Il 29 maggio scorso dozzine di manifestanti e di caschi blu dell’operazione di peacekeeping Kosovo Force (Kfor) della Nato sono rimaste ferite nel nord del Kosovo mentre la popolazione serba locale protestava contro l’insediamento di sindaci di etnia albanese in alcuni comuni a maggioranza serba, riaccendendo la miccia di una crisi mai spenta. Le violenze erano cominciate già venerdì 26 maggio quando le forze di polizia kosovare erano entrate nelle sedi municipali dei comuni di Leposavić, Zvečan e Zubin Potok, per garantire il pacifico insediamento dei sindaci neoeletti di etnia albanese.
Il voto per l’elezione dei sindaci si era tenuto lo scorso 23 aprile ed era stato boicottato dalla popolazione serba, risultando in un’affluenza pari al 3,4%. Il principale partito politico nel Kosovo settentrionale espressione della popolazione serba, Srpska Lista (“Lista Serba”), aveva infatti invitato la comunità serba ad astenersi dal voto. L’invito al boicottaggio risultava in linea con la richiesta della Serbia e dei serbo-kosovari di creazione di un’Associazione di Comuni serbi del Kosovo, in armonia con il decennale Accordo di Bruxelles mediato dall’Unione europea tra Belgrado e Pristina, prima di prendere parte al voto. Né Belgrado né i serbi locali hanno riconosciuto i neoeletti sindaci, legittimati da una minoranza considerata insignificante. D’altronde, le elezioni erano state indette dalla presidente kosovara Vjosa Osmani dopo che lo scorso novembre, a causa soprattutto della nota crisi delle targhe automobilistiche, si erano dimessi in massa tutti i funzionari pubblici di etnia serba.
Nella giornata di lunedì 29 maggio, 34 militari del contingente Kfor – di cui 14 del contingente italiano appartenenti al nono reggimento Alpini l’Aquila ed altri di nazionalità ungherese e moldava – sono rimasti feriti attraverso il lancio di bombe molotov riempite con chiodi e sassi durante il contenimento dei manifestanti nelle proteste avvenute nel comune di Zvečan, epicentro degli scontri più violenti. Le unità della Kfor erano state schierate nelle quattro municipalità di Kosovska Mitrovica (o Mitrovica Nord), Zvečan, Zubin Potok e Leposavić proprio per contenere le violente manifestazioni post-elettorali. Il governo italiano ha immediatamente manifestato la sua preoccupazione, con il Ministro degli Esteri Antonio Tajani che ha telefonato al Presidente serbo Aleksandar Vučić e al Primo Ministro kosovaro Albin Kurti ribadendo che ogni violenza e provocazione dovevano cessare immediatamente, che Kosovo e Serbia dovevano dare piena attuazione agli accordi internazionali sottoscritti grazie alla facilitazione dell’Unione europea e che l’Italia voleva contribuire a raggiungere in tempi molto brevi una soluzione sostenibile nel Kosovo del Nord. Inoltre, in linea con gli altri partner europei e con gli Stati Uniti, Tajani ha sottolineato l’assoluta necessità che le autorità politiche kosovare si astenessero da ogni imprudente azione unilaterale che potesse presentarsi come una provocazione e compromettere la sicurezza del Paese, offrendo peraltro i buoni uffici italiani per la risoluzione della crisi e facilitare il dialogo tra Pristina e Belgrado.
La crisi dei comuni nord-kosovari va inquadrata nella più ampia problematica relativa al riconoscimento del Kosovo. Sin dall’autoproclamata ed unilaterale dichiarazione d’indipendenza dalla Serbia nel 2008, il Kosovo non è mai stato riconosciuto dal governo di Belgrado, che lo ha ritenenuto una propria suddivisione amministrativa dal nome di Provincia Autonoma di Kosovo e Metochia (Autonomna Pokrajina Kosovo i Metohija). Al contempo, la comunità internazionale si è divisa in due campi, con alcuni Paesi che riconoscevano l’indipendenza del Kosovo ed altri che la negavano: tra questi ultimi, in particolare, i Paesi Brics (Russia, Cina, India, Brasile e Sud Africa) e – in seno all’Ue – Spagna, Romania, Grecia, Cipro e Slovacchia. Al tempo della proclamazione d’indipendenza non esistevano relazioni tra Belgrado e Pristina; tuttavia, negli anni successivi il dialogo e la cooperazione tra le due parti sono stati incoraggiati soprattutto dall’Ue. I negoziati facilitati dall’Ue hanno portato nel 2013 alla firma all’Accordo di Bruxelles sulla normalizzazione delle relazioni tra i governi del Kosovo e della Serbia. L’accordo impegnava entrambe le parti a non ostacolare l’altra nel processo di adesione all’Ue, regolamentava la disciplina delle elezioni locali e introduceva la proposta dell’Associazione dei Comuni serbi. Da allora, l’Accordo è stato il punto di riferimento per l’implementazione del dialogo tra Serbia e Kosovo ed ha visto una costante e costruttiva evoluzione, sotto la continua supervisione dell’Alto rappresentante dell’Ue.In questo contesto, la popolazione di etnia serba ancora rimasta in Kosovo (circa il 5% della popolazione) non sente di appartenere a un governo che non riconosce, giurando ancora fedeltà a quello di Belgrado e rifiutando l’elezione di sindaci espressione della minoranza albanese nel Kosovo settentrionale.
La questione kosovara ha radici antiche, né è possibile comprendere l’importanza che il Kosovo riveste per i serbi se non si guarda alla storia della regione. Il Kosovo rappresenta per i serbi la culla della propria civiltà, religione e storia. In Kosovo e Metochia, letteralmente “terra dei merli e dei monasteri”, nacque l’identità nazionale serba, fortemente collegata alla variante serbo-slava del cristianesimo ortodosso, che proprio in Kosovo ha avuto l’epicentro. In questo senso, il Kosovo svolge per l’immaginario collettivo serbo lo stesso ruolo che la città di Kiev svolge per i russi, ossia il ruolo di culla della propria civiltà e identità nazionale. Al contempo, il Kosovo ha rappresentato il luogo in cui si è costruita la coscienza storica della Serbia. In particolare, l’evento storico cruciale che ha plasmato l’identità serba è stata la battaglia di Kosovo Polje combattuta tra serbi e ottomani nel 1389, in cui l’esercito serbo venne distrutto e il principe Lazar ucciso e decapitato. La battaglia, combattuta in un luogo che dista circa cinque chilometri da Pristina, ha personificato nella storiografia serba l’evento fondamentale attorno al quale sono stati modellati l’identità, la memoria collettiva e il nazionalismo serbi. Tipicamente, il nazionalismo serbo si basa su un’interpretazione etnica della storia dei Balcani che rende contemporaneo il passato e storicizza il presente attraverso storie, simboli e miti. In questo contesto, Kosovo Polje esemplifica una sorta di “prisma” attraverso il quale i serbi interpretano la storia, i popoli, gli eventi e attraverso il quale viene sollecitata la mobilitazione politica e l’azione nazionalista. Ancora oggi, il ricordo di Kosovo Polje nel discorso nazionalista serbo è volto a provocare sentimenti anti-musulmani ed anti-atlantisti – così accesi nelle enclave serbe nel Kosovo settentrionale – e di portare avanti rivendicazioni irredentiste o revisioniste serbe nei Balcani. Inoltre, il Vidovdan, il giorno specifico in cui avvenne la battaglia – 15 giugno per il calendario giuliano, 28 giugno per quello gregoriano – è diventato una data ricorrente nelle fasi cruciali della storia serba: l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria fu assassinato da Gavrilo Princip per porre fine al dominio austro-ungarico della Bosnia-Erzegovina nel Vidovdan (28 giugno 1914); inoltre, si verificarono nel Vidovdan l’emanazione della Costituzione dello Stato jugoslavo del regno dei Serbi, Croati e Sloveni (1921), l’espulsione della Jugoslavia da parte di Stalin dal blocco orientale (1948), lo scoppio delle guerre jugoslave (1991) e la consegna di Slobodan Milošević alle autorità dell’Aia (2001).
Dopo la battaglia, la chiesa e il clero hanno coltivato la memoria collettiva serba attraverso sermoni, insegnamenti e santificazione del principe Lazar, considerato come un martire che nella raffigurazione iconografica regge la propria testa mozzata. D’altronde, dal 1346 al 1766 la sede del patriarcato della Chiesa ortodossa serba ebbe la propria sede in Kosovo. Infine, il mito di Kosovo Polje ha svolto un ruolo speciale negli anni Novanta del secolo scorso durante la disgregazione della Jugoslavia, venendo abbondantemente sfruttato dai serbi per scopi politici in chiave anti-bosniaca, anti-albanese e, in misura minore, anti-croata. Nel Vidovdan del 1989, Milošević tenne un celebre discorso al Gazimestan – il luogo commemorativo della battaglia di Kosovo Polje – in cui non escluse la possibilità dell’utilizzo della forza per il futuro dello sviluppo nazionale della Serbia. Il generale serbo-bosniaco Ratko Mladić – tra i principali responsabili dell’assedio di Sarajevo e del massacro di Srebrenica – si identificò nel principe Lazar e paragonò i serbo-bosniaci ai serbi che combatterono nel 1389. Sia Radovan Karadžić che Mladić consideravano la guerra in Bosnia come il momento della vendetta contro i “turchi”. Le operazioni militari da essi condotte contro i bosniaci musulmani seguivano direttamente una narrazione di vendetta e rappresaglia nel contesto emotivo del mito metastorico di Kosovo Polje. Da questo punto di vista, la guerra in Bosnia per costruire la Grande Serbia non fu una guerra civile comune ma rappresentò la resa dei conti finale per vendicare il 1389. Allo stesso modo, la guerra in Kosovo venne concepita dalla leadership serba come una rievocazione della battaglia, in cui una minoranza di serbi cristiani si stava confrontando contro le innumerevoli schiere di albanesi musulmani, proprio come aveva fatto in passato contro i turchi – anche se, per paradosso, nella battaglia di Kosovo Polje gli albanesi avevano combattuto insieme ai serbi contro i turchi.
Ancora oggi dietro agli scontri tra manifestanti serbi e polizia kosovara nei comuni del Kosovo del Nord si intravede l’ombra della battaglia di Kosovo Polje. Le frange più nazionaliste e “cetniche” dei serbo-kosovari credono tuttora che il Kosovo rappresenti la terra sacra da difendere dagli invasori: ieri i turchi ottomani, oggi gli albanesi sostenuti dall’Occidente atlantista. Ecco perché gli scontri interetnici in atto nel Kosovo settentrionale vanno monitorati con la massima attenzione, in quanto possono rappresentare molto più che un semplice contrasto di natura amministrativa, celando invece lo spettro dello scontro di civiltà.
Paolo Pizzolo
[…] Secondo Pristina, dietro al rapimento degli agenti da parte dell’esercito serbo si celerebbe una vendetta per l’arresto avvenuto il giorno precedente a Mitrovica Nord di Milun Milenković Lune, leader di un gruppo politico che si definisce Protezione civile nonché noto gangster locale, in quanto sospettato di aver organizzato l’attacco alle forze della Kfor il 29 maggio. L’aggressione, come noto, ha visto più di 30 soldati della Kfor feriti, insieme a polizia e giornalisti. […]