Sulla scia delle cosiddette “Primavere arabe”, la crisi siriana si aprì nel 2011 a seguito delle proteste scoppiate a Darˈa contro l’autoritarismo monopartitico di Bashar al-Assad, il quale contrastò le attività eversive dei gruppi di opposizione con pesanti bombardamenti. L’escalation di violenze e la progressiva perdita del controllo del regime sul paese favorirono un maggiore radicamento delle organizzazioni terroristiche, quali Jabhat al-Nusra, al-Qaeda e lo Stato islamico (Isis), che nel 2014 proclamò il proprio califfato nello spazio geografico al confine tra Siria e Iraq. In questo quadro, nel 2015 si inserisce l’intervento di Mosca nella crisi siriana a sostegno del regime di al-Assad, che le ha consentito negli anni di consolidare un’importante presenza militare e di stabilire un’intesa con diversi paesi del Vicino Oriente.
Il sostegno della Russia al regime siriano ha avuto come finalità principale quella di garantirsi una proiezione strategica sul Mediterraneo: la Siria, infatti, ha una grande importanza geopolitica per Mosca, in quanto nelle città di Tartus e Latakia sono collocate le uniche basi militari russe nella regione mediterranea, mentre la base aerea di Hmeimim (Latakia) le consente di controllare lo spazio aereo.
Mosca è però intervenuta in favore di al-Assad anche per contrastare la diffusione del terrorismo di matrice islamica in Siria, che avrebbe comportato possibili ripercussioni anche all’interno dello stesso territorio russo. Infatti, numerosi miliziani dell’Isis provenivano dalle repubbliche del Caucaso del Nord e, dunque, l’affermazione dello Stato islamico avrebbe potuto significare il loro rientro in patria come foreign fighters, con il conseguente pericolo di attentati terroristici. Pertanto, Mosca ha inviato a Damasco armi, equipaggiamenti e personale militare – affidandosi anche a gruppi di mercenari (Gruppo Wagner) e a unità di combattenti di etnia cecena (Vostok e Zapad), al fine di minimizzare la propria esposizione in termini di costi politici, economici e di perdita di vite umane.
Dopo aver sostenuto attivamente il regime, la Russia ha cercato di ritagliarsi il ruolo di broker della transizione siriana, ponendosi come “attore terzo” nella crisi del paese. Nel 2017, infatti, Mosca ha organizzato i colloqui di Astana, considerati una grande mossa diplomatica visto che ha consentito alla Russia di far sedere allo stesso tavolo dei negoziati attori sia favorevoli (Iran) sia fortemente critici (Turchia) nei confronti del regime di al-Assad. In tal modo, Mosca ha potuto consolidare e sviluppare buoni rapporti con i principali key-player regionali, coinvolti più o meno direttamente nella crisi siriana, tra cui Israele.
Dal 2015 Benjamin Netanyahu e Vladimir Putin hanno tenuto diversi incontri di coordinamento sulle operazioni di controterrorismo israeliane in Siria, pur divergendo su questioni importanti, ovvero il sostegno russo sia al regime di al-Assad sia all’influenza iraniana nel paese levantino.
Adottando l’approccio della de-confliction, fondamentale per evitare scontri tra due paesi attivi nello stesso scenario, Mosca ha consentito tacitamente a Tel Aviv l’accesso a una parte dello spazio aereo siriano (previa comunicazione), per colpire obiettivi di importanza fondamentale per la propria sicurezza nazionale, ovvero asset strategici iraniani. Se per molti decenni successivi alla creazione dello Stato ebraico la principale minaccia alla sopravvivenza di Israele è stata rappresentata dall’ostilità dei paesi arabi limitrofi, attualmente è proprio l’Iran e i suoi gruppi proxy attivi in Siria, in Libano e nei territori palestinesi a costituire il principale nemico di Tel Aviv.
Dal punto di vista di Mosca, invece, l’importanza della de-confliction risiedeva nella necessità di bilanciare la presenza iraniana in Siria. La collaborazione tra russi e iraniani infatti può essere descritta come “cooperazione tattica nell’ambito di una competizione strategica”: se la sconfitta dell’Isis era un obiettivo militare condiviso, le rispettive visioni sul futuro della Siria e sui rapporti di forza con gli altri attori regionali divergevano in modo significativo. Proprio per queste ragioni, Mosca ha potuto mantenere un certo livello di ambiguità nelle relazioni con Israele e Iran, almeno fino allo scoppio della guerra in Ucraina il 24 febbraio 2022. Il conflitto russo-ucraino potrebbe infatti compromettere nel prossimo futuro il ruolo di Mosca nel contesto siriano e inevitabilmente le relazioni con Tel Aviv.
È certamente vero che, nonostante sia impegnata nel conflitto in Ucraina, la Russia sfrutta ancora la presenza di un’importante compagine militare in Siria, per mantenere stabile la sua influenza nel paese e sul regime. Da un lato, infatti, continua ad autorizzare gli attacchi delle forze alleate contro il regime di al-Assad, in particolare quelli israeliani, e, dall’altro, supervisiona le operazioni militari del governo di Damasco ed effettua dei pattugliamenti congiunti con Ankara lungo il confine siriano settentrionale.
Tuttavia, è importante sottolineare che l’avvio della cosiddetta “operazione militare speciale” in Ucraina ha reso inevitabile una riduzione della fornitura di armamenti russi a Damasco, il ritiro di numerosi aerei da combattimento e di alcune batterie di difesa antimissile S-300 (ma non S-400), nonché di personale altamente qualificato, spesso sostituito con reclute di poca esperienza e mercenari. Al contempo, per sostenere lo sforzo bellico contro Kiev, Mosca ha dovuto appoggiarsi all’Iran, che fornisce missili balistici e droni alle forze russe.
Al graduale disimpegno di Mosca dal contesto siriano corrisponde tuttavia un consolidamento dell’intesa tra Teheran e Damasco. Ad esempio, il 24 gennaio scorso Ali Mahmoud Abbas, ministro della Difesa siriano, e Hossein Salami, comandante delle Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (Irgc), hanno tenuto un incontro a Teheran in cui si è discusso di cooperazione militare, in particolare di esercitazioni congiunte e supporto iraniano nell’addestramento e nella fornitura di equipaggiamenti militari alla Siria, con una menzione anche al necessario sostegno dei due paesi alla causa palestinese. Inoltre, il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, ha espresso la volontà di sostenere economicamente il regime di al-Assad nella fase di ricostruzione del paese successiva al conflitto.
Alla luce di questi recenti sviluppi, si può ipotizzare che, qualora Mosca opti per una graduale uscita di scena dal territorio siriano, come sta già limitatamente accadendo, potrebbe verificarsi una progressiva “iranizzazione” della Siria, ovvero il controllo univoco delle strutture politico-militari di Damasco da parte di Teheran, ora forte anche della dipendenza della Russia dalla fornitura di armi nel contrasto a Kiev. In tal senso, il disimpegno russo e l’aumento dell’influenza iraniana in Siria, determinati dalla crisi in Ucraina, costituirebbero per Tel Aviv una maggiore esposizione al rischio di confronto con Teheran. Di conseguenza, il potere negoziale di Mosca con Tel Aviv diminuirebbe e fallirebbero gli obiettivi dell’approccio della de-confliction che ha regolato i rapporti tra i due paesi finora.
Maria Grazia Stefanelli