La guerra tra Israele e Hamas va ormai avanti da più di sei mesi. Oltre ai seri rischi geopolitici che questo conflitto potrebbe implicare per il Medio Oriente e gli equilibri internazionali più in generale, le conseguenze sul piano umanitario sono chiaramente catastrofiche. Secondo le ultime stime riportate dall’Organizzazione mondiale della sanità, le vittime del conflitto sono circa 33.000 – il 72% delle quali sarebbero donne e bambini – mentre il governo israeliano stima di aver ucciso 13.000 terroristi appartenenti ad Hamas e altri gruppi operanti nella Striscia di Gaza. Circa 1.700.000 abitanti della Striscia di Gaza – il 75% della popolazione – sono stati costretti a lasciare le proprie abitazioni. La guerra ha causato anche la distruzione di centinaia di migliaia di edifici, soprattutto nel nord del territorio della Striscia – tra cui figurano in maniera predominante strutture civili come scuole e ospedali, con conseguenze disastrose per la popolazione civile, come l’aumento esponenziale delle malattie e della malnutrizione. A questi numeri si aggiungono le 1.200 vittime degli attentati terroristici di Hamas del 7 ottobre 2023 – l’atto di aggressione che ha causato la guerra – e 247 soldati israeliani uccisi durante le operazioni militari nella Striscia di Gaza, più di 100 ostaggi israeliani ancora nelle mani dei terroristi di Hamas e più di 120.000 cittadini israeliani che hanno dovuto abbandonare le loro case nel sud e nel nord del paese per ragioni di sicurezza. La guerra sta avendo conseguenze molto significative anche sul piano della politica interna israeliana e sulle relazioni tra Israele e la comunità internazionale, esasperando alcune tendenze controverse che si erano manifestate già prima del conflitto e creando nuove tensioni che stanno portando a un maggiore isolamento del paese a livello internazionale.
L’attuale esecutivo israeliano – guidato da Benjamin Netanyahu – è emerso dalle elezioni che hanno avuto luogo nel novembre 2022 ed ha subito alcune modifiche a seguito dello scoppio della guerra. Nella sua configurazione originale, la coalizione di governo era stata descritta come la compagine governativa più a destra nella storia di Israele, per via del fatto che la maggioranza dei seggi nel Parlamento (la Knesset), 64 su 120, era stata ottenuta dal partito Likud di Netanyahu grazie a un accordo con delle formazioni di destra nazionalista e religiosa. Nei mesi precedenti alla guerra, questo nuovo esecutivo si era distinto per una serie di iniziative controverse e divisive. Tra queste si possono citare un atteggiamento fortemente permissivo nei confronti degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, nei territori su cui dovrebbe sorgere lo Stato palestinese – insediamenti non compatibili con il diritto internazionale e con il processo di pace israelo-palestinese – e una lunga serie di dichiarazioni marcatamente omofobe e anti-arabe da parte di alcuni esponenti di spicco del governo come il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. L’iniziativa più controversa intrapresa dal governo Netanyahu prima degli attentati del 7 ottobre è stata il progetto di riforma della giustizia, approvato nel luglio 2023 ma poi annullato in alcuni punti fondamentali dalla Corte suprema del paese all’inizio del 2024. Questa riforma, che renderebbe il potere giudiziario in generale e la Corte suprema in particolare più dipendenti dal potere politico, ha destato forti preoccupazioni, spingendo migliaia di cittadini israeliani a scendere nelle piazze per manifestare il proprio dissenso, e generando un fenomeno che si era ripetuto con cadenza settimanale fino al giorno degli attentati.
Il 7 ottobre 2023 Israele ha subito il maggior numero di perdite in un solo giorno della sua storia, e questo shock ha fatto crollare la fiducia dell’opinione pubblica in Netanyahu, che aveva fatto della sicurezza uno dei punti centrali della sua narrazione politica. La drastica perdita di popolarità del governo è stata tuttavia compensata in sede parlamentare dall’allargamento della maggioranza, che ha portato all’ingresso nella compagine governativa del partito centrista Kahol Lavan e del suo leader Benny Gantz, un comandante militare in congedo. Lo sforzo militare – che come già notato si protrae ormai da sei mesi – ha in ogni caso comportato costi economici e sociali molto alti, causando una contrazione di circa il 20% nell’economia israeliana e una forte carenza di forza lavoro per via della mobilitazione di 360.000 riservisti e della revoca del permesso di lavorare in Israele accordato a molti palestinesi. Nel quadro di un conflitto che non sembra avere una chiara via di uscita, questi costi hanno tenuto vivo il sentimento di insoddisfazione nei confronti di Netanyahu e del suo governo, che nelle ultime settimane ha iniziato a diventare sempre più evidente.
Lo scorso 31 marzo, migliaia di cittadini israeliani sono scesi di nuovo in piazza per protestare contro il governo, esprimere solidarietà per le famiglie degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas e invocare le dimissioni di Netanyahu – che si trovava tra l’altro in ospedale per un intervento chirurgico – e sono tornati a protestare anche il 7 aprile, la data che ha marcato il sesto mese del conflitto. Netanyahu si trova inoltre a fronteggiare un’importante crisi interna alla sua coalizione di governo, precipitata in parte proprio dalle difficoltà create dalla guerra. La massiccia mobilitazione sta infatti incidendo anche sugli equilibri politici e sociali israeliani. In questa situazione, il rinnovo di una controversa norma che fin dalla creazione di Israele esenta i cittadini ebrei ultra-ortodossi – gli Haredim, che oggi rappresentano circa il 12% della popolazione – dal servizio militare appare agli occhi di molti sempre meno giustificata. Il governo ha recentemente proposto di estendere la durata del servizio militare e di introdurre forme di coscrizione anche per gli Haredim, ma questo provvedimento ha generato forti proteste da parte della comunità Haredi e per vari motivi ha incontrato l’opposizione di numerosi esponenti dell’attuale coalizione. I leader dei partiti di destra religiosa si oppongono infatti alla coscrizione per gli Haredim, mentre Gantz e il ministro della difesa Yoav Gallant – del Likud – si sono opposti all’estensione della durata del servizio militare per tutti gli altri cittadini israeliani.
Nonostante la decisione di entrare a far parte del governo a seguito dello scoppio della guerra, Benny Gantz si sta in effetti affermando come un serio contendente di Netanyahu. Lo scorso marzo, il leader di Kahol Lavan ha effettuato – senza il consenso ufficiale del governo Netanyahu – un viaggio negli Stati Uniti durante il quale ha incontrato la vice-presidente Kamala Harris, il segretario di Stato Antony Blinken e il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan. Gantz ha inoltre fatto tappa a Londra, dove ha incontrato il segretario agli Affari esteri David Cameron, e all’inizio di aprile si è unito al coro delle proteste in Israele, invocando delle elezioni anticipate per il prossimo settembre.
L’accoglienza ricevuta da Gantz a Washington e Londra evidenzia chiaramente il fatto che Netanyahu e la sua coalizione si stanno isolando sempre dal resto della comunità internazionale, e questa tendenza sta avendo ripercussioni serie anche sulla relazione fra Israele e gli Stati Uniti. Gli efferati attentati del 7 ottobre hanno generato un forte sostegno nei confronti di Israele, soprattutto da parte degli Stati Uniti e degli altri paesi occidentali. Tuttavia, fin dall’inizio della crisi, l’amministrazione Biden ha esortato Israele ad adottare una risposta compatibile con il diritto internazionale umanitario e tale da non compromettere il cammino verso la realizzazione della soluzione “a due Stati” (Israele e uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza) che a partire dagli accordi di Oslo del 1993 rappresenta l’obiettivo della comunità internazionale a riguardo della risoluzione della questione israelo-palestinese. Il governo Netanyahu non ha preso in considerazione queste importanti raccomandazioni, ed ha adottato invece una serie di contromisure militari dal carattere indiscriminato, che come già notato hanno causato decine di migliaia di vittime civili e altissimi livelli di distruzione materiale. Netanyahu ha recentemente annunciato l’intenzione di procedere con un’estensione delle operazioni anche nella città di Rafah – un centro urbano al confine con l’Egitto in cui al momento è concentrato un milione di rifugiati, in un contesto già estremamente grave dal punto di vista umanitario. Si può ritenere che questa controversa strategia militare sia stata in parte dettata dall’obiettivo di ristabilire una dinamica di deterrenza che era stata compromessa dagli attentati terroristici di Hamas. Allo stesso tempo appare chiaro che, oltre alle già citate considerazioni di carattere umanitario, questo approccio non risulta efficace nel quadro di azioni contro organizzazioni terroristiche come Hamas. Un obiettivo fondamentale delle campagne di controterrorismo è infatti quello di proteggere la popolazione civile in modo da isolare i terroristi e privare di legittimità la loro causa. Eventi come l’uccisione di 7 operatori umanitari facenti parte dell’organizzazione non governativa World Central Kitchen lo scorso primo aprile non fanno altro che evidenziare il prezzo immane in termini di vite innocenti che il conflitto sta esigendo e gli effetti controproducenti della strategia adottata dal governo Netanyahu. A queste politiche si sono anche accompagnate azioni che rischiano di espandere il conflitto su scala regionale, come una serie di operazioni militari in Siria, tra cui si ritiene di dover contare anche l’attacco contro il consolato iraniano di Damasco avvenuto lo scorso primo aprile, che ha portato all’uccisione di 7 alti ufficiali militari iraniani, tra cui due generali.
Questa strategia ha significativamente isolato Netanyahu e il suo governo anche sul piano internazionale, creando forte tensione persino con gli Stati Uniti e l’amministrazione Biden. Gli USA sono il principale fornitore di armi e assistenza militare di Israele, e questo sostegno rimane ancora un elemento portante della politica di Washington nei confronti della crisi. Tuttavia, come già notato, Netanyahu e il suo governo non hanno prestato ascolto alle pur serie e utili raccomandazioni di Washington, e allo stesso tempo le vittime e i danni provocati dalla campagna di Netanyahu stanno facendo crollare il sostegno a Israele anche nell’opinione pubblica americana. Questa tendenza è particolarmente pronunciata tra gli elettori democratici e indipendenti, e sta dunque fortemente penalizzando la percezione generale dell’operato di Biden in vista delle elezioni presidenziali del prossimo novembre. Questi dati, uniti alle sempre più frequenti richieste di un cambio di passo anche da parte di esponenti democratici nel Congresso, aiutano a capire come mai l’amministrazione Biden si sia impegnata nella fornitura di aiuti umanitari in favore della popolazione della Striscia di Gaza e, lo scorso 25 marzo, gli USA abbiano permesso – nonostante la contrarietà del governo israeliano – l’approvazione di una risoluzione da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite che invoca un cessate-il-fuoco nella guerra tra Israele e Hamas. Negli ultimi giorni il tono del presidente americano e di molti altri esponenti dell’amministrazione è divenuto inoltre sempre più critico nei confronti di Netanyahu e della campagna militare israeliana a Gaza. È interessante notare che, sebbene molti esponenti del Partito repubblicano abbiano espresso opinioni in favore di una svolta ancora più brutale nella campagna militare israeliana, Donald Trump – che ormai appare chiaramente destinato ad essere il candidato repubblicano alle presidenziali di novembre – ha recentemente osservato che la guerra non può continuare così, e che è necessario perseguire la pace.
Al momento in cui queste linee vengono scritte, purtroppo non è facile immaginare come e quando sarà possibile trovare una via d’uscita alla tragedia che sta dilaniando la striscia di Gaza e che potrebbe estendersi anche al resto del Medio Oriente. Sembra che la coalizione governativa guidata da Benjamin Netanyahu abbia deciso di puntare tutto su una strategia basata esclusivamente sull’applicazione inflessibile della forza militare, senza tenere in grande considerazione gli aspetti umanitari della crisi, i costi economici, le lezioni della storia a riguardo dei metodi più efficaci per contrastare le minacce terroristiche, la possibilità di utilizzare la politica e i negoziati per arrivare ad uno scenario post-bellico più sostenibile, l’utilità delle alleanze e dell’appoggio da parte della comunità internazionale, e l’importanza dell’unità nazionale. Questo approccio sta isolando sempre di più Netanyahu e il suo governo sia sul piano interno che a livello internazionale, ed è difficile ritenere che questo percorso possa portare ad un futuro di pace e di sicurezza per gli israeliani, per i palestinesi e per il Medio Oriente più in generale. Allo stesso tempo alcuni aspetti della società israeliana che erano evidenti già prima della guerra e che sono stati confermati anche in questo momento di estrema crisi possono dare speranza a chi crede che sia possibile uscire da questa spirale di violenza. È infatti importante notare che nonostante lo shock causato dagli orrendi attentati terroristici di Hamas e l’emergenza associata alla guerra, lo scenario politico israeliano si distingue ancora per una convinta tutela della libertà di stampa e della possibilità di esprimere il dissenso nei confronti dell’attuale politica del governo e del primo ministro, una viva opposizione esiste sia nelle strade che nelle istituzioni democratiche su cui si regge il paese e la società israeliana rimane libera e plurale.
Diego Pagliarulo