislativa, dando per certo il voto di sfiducia verso la coalizione al potere e, dunque, la dissoluzione dell’esecutivo nel breve termine.
Ulteriore fattore di instabilità interna alla maggioranza è stata la mancata approvazione nel corso dell’anno di riforme e proposte di legge necessarie a preservare “il carattere nazionale, ebraico e sionista” di Israele, come affermato da Idit Silman, membro chiave del partito Yamina alla Knesset. Silman, infatti, ha rassegnato le dimissioni lo scorso aprile a seguito di contrasti interni con Nitzan Horowitz, ministro della salute, causando la perdita della maggioranza assoluta della coalizione al parlamento, mantenuta fino ad aprile con 61 seggi su 120. Infine, le recenti dimissioni di Nir Orbach, membro parlamentare (partito Yamina), hanno rappresentato l’elemento determinante per lo scioglimento della coalizione e una opportunità, invece, per il fronte di opposizione, che ha proposto il voto di sfiducia e la dissoluzione del parlamento. Orbach, come Silman, ha criticato fortemente l’operato di Bennett: secondo l’ex parlamentare, Bennett è stato vinto dalle pressioni del partito Ra’am e dal fronte di opposizione, che non hanno permesso il rinnovo della riforma sulla condizione giuridica dei coloni israeliani in Cisgiordania. A partire dal 1967, infatti, Israele ha predisposto un sistema giuridico per la comunità ebraica in Cisgiordania, che differenzia la condizione dei coloni israeliani dal resto della popolazione palestinese. Qualora la legge non fosse stata rinnovata, come è realmente accaduto, i coloni israeliani sarebbero stati sottoposti alla legge marziale alla stregua dei palestinesi: una condizione che ha generato caos e malcontento all’interno della coalizione e portato alle dimissioni di Orbach. Ciononostante, proprio la caduta del governo e lo scioglimento della Knesset ha permesso all’élite politica del paese di mantenere in vigore la legge sul sistema giuridico dei coloni israeliani in Cisgiordania.
Attualmente, dunque, l’incarico di Primo ministro è stato affidato a Yair Lapid, che guiderà il governo ad interim fino alle elezioni che si terranno il prossimo novembre. Nei restanti quattro mesi, Lapid dovrà affrontare diverse questioni relative alla sicurezza nazionale, ad esempio il dossier iraniano e quello relativo al processo di normalizzazione delle relazioni tra Israele e i paesi della regione mediorientale, compresa l’Autorità nazionale palestinese (Anp). Tali questioni sono stati inoltre al centro dei colloqui che si sono tenuti tra il Primo ministro israeliano ad interim e il presidente degli USA, Joe Biden, in visita in Israele dal 13 luglio.
Per gli USA, infatti, lo Stato ebraico svolge un ruolo chiave per la stabilità dell’area mediorientale e, pertanto, è fondamentale che porti avanti una politica regionale volta alla costruzione dell’architettura dello spazio mediorientale in funzione anti-iraniana. In tal senso, è necessario che Lapid continui a occuparsi delle relazioni e a ricercare la cooperazione in materia di sicurezza sia con l’Autorità nazionale palestinese (Anp) sia con i paesi del Golfo, in particolar modo con l’Arabia Saudita. In tale quadro rientrano infatti anche le tappe successive del presidente statunitense a Betlemme, dove è previsto l’incontro con il presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas, e a Gedda, in Arabia Saudita, dove prenderà parte al summit del Consiglio di Cooperazione del Golfo, Iraq, Egitto e Giordania.
Inoltre, durante la missione di Biden in Israele, è previsto un colloquio di quest’ultimo con Lapid e Gantz, relativamente all’avanzamento tecnologico del sistema di difesa area laser israeliano, Iron Beam, e con Benjamin Netanyahu, sebbene le posizioni del presidente statunitense sul leader del Likud siano molto critiche.
Difatti, proprio in vista delle prossime elezioni legislative, è necessario che la visita del presidente degli USA vada a buon fine, di modo che la figura del Primo ministro ad interim, Lapid, si consolidi, rappresentando in futuro una valida alternativa a Netanyahu. È probabile, infatti, che a novembre le elezioni si trasformino in una sorta di referendum a favore o contro un nuovo governo di coalizione o unità nazionale, guidato dal leader del Likud, attualmente in testa ai sondaggi.
Maria Grazia Stefanelli
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