Il 20 giugno, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, l’Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino oriente (United nations relief and works agency for Palestine refugees in the Near Est, Unrwa) ha dato la parola a giovani e anziani della Striscia di Gaza, figli di epoche – e di tragedie – differenti, affinché dalla loro voce prendesse forma il racconto di esistenze precarie e perennemente in bilico. Abu Kefah Qadih, 81 anni da Khan Younis, ha conosciuto l’esodo forzato della nakba, quando nel 1948 – durante il primo conflitto arabo-israeliano – circa 700.000 arabi palestinesi furono costretti ad abbandonare le loro case situate nei territori oramai occupati da Israele, e ora constata che 76 anni dopo, la sofferenza che stanno vivendo i suoi nipoti è la stessa che sperimentò lui. Hajjeh Zainab – anche lei una sopravvissuta dei tempi della nakba – è stata invece costretta a un nuovo sfollamento all’età di 88 anni, ma neppure le scuole dell’area di Nuseirat amministrate dall’Unrwa si sono rivelate un riparo sicuro, mentre la 14enne Nur Ziyad è riuscita a trovare accoglienza con la sua famiglia in una struttura scolastica nella zona est di Rafah, dopo un lungo pellegrinare da Beit Lahia nel nord della Striscia fino a Tel al-Sultan, passando per il campo profughi di Jabalia. Storie drammatiche, che – ha voluto rimarcare l’Agenzia – hanno segnato la vita di «generazioni differenti» accomunate tuttavia dalla «stessa deprivazione».
Nello scorso mese di gennaio, l’Unrwa è finita al centro delle cronache internazionali dopo le accuse formulate da Israele nei confronti di 12 membri del suo staff, che avrebbero attivamente partecipato alle stragi del 7 ottobre. La denuncia delle autorità di Tel Aviv non ha però riguardato soltanto quei terribili massacri, costati la vita a circa 1.200 persone con altre 250 prese in ostaggio, ma ha scavato ben più in profondità, arrivando di fatto a sostenere una contaminazione tale dell’Agenzia da rendere impraticabile qualsiasi operazione di ‘bonifica’ o di riforma: dunque, non un caso derubricabile alla pur grave presenza di ‘mele marce’ all’interno dell’organizzazione, ma un’infiltrazione radicata e pervasiva, che secondo quanto riportato nei documenti dell’intelligence israeliana – consultati da The Wall Street Journal – arrivava a coinvolgere fino al 10% circa degli operatori dell’Unrwa a Gaza, collegati in qualche modo a gruppi terroristici ed estremisti. Nel mese di febbraio, la conferma sarebbe poi arrivata dal ministro della difesa di Israele, Yoav Gallant, che oltre a fornire ulteriori informazioni sui 12 componenti dello staff ritenuti direttamente coinvolti nell’eccidio del 7 ottobre, avrebbe dichiarato che 1.468 lavoratori dell’Agenzia – ossia il 12% del personale Unrwa attivo nella Striscia – erano da considerarsi membri di Hamas o del Jihad islamico palestinese, aggiungendo che in 185 appartenevano addirittura all’ala militare della stessa Hamas. Pur senza aver pubblicamente esibito prove a supporto di quanto affermato, l’inevitabile conclusione per Gallant non poteva dunque che essere una, già più volte ribadita: l’Unrwa aveva perso la sua legittimazione a esistere e non poteva più agire come una struttura direttamente collegata alle Nazioni unite. Nel frattempo, si era però già prodotto un effetto domino che metteva in discussione le stesse capacità operative dell’Agenzia: le accuse mosse da Israele avevano infatti spinto 16 Stati donatori – tra cui l’Italia – a sospendere i loro finanziamenti in favore dell’organizzazione, in attesa che si facesse piena luce sulla vicenda. Dunque, circa 450 milioni di dollari temporaneamente bloccati. Per il peso del contributo garantito, assai significativo era stato lo stop disposto dagli Stati Uniti, ampiamente il maggior contribuente alle attività dell’Unrwa: secondo i dati relativi al 2022, Washington aveva infatti impegnato risorse per un valore complessivo di 343,9 milioni di dollari a favore dell’Agenzia, il cui budget ammontava a circa 1,2 miliardi. A complicare ulteriormente il quadro, sarebbe poi arrivata nel mese di marzo la decisione del Congresso statunitense di vietare l’esborso di ulteriori fondi pro-Unrwa per un anno, ossia fino al 25 marzo 2025: dunque, spetterà alla prossima amministrazione stabilire se – e come – supportare il lavoro dell’Agenzia, a cui peraltro già nel 2018 l’allora presidente Donald Trump aveva cancellato gli aiuti.
L’allarme di Philippe Lazzarini – Commissario generale Unrwa – sulla nuova «punizione collettiva» inflitta ai palestinesi portava con sé un messaggio esplicito: senza un immediato sblocco delle risorse, l’Agenzia sarebbe stata costretta a interrompere le sue attività non soltanto a Gaza, ma nell’intera regione. L’Unrwa non svolge infatti la sua missione esclusivamente nella Striscia, ma opera anche in Cisgiordania, in Giordania, in Libano e in Siria, assicurando assistenza e protezione a coloro che – secondo la definizione operativa adottata – sono riconosciuti come rifugiati palestinesi poiché «residenti in Palestina tra il 1° giugno 1946 e il 15 maggio 1948» e privati «della casa e dei mezzi di sussistenza a seguito del conflitto del 1948». Tale status si trasmette inoltre per discendenza maschile, ed è quindi attribuito ai figli di padri identificati come rifugiati palestinesi: attualmente, rispondono ai criteri stabiliti per essere beneficiari dei servizi Unrwa circa 5,9 milioni di persone.
Istituita l’8 dicembre del 1949 con la risoluzione 302 dell’Assemblea generale [A/RES/302 (IV)], inizialmente con un mandato annuale che sarebbe poi stato rinnovato plurime volte, l’Agenzia aveva il compito di portare a termine – in collaborazione con i governi locali – appositi programmi di lavoro e di aiuto diretto, nella consapevolezza della necessità – ribadita dal testo della risoluzione stessa – di continuare a sostenere i rifugiati palestinesi per «contrastare la situazione di fame e miseria» e «promuovere condizioni di pace e stabilità». Come però rilevato in un’analisi firmata da Tiara Sahar Ataii e pubblicata su Foreign Policy, tale iniziativa va letta all’interno del suo specifico contesto storico – segnato dallo sfollamento di centinaia di migliaia di palestinesi – e soprattutto tenendo a mente che circa un anno prima, l’11 dicembre del 1948, l’Assemblea generale Onu aveva approvato un’altra risoluzione, la 194 [A/RES/194 (III)], con la quale aveva richiamato il diritto dei rifugiati a «fare ritorno nelle loro case e vivere in pace»: quel diritto – sottolineava la risoluzione istitutiva dell’Unrwa – rimaneva impregiudicato, ma non sfuggivano le evidenti difficoltà nel renderlo effettivo, pertanto occorreva immaginare soluzioni diverse. In questo quadro dunque – osserva Ataii nella sua analisi – le Nazioni unite inviarono nei paesi che ospitavano i palestinesi un’apposita missione (Economic survey mission), la quale giunse alla conclusione che i menzionati programmi di lavoro e di aiuto rappresentassero un’opportunità in grado di offrire alternative ai rifugiati e di mostrare loro una «visione più realistica del futuro» che volevano e che avrebbero potuto ottenere: pertanto, la prospettiva che veniva di fatto dichiarata era quella di una progressiva integrazione nelle società degli Stati di accoglienza, alla luce delle assai limitate possibilità di un rientro nelle proprie terre. Tali processi di integrazione non si sono tuttavia verificati, e i palestinesi sono rimasti ampiamente relegati nei campi profughi: in questa cornice, l’Unrwa ha assunto dunque funzioni parzialmente assimilabili a quelle di uno Stato, gestendo direttamente programmi inerenti l’istruzione, l’assistenza sanitaria, la microfinanza, lo sviluppo delle infrastrutture e i servizi sociali. Un suo eventuale smantellamento – più volte invocato da Israele dall’inizio del conflitto a Gaza – priverebbe dunque milioni di palestinesi dell’accesso a servizi pubblici essenziali, tanto nella Striscia e in Cisgiordania quanto negli altri paesi in cui l’Agenzia è attiva, con la diretta conseguenza che il peso dell’erogazione di tali servizi ricadrebbe sulle spalle di Stati che stanno già affrontando situazioni particolarmente critiche, come la Siria o il Libano: il rischio, dunque, sarebbe quello di provocare ulteriori turbolenze in uno scenario già caratterizzato da notevole instabilità. Al tempo stesso, pare inoltre difficilmente praticabile lo scioglimento dell’Unrwa e la sua fusione con l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (United nations high commissioner for refugees, Unhcr): oltre ad avere una vocazione universale, che con più di 20.000 operatori in 137 paesi la porta a occuparsi di oltre 120 milioni di persone bisognose di protezione, l’Unhcr eroga servizi in misura assai meno significativa rispetto all’Unrwa perché risponde ad altre finalità, e dunque assicura prevalentemente assistenza temporanea focalizzandosi soprattutto su soluzioni più orientate al lungo periodo, come i processi di ricollocamento o i ritorni volontari. La stessa Unrwa precisa peraltro che anche qualora fosse l’Unhcr a occuparsi dei rifugiati palestinesi attualmente coperti dal suo mandato, questi conserverebbero comunque i diritti loro riconosciuti dalla risoluzione 194, e pertanto potrebbero continuare a invocare il ritorno nelle loro terre o il pagamento di somme risarcitorie. In questa cornice, appare dunque chiaro che ben poco cambierebbe a fronte di eventuale trasferimento di competenze da un’agenzia all’altra, e che la vera sfida risiede nella capacità – e nella volontà – delle parti coinvolte di intavolare un negoziato che promuova una soluzione politica della conflittualità israelo-palestinese.
D’altra parte, alcune criticità appaiono comunque visibili. Su Foreign Affairs, Jonathan Lincoln ha osservato come il tema della possibile infiltrazione dell’Unrwa da parte di affiliati di Hamas e di altre organizzazioni estremiste non sia nuovo, rilevando altresì i rischi a cui gli operatori dell’Agenzia si sono esposti quando hanno provato ad avanzare le loro denunce. La gravità delle accuse mosse in questa occasione da Israele, alla luce della drammaticità dei fatti del 7 ottobre, ha dunque imposto un’immediata risposta. A tal fine, il segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha perciò ordinato l’apertura di indagini approfondite da parte dell’Ufficio delle Nazioni unite per i servizi interni (United nations office of internal oversight services, Oios). In base a quanto riportato da Lazzarini, l’inchiesta ha riguardato 19 membri dello staff Unrwa, tra cui i 12 coinvolti secondo Tel Aviv nei massacri: riguardo a questi ultimi, è stato precisato che in 8 casi le indagini sono ancora in corso, un caso è stato chiuso per mancanza di prove – anche se l’Agenzia stava valutando ad aprile possibili azioni amministrative correttive – e altri 3 sono stati sospesi, poiché le informazioni fornite all’Oios da Tel Aviv non sono state sufficienti per procedere. Per quanto concerne i 7 casi rimanenti, 6 risultano ancora aperti e uno è stato sospeso, in attesa di ulteriori evidenze.
Su un altro binario si è invece mosso l’apposito Gruppo indipendente costituito dal segretario generale al fine di valutare se l’Unrwa stia facendo tutto ciò che è in suo potere per aderire al principio di neutralità e rispondere alle accuse di violazione di tale principio quando queste sono avanzate, tenendo in debita considerazione il particolare contesto in cui l’Agenzia si trova a operare, soprattutto a Gaza. Presieduto dall’ex ministra francese degli Esteri, Catherine Colonna, e integrato nella sua composizione da tre importanti organizzazioni – il Raoul Wallenberg institute of human rights and humanitarian law, il Chr. Michelsen institute e il Danish institute for human rights – il Gruppo ha effettuato visite nelle sedi Unrwa di Amman, Gerusalemme e della Cisgiordania, consultato gli Stati donatori, Israele, Egitto, l’Autorità palestinese, agenzie Onu e Ong, tenuto contatti con 47 Stati e organizzazioni e svolto incontri con oltre 200 persone. L’esito di tale lavoro è stato un rapporto di 54 pagine pubblicato ad aprile, nel quale è stato riconosciuto che l’Unrwa «ha stabilito un numero significativo di meccanismi e procedure per garantire il rispetto dei principi umanitari, con particolare enfasi sul principio di neutralità, e presenta un approccio alla neutralità più sviluppato rispetto a entità delle Nazioni unite o organizzazioni non governative ad essa simili». Il documento contiene comunque 50 raccomandazioni raccolte in otto sotto-sezioni, che spaziano dai rapporti con i donatori – che dovrebbero essere improntati a una maggiore trasparenza – alla governance, dalle riforme del management e dei meccanismi di supervisione alla neutralità dello staff, dall’istruzione al rafforzamento delle partnership con le agenzie Onu. In merito alle affermazioni di Israele secondo cui un rilevante numero di membri dello staff Unrwa apparterrebbe a organizzazioni terroristiche, il report rileva poi che Tel Aviv deve ancora fornire prove di quanto asserito. L’Agenzia, da parte sua, ha accolto le considerazioni espresse dal rapporto e si è detta pronta a dare seguito alle raccomandazioni, mentre dal ministero degli Esteri israeliano è arrivata una risposta di ben altro tenore: Hamas – è la posizione di Israele – «ha infiltrato l’Unrwa in modo così profondo» che non è più possibile capire dove finisca l’una e cominci l’altra, e il rapporto Colonna avrebbe ignorato la radicalità del problema proponendo «soluzioni superficiali» che non affrontano realmente la questione. Muovendosi in continuità con tale linea, a fine maggio, la Knesset ha addirittura approvato in prima lettura un provvedimento che designa l’Unrwa come organizzazione terroristica.
Intanto, quasi tutti i paesi che avevano inizialmente sospeso le loro donazioni all’Agenzia hanno deciso di riattivarle. In primo piano, restano i crudi numeri che raccontano una realtà tanto complessa quanto drammatica, ed evidenziano come a Gaza – dal 7 ottobre – 1,7 milioni di persone siano state costrette ad abbandonare le loro case e 497 siano rimaste uccise mentre cercavano riparo all’interno di strutture amministrate dall’Unrwa, che finora ha garantito – tra le altre cose – supporto psicosociale a 650.000 sfollati, tra cui 400.000 minori. Per affrontare le principali emergenze umanitarie nella Striscia e in Cisgiordania, l’Agenzia ha reso noto di avere bisogno – da aprile fino a dicembre – di risorse per complessivi 1,2 miliardi di dollari, ricordando come il 100% della popolazione gazawi stesse sperimentando ad aprile livelli critici di insicurezza alimentare, i residenti avevano accesso a meno di un litro di acqua al giorno per bere e lavarsi, almeno 17.000 minori risultavano non accompagnati o separati dalle loro famiglie e oltre 300.000 studenti delle scuole Unrwa erano stati privati del diritto all’istruzione. E ancora in Cisgiordania – dal 7 ottobre 2023 al 30 marzo 2024 – 1.714 persone erano state sfollate a causa della demolizione di 336 case, mentre in 200.000 avevano perso i loro mezzi di sostentamento per la sospensione dei loro permessi di lavoro in territorio israeliano e negli insediamenti. L’Unrwa ha però lanciato ad aprile un appello di emergenza anche per gli altri territori in cui opera: servono 126 milioni di dollari per il Libano, oltre 24 milioni per la Giordania e più di 264 per la Siria.
Vincenzo Piglionica