A una settimana di distanza dalla presentazione del “Deal of the Century” di Donald Trump, il Primo Ministro ad interim israeliano, Benjamin Netanyahu, è stato invitato dal Presidente ugandese, Yoweri Museveni, per discutere dei rapporti tra i due Paesi. Netanyahu si è recato in Uganda lunedì 3 febbraio, in compagnia della moglie Sarah e del Direttore dei Servizi Segreti israeliani (il celebre Mossad), Yossi Cohen. Durante la visita, “Bibi” ha invitato Museveni ad aprire un’ambasciata a Gerusalemme.
Dopo l’apertura dell’ambasciata statunitense nella città santa nel maggio del 2018 – un giorno prima della Nakba (lett. catastrofe, cioè l’esodo dei palestinesi a seguito della nascita di Israele) -, Netanyahu sta tentando di convincere altri Stati a spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, così da creare una situazione di riconoscimento de facto della contestata capitale come interamente appartenente allo Stato israeliano. Tale strategia appariva ancor più urgente a meno di un mese dalle elezioni politiche – le terze in meno di un anno-, a seguito di due tornate elettorali che hanno visto il leader del Likud un passo indietro rispetto al suo principale avversario, il “moderato” Benny Gantz, ma che non hanno comunque consegnato a nessuno dei due candidati i numeri necessari per formare un governo.
Questa visita, di per sé già importante nell’ambito della politica estera israeliana e della campagna elettorale, ha avuto dei risvolti completamente inaspettati: durante il soggiorno ad Entebbe, Netanyahu ha partecipato ad un incontro segreto di due ore con il capo del Consiglio di Transizione del Sudan, il generale Abdel-Fattah al-Burhan. Dopo la destituzione del Presidente Omar al-Bashir nell’aprile 2019, il Generale al-Burhan rappresenta la maggiore autorità di Stato in Sudan e avrà il compito di guidare il Paese in questa delicata fase di transizione politica, che dovrebbe terminare con le elezioni nel 2022.
L’incontro tra i due leader è un evento senza precedenti nella storia delle relazioni tra i due Paesi. Infatti, dal 1956 il Sudan è membro della Lega Araba e nel 1967, pochi giorni dopo la vittoria israeliana nella Guerra dei Sei Giorni, è stato sede del famoso summit della Lega conclusosi con la “Dichiarazione di Khartoum”, passata alla storia per la decisione dei “tre no”: “no alla pace con Israele, no al riconoscimento dello Stato israeliano e no a qualsiasi tipo di negoziazione con Israele”. In tempi più recenti, il Sudan è stato accusato di aver dato rifugio ad Osama Bin Laden prima del suo trasferimento in Afghanistan nel 1996, il che ha portato gli Stati Uniti ad inserire Khartoum nella lista State Sponsors of Terrorism nel 1993. Inoltre, il Sudan ha svolto un ruolo fondamentale per facilitare il contrabbando di armi da Teheran: concedendo alle navi iraniane l’accesso ai porti e alle acque territoriali sudanesi, ha permesso ai pasdaran di creare una linea di rifornimento diretta con le forze alleate, in particolare Hezbollah ed Hamas, i più immediati rivali dello Stato israeliano.
Nel corso degli ultimi anni, tuttavia, il Sudan si è avvicinato sempre di più ai Paesi del Golfo, attratto dagli investimenti sauditi ed emiratini nella zona del Sahel, soprattutto nel settore agro-alimentare e, già dal 2016, Khartoum ha assunto un ruolo strategico nella guerra in Yemen a fianco di EAU ed Arabia Saudita, ingrossando le fila delle loro milizie con 14.000 truppe. Infine, a seguito del colpo di stato del 2019, finanziato dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Arabia Saudita, il Sudan è uscito completamente dalla sfera di influenza iraniana, per legarsi a Paesi più occidentalizzati nell’area mediorientale, nel tentativo di risanare la propria economia e la propria reputazione internazionale dopo decenni di isolamento sotto la guida islamista del Presidente Bashir.
Infatti, secondo fonti militari sudanesi, sarebbero stati proprio gli emiratini ad organizzare e coordinare l’incontro segreto tra il Generale al-Burhan e Netanyahu. Non deve stupire che, a seguito di ingenti investimenti nelle attività produttive locali e data l’esistenza di stretti rapporti con il Consiglio di Transizione, i Paesi del Golfo appaiano come mediatori in questo processo di normalizzazione. Avendo già conquistato un successo nella mediazione del trattato di pace tra Etiopia ed Eritrea, i ricchi Stati del Golfo guardano al continente africano come un terreno fertile per aumentare il proprio prestigio internazionale e appaiono desiderosi di far fruttare i propri investimenti nell’area.
Da parte sudanese, il riavvicinamento con Israele deve essere letto alla luce dei rapporti preferenziali che intercorrono tra Tel Aviv e Washington. La normalizzazione potrebbe segnare un punto di svolta nelle relazioni tra lo Stato africano e gli Stati Uniti: infatti, l’eliminazione del Sudan dalla lista degli Stati che finanziano il terrorismo significherebbe la rimozione delle sanzioni economiche americane e il conseguente rilancio dell’economia attraverso l’accesso ad importanti aiuti economici, di cui la nazione ha bisogno per uscire dalla crisi. Se, in questo senso, l’incontro ha già avuto il benestare del Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, che ha invitato al-Burhan in visita negli USA – anche se la data non è ancora stata fissata -, a livello interno sia il Consiglio di Transizione che la popolazione sudanese non hanno apprezzato l’autonomia di iniziativa del generale. Il primo perché non è stato informato né ha preso parte alle decisioni prese nel meeting e, di conseguenza, denuncia un’importante violazione dei dettami costituzionali sudanesi; i secondi perché vedono nel riavvicinamento con Israele una negazione dei diritti del popolo palestinese, al quale sono legati dall’appartenenza religiosa.
Se leggiamo gli eventi alla luce della campagna elettorale di Netanyahu, invece, questa svolta in politica estera appare di importanza cruciale nel contesto interno israeliano. Dal momento che Netanyahu è attualmente sotto accusa per tre reati di corruzione, la campagna elettorale del Primo Ministro si è sviluppata tentando in ogni modo di distogliere quanto più possibile l’attenzione dai processi in corso. Per “Bibi” in gioco c’è la propria sopravvivenza politica e per ottenere i consensi degli elettori il Primo Ministro ha puntato tutto sulle sue doti carismatiche e sulla sua esperienza decennale. D’altronde, sono questi i fattori che gli hanno consentito di creare rapporti confidenziali con i più importanti leader mondiali, primo fra tutti Trump – che gli ha consegnato un piano di pace ad hoc. All’opposto, il suo principale rivale alle elezioni, Benny Gantz, ex Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) e leader del partito Kahol Lavan, ha portato avanti una campagna elettorale decisamente poco incisiva, per lo più silente, anche se questo non gli ha impedito di mantenere la propria base elettorale. Le opinioni politiche dei due candidati, oltretutto, si sono differenziate nettamente soprattutto riguardo al ruolo che i due vogliono riservare alla religione nella sfera pubblica – il Likud è alleato con i partiti ultra-ortodossi – e per la retorica utilizzata – molto più moderata quella del leader di Kahol Lavan.
Questo successo diplomatico si configura come il più recente di una serie di riavvicinamenti e normalizzazioni tra Israele e gli Stati arabi, per cui sta attivamente lavorando anche l’amministrazione USA. Questa intenzione era stata anticipata da Netanyahu già all’inizio dell’anno durante una conferenza del suo partito, cui aveva fatto seguito un tweet del Ministro degli Esteri emiratino, Abdullah bin Zayed Al-Nayhan, il quale rimandava ad un articolo dello Spectator dal titolo “La riforma di Israele”. La distensione dei rapporti con i vicini Paesi arabi è legata ad una comunità d’intenti che è diventata ancora più urgente con l’inizio della guerra commerciale tra Iran e Stati Uniti. Infatti, se da un lato questi riavvicinamenti sono da attribuirsi alla componente economica – attualmente, infatti, Israele sta finanziando un grande progetto infrastrutturale che si propone di creare un collegamento su rotaia che interessi la zona del Golfo persico – e all’esigenza di aumentare il volume degli scambi commerciali, dall’altro lato il contesto regionale, dominato dalla rivalità esistente tra Iran (e i suoi proxies) e Arabia Saudita e l’ambigua postura assunta da Washington negli ultimi anni, hanno creato le giuste precondizioni per l’avvio di negoziati tra Israele e i Paesi arabi sunniti. Alla presentazione del Piano Trump, infatti, erano presenti delegati del Barhein, dell’Oman e degli EAU. La partecipazione di questi Stati all’iniziativa americana è sicuramente legata all’esigenza di ottenere il supporto di Stati storicamente vicini alle istanze palestinesi, così che il Piano risulti, almeno in apparenza, legittimo agli occhi della comunità internazionale.
Melania Malomo