Lo scorso 3 gennaio, in un raid aereo effettuato con un drone, gli Stati Uniti hanno ucciso nei pressi dell’aeroporto di Baghdad il generale iraniano Qassem Soleimani. La semplice notizia di un comandante militare iraniano ucciso in Iraq da un drone americano trasmette con efficacia quanto sia grave e delicata la situazione in Medio Oriente, e quanto pericolose e imprevedibili siano le ramificazioni della crisi per tutta la regione che si estende dal Golfo persico alla sponda sud del Mediterraneo. L’azione ha provocato scompiglio anche nei mercati finanziari internazionali. Le borse hanno chiuso in ribasso, ma le azioni dei principali conglomerati americani del settore della difesa hanno visto un consistente rialzo. A seguito del raid si è assistito anche a un’impennata del prezzo del petrolio sui mercati mondiali.
Soleimani era un personaggio di alto rilievo politico e militare nel quadro del regime di Teheran – l’abile comandante della Forza Quds, un’unità speciale del Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica – anche noti come Guardiani della rivoluzione o Pasdaran – impiegata soprattutto in operazioni clandestine e classificata dagli USA come organizzazione terroristica. Il generale era noto per la sua grande capacità di coordinare le varie milizie e organizzazioni paramilitari – prevalentemente sciite, come Hezbollah e Kata’ib Hezbollah – legate all’Iran e attive nel Medio Oriente, in paesi come il Libano, la Siria, l’Iraq e lo Yemen. Soleimani era insomma lo stratega che rendeva operativa la strategia di guerra per procura che vede attualmente impegnato l’Iran contro i suoi avversari, fra cui l’Arabia saudita, Israele, e gli Stati Uniti guidati da Donald Trump. Washington ha affermato che il raid – avvenuto a seguito di attentati e disordini in Iraq – è stato dettato dalla necessità di prevenire attentati terroristici “imminenti” ed evitare rischi per i cittadini americani nella regione.
I leader di Teheran hanno naturalmente promesso di vendicare al più presto la morte del generale Soleimani, e proprio questa notte le forze iraniane hanno lanciato un attacco missilistico contro basi irachene che ospitano truppe americane, una rappresaglia che tuttavia non sembra aver provocato vittime fra i soldati statunitensi. L’attacco americano è stato condannato dai governi russo e iracheno, e anche molti esponenti del Partito democratico statunitense hanno espresso la loro profonda opposizione, sottolineando come un’operazione militare dalle conseguenze potenzialmente molto rischiose sia stata presa in maniera avventata e senza consultare il Congresso, e manifestando il sospetto che l’azione sia stata intrapresa da Trump per distrarre il pubblico dalla procedura di impeachment in cui è implicato e aumentare così le sue possibilità di essere rieletto nelle presidenziali di quest’anno – uno scenario alla Wag the Dog che in realtà è reso più plausibile da dichiarazioni pubbliche fatte via twitter in passato dallo stesso Trump.
I rischi di una rappresaglia iraniana sono concreti, ma potrebbero essere minori di quanto le dichiarazioni degli ultimi giorni suggeriscono. A ben vedere, per l’Iran la strategia più razionale sarebbe fare marcia indietro, adottare un atteggiamento più conciliante e cercare il più possibile un compromesso con gli USA. Il regime di Teheran ha delle risorse militari significative e una rete di proxies in punti chiave del Medio Oriente e del Mediterraneo, ed è in grado di minacciare o colpire gli USA e i loro alleati con attacchi – convenzionali e soprattutto non convenzionali, come attentati terroristici o forme di cyber warfare – in grado di creare danni e vittime consistenti. Si può ricordare a tal proposito l’attacco avvenuto lo scorso settembre contro un’infrastruttura petrolifera saudita. Come già sottolineato, l’Iran è impegnato da tempo in un conflitto per procura e sta già utilizzando queste risorse per contrastare i suoi avversari, inclusi gli Stati Uniti. Tuttavia, come dovrebbe essere chiaro non solo agli ayatollah ma a qualsiasi osservatore informato, il rapporto di forza fra Teheran e i suoi partner da una parte e Washington e i suoi alleati dall’altra è totalmente sbilanciato in favore dei secondi. Se il regime di Teheran decidesse davvero di imbarcarsi in un’escalation dovrebbe farlo con la consapevolezza di andare potenzialmente incontro alla sua stessa distruzione, un risultato che forse fa gola agli stessi falchi di Washington e di altre capitali alleate. Ovviamente questo calcolo razionale potrebbe essere distorto nel caso in cui i leader di Teheran percepissero una concreta minaccia esistenziale da parte degli Stati Uniti. In una situazione così disperata crescerebbero esponenzialmente i rischi di una reazione iraniana incontrollata.
L’uccisione di Soleimani non ha inoltre determinato la fine della Forza Quds e non ha distrutto la rete di gruppi paramilitari a disposizione di Teheran. È tuttavia opportuno notare un risvolto piuttosto pericoloso della scelta di Washington di “decapitare” l’organizzazione: privati di un coordinatore autorevole e competente, i vari gruppi paramilitari alle dipendenze di Teheran potrebbero diventare meno controllabili, e quindi più imprevedibili e violenti. Tutto ciò potrebbe creare maggiore instabilità in aree come il Libano – dove l’Italia è presente dal 2006 nel quadro della missione di pace UNIFIL attualmente guidata dal generale Stefano Del Col – la Siria e l’Iraq. È da notare che a pochi giorni dal raid del 3 gennaio la Nato ha deciso di sospendere una missione di addestramento in Iraq.
Il futuro della crisi è in realtà saldamente nelle mani di Washington. Con il raid del 3 gennaio l’amministrazione Trump ha dimostrato in modo esplicito e brutale qualcosa che chi si interessa davvero di relazioni internazionali già dovrebbe sapere: gli Stati Uniti sono e rimangono una potenza globale senza rivali, e se vogliono possono colpire i loro avversari nei luoghi e nei modi che ritengono più convenienti – come già osservava Tucidide più di duemila anni fa, i potenti fanno ciò che possono, i loro avversari soffrono quello che devono. Contrariamente all’Iran, gli Stati Uniti hanno le risorse militari e politiche per sostenere un’escalation, e persino una guerra aperta. Tuttavia non sembra chiaro quale sia il vantaggio che i leader di Washington potrebbero sperare di trarre da questa strategia. Le tensioni fra Teheran e Washington durano oramai da decenni, almeno dal 1979 (anno della crisi degli ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran) se non dal 1953, anno del golpe che portò alla deposizione del governo presieduto da Mohammed Mossadegh, orchestrato anche con il contributo determinante dei servizi americani. Tuttavia, durante l’amministrazione di Barack Obama la tensione fra i due paesi era stata fortemente ridotta, soprattutto grazie alla firma nel 2015 di un accordo che aveva assicurato, per almeno un decennio, lo sviluppo pacifico del programma nucleare iraniano. Fino a poco tempo fa dunque Teheran e Washington rimanevano avversari, ma la relazione si era stabilizzata. La scelta dell’amministrazione Trump di abbandonare l’accordo sul nucleare del 2018 e adottare una strategia di “massima pressione” nei confronti del regime di Teheran ha frantumato questa tenue cornice di stabilità, ma non è chiaro quale sia l’obiettivo strategico perseguito dalla Casa Bianca. Se l’obiettivo di Trump è la firma di un nuovo accordo più vantaggioso per gli Stati Uniti e i loro alleati, la strategia non sembra funzionare. Anche l’Iran sembra intenzionato ad abbandonare l’accordo, e il rischio che il regime degli ayatollah riprenda un programma nucleare con scopi militari sembra ora molto più concreto. Trump ha aspramente criticato gli interventi militari dei suoi predecessori in Medio Oriente, e a volte ha dimostrato una determinazione a evitare nuovi impegni militari su vasta scala ben superiore a quanto la sua retorica sembra suggerire. Tuttavia molti esponenti di spicco del movimento conservatore statunitense, e anche molti consiglieri di Trump, sembrano in realtà molto inclini a forme di intervento militare diretto contro l’Iran. In caso di guerra tra Stati Uniti e Iran, è molto difficile immaginare un conflitto limitato. Lo scenario più plausibile sarebbe in questo caso un intervento militare statunitense con lo scopo di rovesciare l’attuale regime di Teheran ed installarne uno più favorevole agli interessi di Washington e dei suoi alleati regionali. L’esperienza della guerra in Iraq del 2003 dovrebbe tuttavia aver insegnato ai leader americani che una strategia di “cambio di regime” non assicura in nessun modo un nuovo e più favorevole equilibrio, ma piuttosto una situazione totalmente caotica e dagli esiti potenzialmente tragici e controproducenti.
Nessuno sembra insomma avere interesse in una guerra, tuttavia l’escalation di questi giorni fa percepire un rischio piuttosto alto di un incidente fatale che – come accaduto ad esempio nel giugno 1914 – faccia precipitare gli avversari in un conflitto inutile che avrebbe conseguenze tragiche per tutti gli attori coinvolti e soprattutto per le popolazioni della regione.
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