Gli interessi nazionali al centro dell’intesa tra Libano e Israele

Lo scorso 11 ottobre, a due anni dall’avvio delle trattative mediate dagli Stati Uniti, Libano e Israele hanno raggiunto uno “storico” accordo sulla demarcazione del confine marittimo nel Mediterraneo orientale. La disputa tra Tel Aviv e Beirut ha avuto origine nel 2011, quando Israele dichiarò all’Onu le coordinate della propria zona economica esclusiva (ZEE) a seguito dell’accordo sul confine marittimo con Cipro, sovrapponendola a quella libanese. Questa condizione ha generato non poche tensioni tra i due Stati: in particolar modo, la controversia ha riguardato la sovranità su un’area di 860 km2, compresa tra le linee di demarcazione 1 (israeliana) e 23 (libanese), e sui giacimenti di gas naturale Qana e Karish. Nel 2011 il diplomatico statunitense Frederic Hof tentò di mediare la crisi, offrendo l’alternativa di un confine intermedio (Hof line): proposta rifiutata da entrambi i soggetti. Pertanto, negli ultimi dieci anni i due paesi levantini si sono sottratti al dialogo, rinunciando alle attività di esplorazione ed estrazione del gas naturale nell’area contesa: fattore che ha gravato soprattutto sul quadro socioeconomico libanese.  

Carta geografica del confine marittimo conteso tra Libano e Israele. Fonte: Iraqi News

In attesa della risoluzione della disputa con Israele, Total Energies, Eni e Novatek hanno posticipato le operazioni di esplorazione dei giacimenti del blocco 9 della ZEE libanese (Qana e Karish) e negli anni hanno limitato queste attività al blocco 4 (a nord di Beirut), ottenendo scarsi risultati. La condizione ha reso il paese estremamente dipendente dall’importazione di gas, petrolio e diesel, fonti utili alla produzione di energia elettrica. Infatti, secondo i dati più recenti della Banca Mondiale, nel 2013 il Libano ha importato il 98% dell’energia utilizzata. Allo stato attuale, il settore energetico libanese risulta altamente disfunzionale: l’unica impresa pubblica che si occupa di produzione, trasporto e distribuzione di energia elettrica è l’Électricité du Liban (Edl), che dal 1992 ha accumulato un debito di circa 40 miliardi di dollari (dati 2020). Inoltre, la capacità di produzione di energia dell’Edl è nettamente inferiore alla domanda interna anche a causa degli scarsi investimenti del governo libanese nel settore energetico. Per tale ragione, si verificano frequenti blackout con conseguenze negative sulle attività commerciali e industriali, così come è sempre più iniqua la distribuzione dell’elettricità tra i diversi distretti del paese. Questa situazione costringe i libanesi a utilizzare privatamente generatori diesel, per i quali è necessario sostenere costi molto elevati: conseguenza del peggioramento della crisi economica nazionale, della svalutazione della lira (90%) e, più recentemente, del conflitto russo-ucraino.

Fonti di generazione dell’energia elettrica in Libano in terawattora (2000-2021).
Dati estratti da: Open Source Global Electricity Data | Ember (ember-climate.org)

Al fine di gestire la grave crisi economica ed energetica, lo scorso anno l’ex ministro libanese dell’energia e dell’acqua, Raymond Ghajar, ha incontrato ad Amman gli omologhi di Egitto, Giordania e Siria. Durante la visita è stata elaborata una road map per la distribuzione del gas in Libano, che prevede il recupero delle infrastrutture per il trasporto della commodity dal Cairo a Beirut, passando per Amman e Damasco. La cooperazione tra i paesi della regione ha l’obiettivo di rendere più stabile il contesto socioeconomico libanese ed è supportata dagli Stati Uniti che la considerano una valida alternativa alle relazioni commerciali con l’Iran, sostenute invece da Hezbollah.

In questo contesto, si inseriscono le trattative degli ultimi due anni tra Tel Aviv e Beirut, mediate dal diplomatico statunitense Amos Hochstein. Nonostante il rifiuto della prima proposta di accordo da parte di Israele ed Hezbollah, Tel Aviv e Beirut hanno raggiunto un accordo sulla bozza finale elaborata dagli USA, ricevendo il consenso anche del “Partito di dio”. Secondo quanto concordato, il Libano rinuncerà ufficialmente ai diritti su Karish e potrà invece esplorare ed estrarre gas naturale dal giacimento Qana. Tuttavia, visto che la riserva di gas si estende a sud del confine marittimo adottato (linea 23), Total Energies condividerà una parte dei proventi con Israele.

L’accordo è stato interpretato come una importante soluzione all’impasse socioeconomica nazionale da parte di tutta l’élite politica libanese: anche Hezbollah ha dichiarato di aver supportato la decisione governativa per tentare di risolvere la crisi finanziaria. Tuttavia, altri fattori possono aver influenzato la decisione del Partito di dio, ovvero le proteste in corso a Teheran e il coinvolgimento nelle trattative di Gebran Bassil – ex ministro dell’Energia legato al movimento di ispirazione sciita. Per tali ragioni, nella scorsa settimana, Michel Aoun, presidente del Libano, ha accettato ufficialmente l’accordo con Washington e Tel Aviv: l’ultimo del suo mandato, date le imminenti (e incerte) elezioni presidenziali previste per il 31 ottobre. Tuttavia, vi sono diversi aspetti che devono essere considerati e che possono frenare l’entusiasmo nazionale e internazionale sui vantaggi dell’accordo per il contesto libanese: sebbene non sia ancora chiaro il volume di gas estraibile dal giacimento Qana e quanto tempo occorra per avviare la produzione della commodity, nella migliore delle ipotesi i ricavi generati dal gas potrebbero raggiungere i sei miliardi di dollari in 15 anni. Per questo motivo, è necessario che la classe politica libanese implementi una serie di riforme fiscali che possano sollevare la condizione economica soprattutto nel breve e medio periodo: in tal modo, anche i futuri ricavi provenienti dalla produzione di gas naturale potranno essere gestiti correttamente e non saranno intesi come una fonte per autofinanziare l’élite politica.

Incontro tra il primo ministro libanese Najib Mikati, il ministro dell’energia Walid Fayyad e una delegazione della Total Energies, 11 ottobre 2022. Fonte: تشرين الأول (pcm.gov.lb)

Relativamente a Israele, invece, fin dai primi anni Duemila il paese ha avviato l’esplorazione e l’estrazione di gas naturale dai propri giacimenti: condizione che ha consentito a Tel Aviv di raggiungere l’autonomia energetica e di esportare la commodity in Europa, Nord Africa e Medio Oriente. Nel contesto israeliano, le entrate ottenute dall’esportazione del gas sono impiegate nello sviluppo di altre fonti energetiche (in particolare quella solare), utili alla produzione di elettricità e al processo di desalinizzazione dell’acqua: fattori che assicurano stabilità al quadro socioeconomico nazionale. In tal senso, il recente accordo raggiunto con Washington e Beirut è funzionale all’aumento della produzione di gas naturale e rende più efficace la risposta israeliana alla crescita della domanda della commodity dai paesi limitrofi ed europei, conseguenza del conflitto russo-ucraino. Oltre a garantire sicurezza economica ed energetica, l’intesa con il Libano rappresenta un successo per il governo di Yair Lapid: il primo ministro ad interim concorrerà alle prossime elezioni governative, programmate per il 1° novembre, e la risoluzione della disputa con il paese dei cedri potrebbe influenzare positivamente l’opinione pubblica. Infatti, i sondaggi dello scorso luglio sulle elezioni vedevano in vantaggio Benjamin Netanyahu, leader dell’opposizione, che ha manifestato il proprio disappunto sull’accordo, considerandolo un chiaro segno di arrendevolezza nei confronti del volere di Hezbollah.

In definitiva, nonostante l’accordo raggiunto possa ritenersi importante per la sicurezza economica ed energetica di entrambi i paesi, occorrerebbe considerare alcuni fattori che possono riaprire la conflittualità tra Tel Aviv e Beirut. L’eventuale vittoria di Netanyahu potrebbe compromettere l’intesa raggiunta sul confine marittimo: il leader del Likud ha infatti espresso la volontà di cancellare l’accordo, qualora dovesse essere nominato nuovo primo ministro. Inoltre, è fondamentale considerare anche l’esito delle elezioni presidenziali in Libano, previste per il 31 ottobre: nelle scorse settimane le prime due sedute del Parlamento non hanno prodotto alcun segnale positivo in merito all’elezione di un candidato. Pertanto, il vuoto politico potrebbe portare a tensioni sociali e allo scoppio di nuove proteste, che renderebbero il contesto libanese ancora più instabile. Infine, non si può escludere l’eventuale riapertura delle ostilità tra Hezbollah e Israele sulla questione, che potrebbe far sfumare la sigla dell’accordo: Hassan Nasrallah, il leader del Partito di dio, ha sottolineato, in un discorso alla comunità libanese, l’atteggiamento vigile del movimento nei confronti dello Stato ebraico e ha escluso la riappacificazione tra i due paesi, evidenziando che l’accordo porrà fine esclusivamente alla contesa sul confine marittimo.

Maria Grazia Stefanelli