Le elezioni tenutesi in Israele martedì 1° novembre 2022, le quinte in quattro anni, possono portare a molteplici spunti di riflessione. Esse testimoniano l’instabilità del sistema politico di Israele, la frammentazione della sua società e l’importanza dei partiti minori all’interno dell’arco politico. Ma, al di là del risultato, esse ci offrono l’opportunità di osservare un fenomeno che perdura nella società israeliana almeno dagli anni ’90, ossia il permanere del predominio politico della destra sionista (e non) al suo interno. È inoltre possibile notare come la società israeliana stia andando sempre più in quella direzione, come dimostrato dall’ascesa di un’entità relativamente nuova come il Partito sionista religioso (RZP), guidato da Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, figure considerate fino a pochi anni fa come estremisti fuori dall’arco politico. Questo fenomeno ha portato il giornalista Gwynne Dyer ad affermare che, ormai, ben il 62% degli israeliani si considera di destra.
La maggior parte del paese si è, dunque, dimostrata ancora una volta e ancora più convintamente schierata in un ben determinato campo ideologico che, al di là delle numerose divisioni su diversi temi al proprio interno, può riassumersi in un comune e fondamentale principio: il mantenimento dell’identità di Israele come Stato ebraico ad ogni costo, tramite il proseguimento dell’occupazione della Cisgiordania al fine di proteggere e ampliare ove possibile l’insediamento di coloni al suo interno per una sua “giudaizzazione.”
Tale principio, così formulato, racchiude in sé uno dei principali fattori che hanno ormai portato molti a considerare il conflitto israelo-palestinese qualcosa di sostanzialmente insanabile, come dimostrato dal fallimento del processo di pace formalmente in corso dagli anni ’90.
È necessario, dunque, interrogarsi in merito alle ragioni dell’innegabile successo della Destra israeliana, delle sue origini e delle motivazioni che spingono larga parte della società israeliana a riconoscersi in essa. Ci si potrebbe chiedere che senso avrebbe continuare ad appoggiare i movimenti dei coloni in Cisgiordania, che così chiaramente non solo hanno portato alla fine di qualunque speranza di pace basata su di una soluzione a due Stati, ma che mettono anche a rischio ogni giorno la sicurezza di soldati israeliani e di civili israeliani e palestinesi. Quale potrebbe mai essere la ragione per andare ad incidere così tanto sul bilancio pubblico pur di mantenere un controllo militare così stretto sulla Cisgiordania e, al contempo, un assedio sulla Striscia di Gaza? Ancora: perché insistere sul favorire la “giudaizzazione” di Gerusalemme portando agli scontri a Sheikh Jarrah o promulgare leggi come la Basic Law del 2018 che ha portato minoranze fedeli ad Israele a scontrarsi per la prima volta con esso come i Drusi?
Tali politiche e azioni non appaiono solo ingiuste o non conformi al diritto internazionale, ma anche irrazionali. In un paese come Israele, fra i più sviluppati per indice di disuguaglianza sociale dove, alla fine del 2021, ben un cittadino su cinque vive in condizioni di povertà, non sembrano esserci i presupposti per il successo politico di partiti che, ad esempio, non hanno decisamente fra i primi punti in programma un’equa ripartizione delle risorse nella società ma che al contempo intendono continuare a spendere soldi pubblici in un’eterna occupazione militare.
Tuttavia, le ragioni del successo fra gli israeliani di partiti o movimenti quali il Likud di Netanyahu o l’RZP trovano la propria origine nella storia del Sionismo stesso e nella nascita di Israele per come lo conosciamo oggi. Le posizioni espresse dai membri di questo campo ideologico sono, in effetti, le medesime dei loro diretti antenati politici presenti all’interno del Movimento sionista ai tempi del Mandato britannico in Palestina (1920-1948), denominati Revisionisti.
Allora come oggi, i movimenti e i partiti interni al mondo sionista erano molto numerosi e con diverse interpretazioni sul raggiungimento del comune obiettivo della creazione di uno Stato ebraico in Palestina. È utile ricordare, al fine di rendere chiare le divisioni politiche del tempo, almeno tre fazioni maggiori, o correnti, presenti all’interno del Movimento sionista ai tempi del Mandato. La prima, corrispondente grosso modo a movimenti di Destra e Sinistra moderati, era rappresentata essenzialmente dai Sionisti generali di Chaim Weizmann, liberali e leali al Mandato britannico, e dai Sionisti laburisti, ossia l’Ahdut HaAvoda di David Ben-Gurion.
Questi due gruppi possono essere collettivamente riconosciuti, come già fatto dallo storico israeliano Benny Morris, come rappresentanti del cosiddetto Sionismo convenzionale. Alle estremità dello spettro politico erano invece presenti i Revisionisti, guidati da Ze’ev Jabotinsky, all’estrema destra, e, all’estrema sinistra il movimento HaShomer HaTzair, l’ala marxista di Poalei Zion e il gruppo Brit Shalom.
All’interno di questo panorama politico, le posizioni dei diversi gruppi relativamente allo stabilimento di uno Stato ebraico erano molteplici. In particolare, non vi era una comune risposta al dilemma presentato dalla presenza di una popolazione nativa di lingua e cultura araba all’interno dell’area corrispondente ai biblici regni di Israele e di Giuda, identificati all’interno del Movimento sionista europeo come ancestrale patria del popolo ebraico.
I gruppi rappresentanti le opposte ali estreme dello schieramento politico erano, stranamente, entrambi orientati verso una soluzione basata su di un unico Stato nell’area. Il Mandato britannico non avrebbe dovuto essere diviso in due Stati, uno ebraico e uno arabo. Tuttavia, se per l’ala sinistra questo andava a tradursi in uno Stato per entrambe le nazioni, in cui i cittadini avrebbero avuto i medesimi diritti e, soprattutto, auto-determinazione, per i Revisionisti tale soluzione si basava su di un approccio opposto relativamente alla volontà di coesistenza o meno con la popolazione araba di Palestina.
I Revisionisti, infatti, non aspiravano solo alla creazione di un unico Stato all’interno del Mandato britannico di Palestina, ma anche alla porzione transgiordana di esso (odierno Regno di Giordania), ceduto alla dinastia Hashemita dal Segretario coloniale britannico Winston Churchill nel 1921. Il nome stesso dei Revisionisti derivava infatti dal rifiuto della partizione operata dai britannici e dal loro conseguente obiettivo di far rivedere la decisione a Whitehall.
Per il movimento di Jabotinsky, lo scopo non era solo un unico Stato ebraico, ma un unico Stato che unificasse ambedue le rive del Giordano. In questa visione nazionalista e irredentista il destino degli arabi di Palestina e Giordania, agli occhi di Jabotinsky e degli altri esponenti del Sionismo revisionista, sarebbe stato quello di una minoranza interna a Israele, che avrebbe goduto di diritti civili all’interno di uno Stato ebraico, ma che al contempo non avrebbe avuto alcuna auto-determinazione nazionale.
Questa visione profondamente etnocentrica del futuro dello Stato ebraico è, come è evidente, ancora alla base del principale discendente politico dei Revisionisti, quale è il Likud fondato da Menachem Begin e Yitzhak Shamir e guidato da Ariel Sharon e, fino ad oggi, da Benjamin Netanyahu. Inoltre, è importante notare che tale progetto non era certo confinato a frange di estrema destra all’interno del Sionismo. Infatti, la principale differenza tra i Revisionisti e i Sionisti convenzionali come Weizmann su questo tema era essenzialmente di natura strategica.
Weizmann stesso, malgrado l’uso costante di termini moderati e di dimostrazioni di lealtà ai britannici, chiese a Churchill di rivedere la decisione presa nel 1921. La grande differenza risiedette nel fatto che egli, così come gli altri moderati (liberali e laburisti) come David Ben-Gurion, optò per un ritiro pragmatico dalle richieste irredentiste più estreme, focalizzandosi sul rafforzamento della già esistente comunità ebraico-sionista sul lato occidentale del Giordano. Di conseguenza, sia fra Revisionisti che fra moderati, l’interpretazione del fine ultimo dell’ideologia sionista consisteva nella creazione di uno Stato democratico e, soprattutto, a maggioranza ebraica.
In tale ottica, l’espulsione della popolazione araba palestinese all’interno dei confini di Israele così come stabiliti dalla Risoluzione ONU n.181 da parte delle forze armate sioniste guidate da Ben-Gurion durante il conseguente conflitto con gli Stati arabi confinanti risulta essere una logica conseguenza. Per il medesimo motivo, le forze della Destra revisionista non furono certo protagoniste della politica israeliana nel periodo intercorso tra il 1948 e la Guerra dei Sei giorni del 1967. Fino a tale data, infatti, il progetto poteva considerarsi generalmente concluso con successo: uno Stato a maggioranza ebraica era stato creato, con una piccola popolazione araba rimasta al suo interno che certo non poteva minarne l’identità etnica.
La questione riemerse tuttavia in seguito alla guerra del 1967, e con essa contemporaneamente iniziò l’ascesa della Destra sionista, ora rappresentata dal Likud. A seguito del conflitto che vide Israele trionfante sui vicini arabi, infatti, l’establishment politico e militare israeliano si ritrovò nuovamente di fronte il medesimo dilemma, ossia un grande numero di popolazione araba palestinese con cui doversi rapportare. Per giunta, con la conseguente occupazione che perdura fino a oggi, era Israele stesso ad avere la responsabilità di mantenere l’ordine e non più i britannici.
La complessità della questione, unitamente al rischio che poneva all’esistenza stessa di Israele come Stato ebraico, fu evidente da subito. David Ben-Gurion stesso, l’uomo che nel 1948 aveva più di tutti operato al fine della costruzione di uno Stato ebraico e della separazione politica fra ebrei ed arabi palestinesi, dichiarò in un’intervista del 1968 che sarebbe stato molto meglio per Israele restituire immediatamente i territori acquisiti de facto nella guerra dell’anno precedente.
I successivi governi israeliani, prima laburisti e poi conservatori, non riuscirono tuttavia a resistere alla tentazione dell’irredentismo dei vecchi Revisionisti, cedendo quasi immediatamente all’illegale colonizzazione dei territori occupati da parte di movimenti religiosi sionisti come Gush Emunim. Per questo motivo, i partiti della Destra israeliana, primo fra tutti il Likud di Netanyahu, hanno beneficiato di un’ascesa che ha portato a una quasi inarrestabile serie di vittorie, come quella riportata nei giorni scorsi. La loro base di consenso è basata sul conflitto stesso il quale, stante le condizioni, resta pressocché insanabile. Infatti, una numerosissima serie di questioni blocca qualunque speranza di ritorno a un processo di pace credibile, quali la questione di Gerusalemme est, dei rifugiati palestinesi del 1948 e, soprattutto, l’occupazione militare e la colonizzazione della Cisgiordania dal 1967 a oggi. Dati questi elementi, ed in particolare l’ultimo, i civili palestinesi cisgiordani vivono in condizioni definite più volte come di apartheid, stante la necessità dei militari israeliani di controllarli e di difendere gli insediamenti ed i coloni. Allo stesso tempo, la società israeliana si è spostata sempre più a Destra a causa del fallimento completo del processo di pace e delle periodiche ondate di violenza da parte palestinese rappresentate dalla prima e seconda Intifada e dagli attacchi da Gaza.
Questa situazione di conflitto costante, de facto interno, rappresenta la principale ragione di attrazione verso Netanyahu e il Likud, che ha infatti sempre più fatto proprio il discorso politico religioso e irredentista portato avanti dai movimenti dei coloni, che considerano i territori occupati come il cuore dell’antica Israele, Yehuda VeShomron (Giudea e Samaria).
Il risultato di tale ascesa, però, è evidente e al di sopra di considerazioni di tipo politico: il conflitto in Israele/Palestina muove costanti passi indietro rispetto ad una risoluzione definitiva, portando lo Stato ebraico a un ulteriore dilemma, ancora più difficilmente risolvibile, ossia dover scegliere fra il restare uno Stato ebraico su base etnica o uno Stato democratico.
Francesco Felle