È di uso comune, in ambito politico ed anche accademico, considerare il sionismo come un’ideologia monolitica, senza sfaccettature e correnti al proprio interno, il cui unico scopo è rappresentato dalla difesa acritica dello Stato ebraico. Tale lettura è stata sicuramente agevolata e giustificata in modo attivo dal dominio indiscusso delle forze politiche e dei partiti in Israele che hanno effettivamente incarnato questo modello interpretativo dell’ideologia sionista.
Tuttavia, malgrado tale dominio sia stato dimostrato ancora una volta dalle ultime elezioni tenutesi in Israele un mese fa, è importante sottolineare che, all’interno del panorama politico sionista e israeliano, forme di interpretazione dissidenti interne al sionismo sono esistite. La loro importanza, stante la costante condizione di minoranza all’interno dei movimenti sionisti, deriva soprattutto dal puntuale verificarsi delle circostanze da esse previste a mano a mano che il sionismo si legava sempre più all’ottenimento, e poi alla difesa, dello Stato ebraico, oltre che alla levatura intellettuale dei suoi rappresentanti principali, tra cui Martin Buber e Hanna Arendt.
L’estrema varietà ideologica dei primi movimenti sionisti trova dimostrazione anche nel fatto che quando Theodor Herzl, considerato il padre ideologico del sionismo, pubblicò le proprie basi teoriche per la creazione dello Stato ebraico in Der Judenstaat nel 1896, cui seguì nello stesso anno il primo Congresso sionista mondiale a Basilea, insediamenti ebraici e sionisti nell’allora Palestina ottomana erano già presenti da decenni. Tali prime colonie erano a loro volta nate o dalle iniziative di gruppi socialisti ebraici russi come Bilu o Hovevei Zion, primi movimenti di kibbutznik, o dalla promozione da parte di filantropi ebrei dell’Europa occidentale come Moses Montefiore e Edmond James de Rothschild. Non era in effetti neanche certo all’epoca fra i sionisti quale sito geografico sarebbe stato più adatto per la costruzione di uno Stato ebraico. Oltre alla Palestina ottomana, vennero presi in considerazione infatti anche altri luoghi, come l’Uganda britannico.
Il mondo politico sionista era dunque estremamente vario in origine e al suo interno era in corso sin dagli inizi il dibattito derivante dalla centralità della successiva scelta della Palestina come luogo d’elezione per la creazione di uno Stato ebraico o di una Patria ebraica. Quest’ultima distinzione lessicale non è casuale, in quanto fu alla base di tale dibattito. Infatti, da un lato la visione del sionismo propugnata da Herzl vedeva nel nazionalismo europeo ottocentesco tanto il problema dell’antisemitismo che la sua soluzione. Il popolo ebraico avrebbe dovuto infatti seguire l’esempio del resto dei popoli d’Europa, che negli stessi anni combattevano per ottenere uno Stato nazionale, come in Italia, in Germania e nei Balcani, ed insediarsi nella loro Patria ancestrale, la Palestina, “una terra senza popolo, per un popolo senza una terra”.
Sin dagli inizi, l’evidente falsità di quest’ultima affermazione diede luogo a un dibattito interno al mondo sionista. Una delle prime voci discordi all’interno del movimento, infatti, fu rappresentata dal russo Ahad Ha’am, che riportò in un suo articolo del 1891 (quindi precedente rispetto al primo Congresso sionista mondiale), pubblicato successivamente a un suo viaggio nella regione, che «dall’estero riteniamo che Eretz Yisrael sia al momento del tutto desolata […] e che chiunque voglia comprare della terra possa venire e acquistare ciò che vuole. Ma in verità non è così. In tutta l’area, è difficile trovare terra arabile che non sia stata già arata». Egli aggiunge, inoltre, che «gli arabi, e specialmente gli abitanti delle città, capiscono i nostri intenti e desideri in Eretz Yisrael, ma restano calmi e fanno finta di non intendere [ma] non cederanno facilmente i loro posti».
La consapevolezza, dunque, della questione che porterà poi ad un conflitto lungo un secolo che perdura fino ai nostri giorni era dunque già presente anche prima della nascita ufficiale del sionismo a Basilea nel 1896. Una consapevolezza che, almeno per quanto riguarda i principali leader sionisti, portò a una dicotomia di obiettivi tra una maggioranza intenta alla costruzione di uno Stato ebraico, quale lo conosciamo oggi, e una minoranza, molto ridotta, che intese il sionismo come mirante invece alla creazione di una Patria ebraica, ossia uno Stato condiviso con la popolazione araba di Palestina. Questo obiettivo fu sempre proposto da piccoli movimenti come Brit Shalom, fondato nel 1925 e composto da intellettuali del calibro di Martin Buber, Hans Kohn ed Albert Einstein, succeduto poi dal movimento Ihud. È importante sottolineare gli sforzi di questa piccola minoranza di intellettuali per prevenire il conflitto durante i tre decenni di violenza interetnica corrispondenti all’epoca della Palestina mandataria, unitamente alla quasi inquietante precisione delle loro predizioni qualora avesse prevalso la realpolitik di figure come Ben-Gurion e Jabotinsky.
Il filosofo austro-ungarico Martin Buber, ad esempio, pose la questione della coesistenza al centro stesso dell’ideologia sionista, come necessità morale prima che pratica per la costruzione di una Patria ebraica. L’intera vita politica di Buber trovava infatti il proprio significato nell’affermazione del sionismo come un’ideologia che avrebbe dovuto trovare il proprio vero significato nell’essere completamente diverso dagli altri movimenti nazionalisti dell’epoca. Esso doveva consistere in uno strumento per la promozione di un nuovo Umanesimo ebraico, con l’obiettivo di collimare la distanza tra politica e morale attraverso la creazione di una Patria ebraica, intesa non come uno Stato nazione, ma come una nuova entità politica basata su verità e giustizia. Secondo tale concezione altamente morale del sionismo, questo trovava il proprio banco di prova precisamente nella dimensione morale del conflitto, ed avrebbe dunque perso la propria direzione valoriale e il proprio significato se avesse ceduto ad una politica di potere verso gli arabi di Palestina.
Questa apparente utopia potrebbe apparire ingenua se confrontata con il realismo e la spregiudicatezza dimostrata dai leader sionisti più noti, ma aveva ovvie connotazioni pratiche derivanti da una profonda e realista preoccupazione per il futuro del Yishuv, opposta alle politiche di imposizione che apparivano, ed appaiono, come estremamente miopi. La paura degli arabi palestinesi di essere espropriati della loro stessa terra era reale, e la loro inimicizia avrebbe dovuto essere vinta senza al contempo rinunciare al sogno sionista di creare una Patria ebraica.
Queste idee possono essere considerate come rappresentative del mondo del dissenso sionista nella Palestina mandataria, ed esse sono, almeno in parte all’origine di diversi movimenti, partiti, associazioni e correnti di pensiero che sono stati e sono presenti in Israele. All’interno dello Stato ebraico, infatti, sono sempre esistiti movimenti, partiti e associazioni che hanno liberamente espresso il proprio dissenso verso il sionismo comunemente inteso, come ad esempio il movimento socialista Matzpen, attivo fino ai primi anni ’90, la cui lotta principale consisteva nell’opposizione all’occupazione della Cisgiordania, o le Pantere nere israeliane, movimento a difesa dei diritti degli ebrei di origine araba.
Negli ultimi anni, invece, l’espressione del dissenso verso il sionismo nazionalista all’interno della società israeliana viene espresso molto attivamente per lo più da associazioni e organizzazioni non governative, come Peace Now (nata nel 1978), movimento israeliano per la pace, B’tselem, ong che funge da centro di informazione per i diritti umani nei Territori Occupati o Breaking the Silence, un’organizzazione di veterani dell’Idf che vogliono raccontare quanto visto e vissuto nei Territori.
L’importanza di tutti i movimenti qui citati risulta fondamentale per la comprensione sia del conflitto israelo-palestinese che della società israeliana, anche perché essi dimostrano, per certi versi, la parziale veridicità dell’esistenza di una sola democrazia funzionante in Medio Oriente, ossia quella di Israele stesso. Tale elemento va sotttolineato soprattutto a causa della costante deriva politica nazionalista di un Paese che è effettivamente riuscito fino ad oggi a mantenersi democratico malgrado lo stato di guerra permanente.
A dimostrazione di questo, basti ricordare che a seguito del massacro di rifugiati palestinesi ad opera di milizie maronite nel 1982, coadiuvate esternamente da forze israeliane, nei campi di Sabra e Shatila a Beirut durante la Guerra civile libanese, il pubblico israeliano manifestò in massa a Tel Aviv per chiedere le dimissioni, poi ottenute, dell’allora ministro della Difesa Ariel Sharon. Un evento che ha chiaramente dimostrato all’epoca la buona salute delle istituzioni e della democrazia israeliane.
Francesco Felle