Il 7 ottobre 2023 il gruppo estremista palestinese Hamas ha condotto un attacco lanciando dei razzi da Gaza verso le regioni del centro e del sud di Israele, durante i festeggiamenti di Sukkot (festa dei tabernacoli). Nel frattempo, miliziani armati oltrepassavano il confine per dare inizio a un’aggressione parallela che non risparmiava le vite degli israeliani, in un momento di divertimento come il festival musicale Supernova e nella vita quotidiana delle comunità dei kibbutz, dove sono stati perpetrati atroci massacri. Le immagini di quanto accaduto hanno mostrato gli aspetti più brutali degli attacchi e lasciato il mondo paralizzato di fronte all’ennesima manifestazione della crudeltà umana. Il bilancio è stato gravissimo: più di 1000 morti, più di 2000 feriti e circa 240 persone prese in ostaggio.
La data del 7 ottobre e l’escalation che ne è scaturita rappresentano un’ulteriore fase del lungo conflitto arabo-israeliano iniziato nel 1948-49, e si inseriscono nel quadro della complessa situazione in Medio Oriente e della questione palestinese. All’indomani degli attacchi, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non ha esitato alla dichiarazione di guerra, annunciando l’operazione aerea “Spade di ferro” sopra la Striscia di Gaza finalizzata a colpire obiettivi militari di Hamas. Il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha annunciato il blocco totale della Striscia stessa, vietato il passaggio di beni di prima necessità e interrotto le forniture di energia elettrica, dando così inizio all’assedio. Le reazioni della comunità internazionale non sono tardate ad arrivare, e accanto ai messaggi di solidarietà e sostegno a Tev Aviv – in particolare dai più stretti alleati, Stati Uniti in primis – si è invocato il “diritto di Israele a difendersi”. La legittima difesa nel diritto internazionale è riconducibile al diritto consuetudinario e risulta anche codificata nell’art. 51 della Carta ONU, quale diritto di ciascuno Stato all’autodifesa, individuale o collettiva, in caso di un attacco armato. Si tratta evidentemente di un’eccezione rispetto al principio sancito all’art. 2 par. 4 della Carta stessa, in base al quale gli Stati membri devono «astenersi nelle relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza»; tale eccezione però deve attenersi a criteri e parametri rigorosi, quali la necessità e la proporzionalità della risposta.
Già durante il primo mese di guerra, Israele ha disposto ordini di evacuazione nella zona nord della Striscia ed effettuato pesanti bombardamenti che non hanno risparmiato gli edifici civili, ospedali compresi. A fine ottobre, l’Assemblea generale Onu ha approvato la prima risoluzione per chiedere una tregua umanitaria immediata a Gaza: sul testo si è registrata un’ampia convergenza con 121 voti favorevoli, ma significative sono state anche le 44 astensioni, tra cui quella dell’Italia, e i 14 voti contrari, compreso quello degli Stati Uniti. Nel mese di novembre, le forze israeliane hanno poi compiuto raid a poca distanza da campi profughi palestinesi e ospedali, colpendo anche alcuni convogli medici.
La Mezzaluna rossa palestinese ha denunciato fin da subito le gravi violazioni del diritto internazionale umanitario da parte di Israele, responsabile di attacchi indiscriminati contro ospedali e personale medico oltre che degli ordini illegali di evacuare i nosocomi di Gaza e del blocco del passaggio di aiuti umanitari.
I bombardamenti contro i civili e il blocco dell’ingresso di aiuti umanitari sono crimini di guerra per i quali si chiede un’accurata attività investigativa volta ad accertare la responsabilità di chi li commette. Le condotte illecite che vengono perpetrate nel contesto di un conflitto armato, qualificabili come crimini di guerra, sono elencate nel lungo art.8 dello Statuto della Corte penale internazionale: tra queste vi sono le uccisioni illegittime (si intende l’uccisione di civili e in alcuni casi di militari), gli attacchi militari intenzionalmente diretti contro obiettivi civili, tra cui convogli che trasportano aiuti umanitari e materiale medico, la privazione di alimenti che porta una parte della popolazione all’inedia, e ancora la presa di ostaggi, compiuta in questo caso da Hamas.
Nei mesi successivi all’ottobre 2023, l’escalation nella risposta di Israele è parsa allontanarsi sempre più marcatamente dal mero esercizio del diritto all’autodifesa. Sia diversi paesi occidentali che quelli aderenti alla Lega araba hanno richiamato Tel Aviv al rispetto del diritto internazionale e alla cessazione delle ripetute violazioni dei diritti umani nei confronti del popolo palestinese. Contestualmente, è proseguito l’esodo dei palestinesi verso il sud della Striscia e sono iniziate le operazioni internazionali di assistenza umanitaria, alcune di queste a guida italiana come la missione della nave “Vulcano” della Marina militare – operativa dai primi di dicembre 2023 come ospedale galleggiante nelle acque egiziane – e l’iniziativa “Food for Gaza”, lanciata a marzo scorso in collaborazione con la Fao (Food and agriculture organization), il Wfp(World food programme) e la Federazione internazionale di Croce rossa e Mezzaluna rossa con l’obiettivo di facilitare l’accesso nella Striscia degli aiuti umanitari (generi alimentari e non solo).
Verso la fine di novembre c’è stato un primo cessate il fuoco concordato che ha permesso il rilascio di alcuni ostaggi da parte di Hamas, in cambio della liberazione di alcuni prigionieri palestinesi.
Alla richiesta di un cessate il fuoco si uniscono le voci di numerose organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty international che si occupa da decenni della crisi israelo-palestinese documentando sul campo la situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati. In un rapporto di quasi 300 pagine pubblicato a febbraio 2022, Amnesty ha denunciato l’occupazione dei Territori palestinesi da parte di Israele qualificandola come apartheid secondo la definizione indicata nelle tre convenzioni internazionali (la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, la Convenzione sull’eliminazione e la repressione del crimine di apartheid, lo Statuto della Corte penale internazionale), ovvero «un regime istituzionalizzato di oppressione e dominazione sistematica di un gruppo razziale su di un altro, con l’intenzione di mantenere la situazione di controllo».
Nei primi mesi del 2024 le ostilità sono proseguite con una certa intensità, parallelamente all’allargamento delle operazioni militari israeliane nel sud della Striscia di Gaza, dove sono presenti migliaia di sfollati palestinesi provenienti dal nord. Il 6 maggio scorso l’esercito israeliano ha preso il controllo del valico di Rafah, zona di collegamento tra l’Egitto e la Striscia e unico punto di accesso degli aiuti per Gaza. La situazione umanitaria è ulteriormente precipitata a seguito delle dichiarazioni di Netanyahu, che ha sostenuto di non essere intenzionato a cessare le operazioni militari. La chiusura del valico di Rafah ha prodotto conseguenze devastanti sulla risposta umanitaria, impedendo l’ingresso di forniture di qualsiasi tipo e dunque acuendo le già accentuate vulnerabilità dei civili intrappolati nella Striscia. Il personale di Medici senza frontiere (Msf) ha dichiarato, nei primi giorni di maggio, di dover sospendere le proprie attività e chiudere l’European Gaza hospital, considerato non più accessibile. Inoltre, a giugno, Msf ha dichiarato che nessuna sua fornitura era riuscita a entrare a Gaza dal mese di aprile, come conseguenza del congestionamento del flusso di aiuti umanitari per la chiusura del valico di Rafah e della burocrazia imposta da Israele. La mancanza di forniture mediche rende quasi impossibile l’assistenza e l’intervento da parte di Msf e di altre organizzazioni umanitarie presenti nelle zone di conflitto per dare supporto e assistenza alla popolazione civile. È quindi necessario che le autorità israeliane provvedano all’apertura di altri valichi per garantire l’assistenza umanitaria.
Il 10 giugno il Consiglio di sicurezza Onu, con la sola astensione della Federazione russa, ha adottato la risoluzione avanzata dagli Stati Uniti per chiedere un cessate il fuoco secondo un piano a tre fasi, volto a portare a una definitiva cessazione delle ostilità. Anche se su tale fronte potrebbero esserci effettivamente dei segnali positivi di svolta, determinati dall’implementazione della risoluzione, resta il problema della responsabilità e della punibilità dei crimini di guerra, commessi sia dai gruppi armati palestinesi che dalle autorità israeliane. La Commissione d’inchiesta Onu sui Territori palestinesi occupati ha evidenziato crimini di guerra commessi da entrambe le parti; pertanto si può concludere che la risposta di Israele agli attentati del 7 ottobre non si sia limitata a un’azione difensiva, ma abbia assunto i caratteri di una campagna aggressiva che si è intensificata nel tempo, con una serie di iniziative che non intendevano semplicemente indebolire Hamas, ma erano dirette a colpire la popolazione civile (uccisioni, distruzione di infrastrutture civili, trasferimenti forzati, incitamento al genocidio, punizioni collettive attraverso l’assedio totale imposto su Gaza, trattamenti inumani e degradanti, torture, violenze sessuali). A seguito di indagini, il Procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan ha depositato il 20 maggio una richiesta per emettere dei mandati di arresto nei confronti di tre esponenti militari e politici di Hamas, del primo ministro israeliano Netanyahu e del ministro della Difesa israeliano Gallant, accusati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nel territorio di Israele e nella striscia di Gaza.
L’atteggiamento ostile da parte di Israele verso una tregua e l’inerzia delle parti coinvolte verso una soluzione pacifica e definitiva del conflitto complica ancora di più il dialogo e il ruolo di mediazione svolto da alcuni paesi chiave, tra cui la Turchia, l’Egitto e il Qatar. Inoltre, il perpetrarsi delle gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, tra cui i continui ostacoli all’assistenza umanitaria e all’ingresso di aiuti a Gaza, tende a irrigidire i paesi occidentali, che fin dall’inizio hanno sostenuto Israele anche attraverso la fornitura di armi. Recentemente infatti, il Regno Unito ha annunciato la sospensione di alcune licenze per l’esportazione di armi a beneficio di Tel Aviv, a seguito di un esame della situazione nella striscia di Gaza che aveva suscitato forti preoccupazioni. A ciò, si aggiunge il crescente dissenso dell’opinione pubblica e della società civile israeliane nei confronti di Netanyahu per la gestione della questione ostaggi, che ha portato a proteste di piazza per chiedere che si ponga fine al conflitto.
Francesca Cocozza