Le scoperte di ingenti giacimenti di gas naturale nel Mediterraneo orientale e la conseguente istituzione dell’East Mediterranean gas forum (Emgf) hanno alimentato le speranze che la «diplomazia del gas» potesse contribuire a un allentamento delle tensioni e incidesse positivamente sui rapporti tra i paesi dell’area. Tuttavia, questo obiettivo è stato ostacolato da diverse questioni geopolitiche ancora aperte.
Il Mediterraneo orientale è storicamente tormentato da conflitti armati e dispute politiche. La guerra israelo-palestinese, che coinvolge anche il Libano, è tornata dal 7 ottobre a scuotere il Medio oriente minacciando di estendersi a tutta la regione; le tensioni tra Turchia, Cipro e Grecia periodicamente riaffiorano, mentre la profonda instabilità che caratterizza Libia e Siria, sebbene attualmente meno intensa che in passato, rischia di cronicizzarsi.
In questo quadro dunque, la ricchezza energetica sembrava offrire l’opportunità per percorrere la strada della distensione: secondo gli specialisti di settore infatti, la «diplomazia del gas» avrebbe portato i paesi rivieraschi a esplorare nuove strategie di cooperazione, finalizzate a trovare punti di sintesi tra interessi nazionali contrastanti per valorizzare al meglio il potenziale della regione sul fronte degli idrocarburi. Ad alimentare tali aspettative è stata l’individuazione di giacimenti di media grandezza all’inizio del 21° secolo, come Gaza marine (2000), al largo delle coste di Gaza e Tamar (2009) nelle acque israeliane. Queste scoperte hanno spinto l’U.S. geological survey (USgs) – l’istituto geologico nazionale degli Stati Uniti – a condurre nel 2010 indagini sismiche nell’area. Tali ricerche hanno permesso di stimare la presenza di quasi 10.000 miliardi di metri cubi di gas, ancora non scoperto ma tecnicamente recuperabile, nella porzione di mare compresa tra il bacino israeliano e quello egiziano. È grazie a queste stime che i lavori di esplorazione del gas nell’area hanno avuto un impulso significativo. Infatti, in meno di dieci anni, sono stati scoperti giacimenti che hanno permesso ad alcuni paesi rivieraschi di rivedere le proprie politiche energetiche, e non solo.
Cipro ha rinvenuto delle quantità rilevanti di gas davanti alle sue coste, nei giacimenti di Afrodite (2011), Calypso (2018) e Glaucus (2019). Ciononostante, Nicosia non è ancora riuscita a commercializzare l’idrocarburo in quanto non dispone delle infrastrutture necessarie al suo trasporto. Israele ed Egitto, invece, sono i paesi che hanno avuto un ritorno economico maggiore, riuscendo sia a soddisfare il proprio fabbisogno energetico – grazie rispettivamente ai giacimenti Leviathan (2010) e Zohr (2015) – sia ad assumere un’importante posizione all’interno dello scacchiere energetico regionale. Ciò è stato possibile perché i due paesi, avendo una rete infrastrutturale già attiva sul territorio al momento della scoperta, sono riusciti a trasportare il gas sia tramite gasdotto, per soddisfare la domanda interna di energia, sia tramite gli impianti di liquefazioni egiziani di Idku e Damietta, per esportare fuori regione la risorsa sotto forma di gnl – gas naturale liquefatto.
Non a caso nel giugno del 2022 l’Unione europea (Ue), al fine di non dipendere più dagli idrocarburi russi, ha firmato con Tel Aviv e Il Cairo un memorandum d’intesa per la cooperazione in materia di commercio, trasporto ed esportazione del gas naturale. La scoperta dei giacimenti ha poi favorito l’avvio di nuove iniziative di collaborazione, soprattutto attraverso l’istituzione, nel 2019, dell’Emgf, che attualmente comprende otto membri effettivi – vale a dire Italia, Israele, Palestina, Giordania, Grecia, Cipro, Egitto e Francia – e tre osservatori permanenti, ossia l’Ue, gli Stati Uniti e il Gruppo Banca mondiale. Consci della rilevanza delle risorse individuate, ma anche delle opportunità e delle sfide che tale disponibilità pone davanti, gli Stati membri dell’organizzazione hanno dunque compreso che «il pieno potenziale del bacino del gas del Mediterraneo orientale può essere sbloccato solo se i fornitori, gli acquirenti e i paesi di transito nella regione…cooperano per sviluppare un’infrastruttura per il commercio del gas all’interno della regione e con i mercati esterni».
La grande assente in tale progetto è evidentemente la Turchia, paese con la maggiore estensione costiera del Mediterraneo orientale e che può fare affidamento su una delle reti di gasdotti più sviluppate nella regione. Tuttavia le tensioni che animano le relazioni di Ankara tanto con Nicosia, dai tempi dell’invasione turca del 1974 e per via della permanenza sull’isola dell’entità statale de facto della Repubblica turca di Cipro del Nord, quanto con Atene per le rivendicazioni avanzate da Recep Tayyip Erdoğan su alcune porzioni di mare greco, hanno portato i membri dell’Emgf a escludere dal Forum la repubblica anatolica.
Nei primi cinque anni di vita dell’Emgf, i paesi membri sono effettivamente riusciti a sviluppare alcune forme di collaborazione. In particolare, sono emerse due solide partnership trilaterali: da un lato, quella costituita da Cipro, Grecia e Israele, e dall’altro quella tra Cipro, Grecia ed Egitto, che hanno promosso modelli differenti di commercializzazione del gas. La prima partnership è impegnata principalmente nella costruzione del gasdotto EastMed, un’infrastruttura pensata per collegare le coste israeliane con quelle dell’Europa meridionale, passando attraverso le acque cipriote e greche fino a raggiungere l’Italia. Questo progetto ha ricevuto un forte sostegno politico da due membri osservatori dell’Emgf, ossia l’Unione Europea, che lo ha inserito tra i progetti di interesse comune, e gli Stati Uniti che lo hanno ufficialmente supportato fin dalle sue prime fasi. Il secondo raggruppamento è invece focalizzato sia sulla realizzazione di un collegamento elettrico tra le coste dei tre paesi e l’Europa, sia sullo sviluppo delle infrastrutture cipriote per il trasporto del gas, in sinergia con gli impianti egiziani di liquefazione di Idku e Damietta.
Nel quadro dell’Emgf, anche l’Autorità nazionale palestinese (Anp) è riuscita a compiere alcuni passi in avanti nel percorso di consolidamento della sua sicurezza energetica, soprattutto per quel che riguarda lo sviluppo del giacimento Gaza marine. Nel 2000, due multinazionali specializzate nel settore oil&gas – la British gas (Bg) e la partner CC oil&gas – scoprirono, a 35 km dalla costa di Gaza e ad una profondità di 600 metri, un giacimento di gas con una capacità di 1000 miliardi di piedi cubi.
Un ritrovamento di tale rilevanza aprì nuove prospettive per la Palestina, che non solo poteva finalmente provare a diventare indipendente dal punto di vista energetico, ma sembrava nelle condizioni di ottenere – vista la domanda piuttosto contenuta a livello nazionale – anche un consistente ritorno economico dalla vendita del prezioso idrocarburo. Un primo piano di commercializzazione si basava su due opzioni, prevedendo il trasporto del gas dal Gaza marine all’impianto di Idku oppure la sua vendita diretta alla Israel electric corporation, ma per ragioni economiche, legali e politiche – come la guerra israelo-palestinese del 2007 – i lunghi negoziati, durati quasi dieci anni, si sono rivelati inconcludenti sia con la parte egiziana che con quella israeliana.
Tuttavia nel 2021, a poco più di un anno dall’istituzione dell’Emgf e nonostante le resistenze manifestate da Israele, è stata intrapresa una nuova iniziativa, soprattutto su spinta dell’Egitto che aveva raggiunto un accordo sugli aspetti tecnici con l’Autorità nazionale palestinese. Due anni prima, la major anglo-olandese Shell aveva infatti ceduto la sua quota di licenza su Gaza marine, ottenuta a seguito dell’acquisizione di Bg nel 2016, e questo aveva posto le basi per l’ingresso del Palestine investment fund (Pif) e dell’Egyptian natural gas holding company (Egas) nel consorzio per lo sviluppo del giacimento.
Così, nel 2023, si è arrivati alla decisione finale di investimento, con la quale si è stabilito che il gas prodotto sarebbe stato acquistato da Egas e che, su richiesta israeliana, la quota dei ricavi sarebbe stata trasferita solo all’Anp e non ad Hamas, che dal 2007 controlla il potere politico a Gaza. Oramai in dirittura d’arrivo, l’accordo è stato posto in stand-by dopo gli attacchi perpetrati da Hamas il 7 ottobre e la durissima controffensiva israeliana nella Striscia, a dimostrazione di come sia difficile – se non impossibile – tenere separate su un fronte così instabile sfera economica e sfera politica.
Ciononostante, le dinamiche positive che si sono attivate meritano attenzione: innanzitutto, la partecipazione al Forum ha assicurato all’Anp l’opportunità di un coinvolgimento diretto nel dialogo su tematiche di rilevanza strategica per l’area, e inoltre lo stadio estremamente avanzato delle trattative sul progetto per lo sviluppo del Gaza marine testimonia come la politica energetica possa rappresentare un ambito importante di cooperazione regionale, incentivando il dialogo tra paesi che su altri dossier sono invece profondamente divisi.
In tale cornice dunque, come evidenziato in un suo documento dalla Fondazione ellenica per la politica estera ed europea (Eliamep), le politiche energetiche possono contribuire all’instaurazione di uno spirito maggiormente collaborativo e quindi avere un effetto stabilizzante, nonostante i conflitti e le tensioni che scuotono l’area. Per dare nuova linfa a tali processi di cooperazione, occorre tuttavia fare di più: guardando ai nuovi, possibili orizzonti di collaborazione, Eliamep esorta il Forum ad allargare la sua agenda anche alle energie rinnovabili, perché la transizione verso l’energia verde può non solo aiutare a risolvere i problemi sul fronte energetico, ma anche contribuire ad affrontare i rischi legati ai cambiamenti climatici, tanto più in una regione caratterizzata da una domanda energetica elevata, bassa efficienza e dipendenza dai combustibili fossili. L’inclusione delle energie rinnovabili nell’agenda dell’Emgfapporterebbe perciò diversi benefici, perché indicherebbe un deciso impegno per la diversificazione delle fonti, il miglioramento della sicurezza energetica e il potenziamento della cooperazione regionale, accelerando così lo sviluppo socioeconomico dell’area. In questo modo, il Forum potrebbe esprimere tutto il suo potenziale trasformativo, per diventare – da luogo tematico di discussione e confronto – promotore credibile della crescita, della prosperità e della pace a livello regionale.
Laura Ponte