Sono ormai passati vent’anni da quando, il 19 marzo 2003, l’amministrazione statunitense guidata da George W. Bush diede il via all’operazione Iraqi Freedom, l’invasione dell’Iraq. Questo conflitto rappresenta un punto di svolta fondamentale nell’evoluzione delle relazioni internazionali nell’era post-Guerra fredda, e ha avuto conseguenze di rilievo per gli equilibri geopolitici del Medio Oriente e del Mediterraneo. Si può in effetti sostenere che molte delle dinamiche politiche, strategiche e sociali che attualmente caratterizzano lo scacchiere mediterraneo e mediorientale siano, più o meno direttamente, delle conseguenze della guerra in Iraq.
L’analisi delle cause del conflitto è stata oggetto di numerosi studi, memorie e indagini giornalistiche, ma nell’ottica di una breve sintesi si possono comunque individuare alcuni fattori-chiave. In primo luogo si può citare il “momento unipolare” sancito dalla crisi del Golfo del 1991, ossia il fatto che, a seguito della fine della Guerra fredda, gli Stati Uniti si siano trovati, almeno temporaneamente, in una situazione di netta predominanza per quanto riguarda tutti i parametri che definiscono una grande potenza a livello internazionale. Nonostante questa situazione, tuttavia, molte delle crisi che, nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, hanno portato a un intervento militare americano, come la già citata Guerra del Golfo, la crisi umanitaria in Somalia del 1992-1994 o la crisi del Kosovo del 1998-1999, hanno lasciato un senso di profonda frustrazione tra i leader statunitensi. Questa dinamica ha generato un crescente distacco fra Washington da una parte e le capitali alleate e le istituzioni internazionali dall’altra, aprendo le porte a una svolta unilateralista nella politica estera americana incarnata in pieno dall’amministrazione Bush. A tutto ciò va naturalmente aggiunto lo shock dei tragici attentati dell’11 settembre 2001, che hanno spinto gli Stati Uniti a intraprendere una “guerra globale contro il terrore” di cui, agli occhi di Bush e dei suoi consiglieri, l’Iraq rappresentava un tassello fondamentale.
Tra gli obiettivi dichiarati della guerra in Iraq, il più noto era quello di trovare ed eliminare le “armi di distruzione di massa” che il regime di Saddam Hussein era sospettato di possedere o sviluppare segretamente. Allo stesso tempo, l’amministrazione Bush aveva dichiarato la sua determinazione a smantellare le potenziali connessioni tra il governo iracheno e gruppi terroristici come al-Qaeda. Come è ormai ben noto, le informazioni relative alle armi di distruzione di massa e ai rapporti tra al-Qaeda e il regime di Saddam – già poco convincenti all’epoca, ma ripetute costantemente sia dai membri dell’amministrazione Bush che dai principali media americani – si sono rivelate del tutto infondate a seguito dell’invasione. Un ulteriore obiettivo invocato da Bush e dai suoi consiglieri era quello di rovesciare il regime di Saddam Hussein, al fine di favorire la democratizzazione dell’Iraq e innescare un processo a catena che avrebbe dovuto “esportare la democrazia” in tutto il “grande Medio Oriente”. Anche in questo caso, è difficile non riconoscere che la guerra lanciata dall’amministrazione Bush, peraltro senza il consenso delle Nazioni unite, non abbia minimamente raggiunto il suo obiettivo. Nonostante il rapido successo iniziale e il rovesciamento del regime di Saddam, l’intervento militare in Iraq fu caratterizzato da una gestione totalmente inadeguata della fase successiva alla caduta del regime, con decisioni drastiche come lo scioglimento delle forze armate e dell’apparato amministrativo del paese e un tentativo di riformare l’economia in base a principi neoliberisti, come la deregolamentazione, il tentativo di privatizzazione del settore petrolifero e l’istituzione di una flat tax. Come ben noto, l’effetto cumulativo di queste scelte radicali e insensibili alla realtà locale fu quello di generare enorme tensione sul piano socio-economico e favorire l’emergere di una sanguinosa guerra civile, rendendo l’Iraq un terreno fertile per proprio per la proliferazione di organizzazioni terroristiche internazionali come al-Qaeda.
Gli obiettivi e le giustificazioni alla base dell’operazione Iraqi Freedom avevano generato forti controversie e diviso la società americana e la comunità internazionale già nei mesi precedenti all’inizio della guerra. Con il senno di poi appare ancora più chiaro che la visione e le informazioni diffuse dall’amministrazione Bush furono del tutto inadeguate. Allo stesso tempo, si può osservare che la pianificazione politica e strategica dell’operazione fu influenzata più dall’ideologia e da una sorta di hỳbris che da una realistica valutazione della situazione irachena e delle potenzialità della pur eccellente macchina militare americana. Le conseguenze di queste decisioni sono state drammatiche per gli Stati Uniti, il Medio Oriente, e gli equilibri mondiali più in generale.
I costi – sia economici che in termini di vite umane – della guerra sono impressionanti. Secondo le stime del Costs of War Project della Brown University, le spese totali legate alle operazioni militari in Iraq e alle ramificazioni di tali operazioni in Siria ammontano a quasi 1.800 miliardi di dollari, ma se si aggiungono le stime relative ai costi futuri per la cura dei veterani, si raggiunge una cifra di quasi 3.000 miliardi di dollari. Solo in Iraq, la guerra è costata la vita a 4.599 soldati americani e a 3.650 persone al servizio di società private di sicurezza, mentre se si aggiungono le vittime irachene si arriva alla cifra di circa 280.000 morti.
A vent’anni dal rovesciamento del regime di Saddam Hussein, e dodici anni dopo il ritiro ufficiale delle forze americane dal paese, l’Iraq resta purtroppo in condizioni di estrema instabilità politica e, nonostante la ricchezza in termini di risorse energetiche, la maggioranza degli iracheni si trova in condizioni economiche di estrema difficoltà. Il paese soffre di uno dei livelli di corruzione più alti al mondo ed è afflitto da una dinamica di violenza e violazioni dei diritti umani anche da parte di autorità governative, una tensione etnica e settaria persino maggiore rispetto all’era della dittatura di Saddam, nonché da una persistente minaccia terroristica. Tra il 2014 e il 2017, l’Iraq e la Siria (precipitata nella guerra civile a partire dal 2011) sono stati il teatro principale dell’ascesa dell’Isis (anche noto come Stato islamico o Daesh). Questa minaccia ha di fatto costretto gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali e mediorientali a organizzare un nuovo intervento militare che ha interessato entrambi i paesi (attualmente ci sono ancora circa 2.500 soldati americani sul territorio iracheno) e ha dato anche alla Russia la possibilità di sviluppare una testa di ponte nel Mediterraneo orientale, intervenendo militarmente in Siria a sostegno del brutale regime di Bashar al-Assad – un’opportunità sfruttata cinicamente anche dall’Iran. L’invasione e la successiva occupazione dell’Iraq hanno inoltre sottratto risorse preziosissime per la gestione, già di per sé difficile, dell’intervento americano e internazionale in Afghanistan, contribuendo a rendere irrisolvibili le problematiche che hanno indotto al tragico ritiro degli USA e della comunità internazionale nell’agosto 2021.
Paradossalmente, come già accennato, il rovesciamento del regime di Saddam ha favorito l’Iran, uno dei principali competitor degli Stati Uniti in Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale. Il tiranno iracheno era infatti un nemico del regime di Teheran. Per di più, il sistema di potere di Saddam era dominato politicamente dai suoi alleati sunniti, mentre il cambio di regime ha implicato una maggiore partecipazione della maggioranza sciita del paese, generando una preziosa opportunità per i leader iraniani di esercitare maggiore influenza nei confronti di un vicino di primaria importanza regionale con cui erano stati in guerra per otto anni, dal 1980 al 1988. Questi sviluppi geopolitici favorevoli, uniti alla percezione di una maggiore minaccia da parte di Washington – insieme all’Iraq e alla Corea del Nord, l’Iran era infatti uno dei componenti dell’“asse del Male” delineato da Bush prima dell’invasione dell’Iraq – costituiscono purtroppo dei notevoli incentivi per il programma nucleare iraniano.
L’unilateralismo, il mancato sostegno all’intervento militare da parte delle Nazioni unite, la prolungata occupazione del paese e scandali come quello di Abu Ghraib hanno severamente minato la legittimità della leadership mondiale degli Stati Uniti, generando anti-americanismo nell’opinione pubblica del mondo arabo e musulmano, portando ai minimi le relazioni tra gli USA e i loro storici alleati europei come la Francia e la Germania, e contribuendo ad alienare la Russia e a facilitare la svolta repressiva e aggressiva del regime di Vladimir Putin. L’invasione americana dell’Iraq del 2003 presenta purtroppo molte analogie con l’invasione russa dell’Ucraina dello scorso anno, e Putin e i suoi consiglieri non hanno esitato a utilizzare in maniera più o meno esplicita la controversa retorica utilizzata vent’anni fa dall’amministrazione Bush.
Riflettere su un evento come la guerra in Iraq ci porta inevitabilmente a cercare di capire quali lezioni trarre da questa esperienza così traumatica e significativa. Una prima constatazione sembra essere la consapevolezza che il potere ha sempre dei limiti. Come osservato ancor prima della guerra da Joseph Nye, anche la più grande potenza mondiale ha bisogno di legittimità per esercitare la propria leadership globale e tutelare i propri interessi nazionali. Questa importante lezione ci può far riflettere sul fatto che, sebbene il Medio Oriente abbia effettivamente bisogno di maggiore democrazia, l’uso della forza militare non è uno strumento adeguato a perseguire tale scopo, e in assenza di una valida legittimazione e di una seria strategia di sviluppo di lungo periodo, può rivelarsi anche controproducente. La drammatica esperienza dell’occupazione americana dell’Iraq può dare anche importanti indicazioni per quanto riguarda la sfida di sicurezza rappresentata dal programma nucleare iraniano. Nonostante la sempre più evidente regressione repressiva e autocratica del regime di Teheran, l’idea di un intervento militare volto a rovesciare la “Repubblica islamica” potrebbe chiaramente degenerare in una catastrofe analoga a quella vissuta dall’Iraq a partire dal 2003. L’Iran è fra l’altro molto più grande dell’Iraq sia in termini di superficie che di popolazione, ed è caratterizzato da un terreno molto più difficile da controllare militarmente. Riflettere sull’esperienza irachena aiuta insomma a comprendere che, come osservato recentemente anche dal segretario alla Difesa americano Lloyd Austin, la strada del negoziato e dell’approccio multilaterale, per quanto difficile e frustrante, risulta comunque l’opzione più ragionevole per evitare che il regime di Teheran si doti di un arsenale atomico.
La natura traumatica e le conseguenze tragiche della guerra in Iraq possono tuttavia indurre anche a conclusioni fuorvianti, disfattiste, o strumentalizzabili per fini poco nobili, ed è bene riflettere anche su questo tipo di considerazioni per evitare di sommare ulteriori risultati negativi a quelli analizzati in queste righe. Il fallimento dell’esperimento politico ed economico tentato dall’amministrazione Bush in Iraq non significa che la democrazia in Medio Oriente o nel mondo arabo non sia possibile. Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno sia il dovere morale sia un chiaro interesse nel sostenere pacificamente e con sincerità i movimenti democratici e nel promuovere un modello di sviluppo economico inclusivo in grado di garantire un futuro ai popoli della regione.
Il Medio Oriente e il Mediterraneo rimangono inoltre un’area di fondamentale importanza per gli equilibri mondiali, e una forma di impegno americano – meno militarista e più pragmatico rispetto agli eccessi del 2003 – resta cruciale per garantire la stabilità della regione. Potenze come la Cina e la Russia hanno interessi e ambizioni che vanno tenuti in considerazione, ma nonostante alcuni sviluppi recenti – come la mediazione cinese che ha favorito il ripristino delle relazioni diplomatiche fra Iran e Arabia Saudita – possano dare l’impressione di un nuovo nuovo ordine regionale regolato dall’influenza esterna di Pechino o di Mosca, in realtà né la Cina né la Russia hanno le capacità militari, politiche ed economiche per garantire equilibrio e stabilità nella regione.
D’altro canto, gli Stati Uniti rimangono il principale partner politico e militare di praticamente tutti i più importanti attori del Medio Oriente. Anche se non sono in grado di ricostruire la regione secondo le loro preferenze e senza tenere conto delle realtà politiche, sociali ed economiche locali, i leader di Washington hanno comunque la concreta possibilità di influenzare l’evoluzione del Medio Oriente in senso positivo, ottenendo risultati che sono al di fuori della portata di qualsiasi altra potenza. Gli Stati Uniti possono sostenere in maniera discreta e paziente, ma al tempo stesso convinta ed efficace, i movimenti democratici, o fare pressione su governi come quelli dell’Arabia Saudita e degli Stati del Golfo per ridurre le tensioni regionali e porre fine a catastrofi umanitarie come la guerra in Yemen. I leader di Washington possono lavorare al ripristino di un quadro multilaterale per la soluzione della questione del nucleare iraniano, continuare a favorire la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi e al tempo stesso favorire il progresso della risoluzione della questione israelo-palestinese in modo da arrivare al più presto alla realizzazione della soluzione “a due Stati” favorita tanto dagli USA quanto dal resto della comunità internazionale.
La hỳbris che ha caratterizzato la tragedia della guerra in Iraq e ha esposto pesantemente gli USA all’accusa di imperialismo non deve infine inibire una risposta di netta condanna e di contrasto attivo e risoluto da parte di Washington, dell’Occidente, e della comunità internazionale nel suo insieme nei confronti della guerra di aggressione imperialista condotta con metodi criminali dal regime di Putin ai danni dell’Ucraina.
Anche a vent’anni di distanza dal conflitto, il tentativo di valutare il significato, la portata e le conseguenze della guerra in Iraq costituisce uno sforzo intellettuale difficile, potenzialmente divisivo e costantemente influenzato dai valori personali, dall’impatto degli eventi internazionali di attualità, e dalla visione del mondo che si desidera vedere realizzata nel futuro. È proprio per queste ragioni, tuttavia, che è importante continuare a riflettere su questo importante episodio che ha segnato la storia recente, e cercare di trarre lezioni per garantire un futuro di pace, stabilità, prosperità e rispetto per la dignità umana in Medio Oriente – e nel resto del mondo.
Diego Pagliarulo