Lo scorso 17 marzo, il Presidente iracheno Barham Salih ha affidato l’incarico di Primo Ministro all’ex governatore di Najaf, Adnan al-Zurfi. Entro 30 giorni, al-Zurfi dovrà formare un nuovo esecutivo in grado di ottenere la fiducia della maggioranza dei membri del Consiglio dei Rappresentanti (il Parlamento iracheno) e, successivamente, guidare il paese verso le elezioni anticipate entro l’anno. Tale compito non si prospetta per nulla semplice, dal momento che la nomina di al-Zurfi rappresenta il secondo tentativo da parte del Presidente di superare il lungo impasse politico sorto in seguito allo scoppio delle proteste di piazza nell’ottobre 2019, che hanno portato, tra le altre cose, alle dimissioni dell’ex Primo ministro, Adil Abdul-Mahdi, alla fine dello scorso novembre. L’azione dei manifestanti, tuttavia, non si è arrestata in seguito alle dimissioni della precedente amministrazione, ma anzi sfida sia la dura repressione messa in atto dalle forze di polizia – che, ad oggi, ha causato la morte di 700 persone e il ferimento di altre 3.000 – che l’emergenza coronavirus.
Gran parte della popolazione irachena chiede un radicale ricambio della classe politica che ha dominato lo scenario interno post-Saddam Hussein, e la fine del sistema politico a base etnico-confessionale – il Muhasasa – che viene da molti ritenuto la causa principale dei fenomeni di corruzione dilagante all’interno dell’apparato governativo. Tale sistema, istituito allo scopo di risolvere le dispute settarie a livello istituzionale, ha di fatto favorito la permanenza di determinate figure politiche all’interno dell’apparato governativo iracheno, nonché l’ereditarietà di fatto delle cariche istituzionali. Il sistema elettorale è stato sfruttato dall’attuale classe politica per portare avanti interessi personali – o in minor parte settari – attraverso la creazione di un sistema clientelare destinato alla base etnica e religiosa di riferimento, e tutto ciò ha ulteriormente contribuito a delegittimare i tradizionali centri dell’autorità statale. Questo sistema ha quindi perso consensi proprio perché ha favorito l’insorgere di fenomeni di corruzione, permettendo a molti politici di anteporre i loro interessi personali a una più consona amministrazione statale.
Per rispondere alle richieste dei manifestanti, il 3 gennaio il Parlamento ha quindi votato una nuova legge elettorale, che permetterà agli elettori di assegnare la propria preferenza non solo ai partiti politici, ma anche a candidati indipendenti. Inoltre, il nuovo sistema prevede l’organizzazione di collegi uninominali – “distretti” – da 100.000 elettori. Di conseguenza, i candidati non dovranno più affiliarsi ad una lista nazionale o provinciale ma, al contrario, dovranno scegliere un singolo distretto nel quale concorrere. Questa nuova legge dovrebbe favorire i candidati indipendenti e porre fine allo strapotere dei partiti tradizionali – come il movimento Hikma, il partito Dawa e il Partito Sunnita-Islamico. Tuttavia il nuovo sistema potrebbe favorire il risorgere di partiti populisti, come il movimento riconducibile a Muqtada al-Sadr, o fazioni politiche legate al Fronte di Mobilitazione Popolare – le frammentate forze di sicurezza irachene di cui fanno parte anche le forze Quds, una milizia affiliata all’Iran e in particolare al Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (Islamic Revolutionary Guard Corps, Irgc).
La nomina di al-Zurfi arriva dopo diversi mesi di stallo politico. Il primo febbraio di quest’anno, il Presidente Salih aveva affidato la carica di premier all’ex ministro delle Comunicazioni Mohammed Tawfiq Allawi. Tuttavia la nomina di Allawi era stata fortemente criticata dall’opinione pubblica, in quanto l’ex ministro sembrava molto vicino all’Iran. Una delle più urgenti richieste da parte della popolazione, infatti, è proprio quella di svincolare l’Iraq dall’influenza iraniana, che si concretizza non solo attraverso il legame tra il regime di Teheran e vari gruppi sciiti locali, ma anche a livello istituzionale, con la partecipazione di partiti palesemente sostenuti dall’Iran alla definizione dell’agenda politica nazionale. La strategia utilizzata dall’Iran per tutelare i propri interessi in Iraq ha puntato a sfruttare momenti di profonda debolezza statale (nello specifico, il periodo post-Saddam Hussein) e la presenza di una comunità nazionale caratterizzata da profonde divisioni settarie – a base etnica e religiosa. Questi fattori hanno permesso al regime degli ayatollah di riempire il vuoto politico iracheno, attraverso alleanze con segmenti sciiti della società e, successivamente, attraverso la creazione di gruppi più specificatamente politici e para-militari legati a doppio filo a Teheran, i quali sono riusciti, grazie ai finanziamenti iraniani, a guadagnarsi una reputazione solida come rappresentanti degli interessi sciiti locali.
Tuttavia, questa dinamica ha recentemente iniziato a cambiare sotto la spinta di un rinnovato spirito patriottico iracheno e con il parziale sfumare delle identità settarie a livello popolare – un fenomeno dovuto soprattutto alla cattiva gestione dell’apparato amministrativo e che ha finito per accomunare tutti i settori della società. Questi sviluppi hanno contribuito al venir meno del sistema stesso che Teheran ha sfruttato per creare la propria influenza all’esterno del proprio territorio nazionale e per innalzare la posizione degli attori proxy a livello istituzionale. Il malcontento popolare appare oggi specificatamente mirato contro l’Iran. Le proteste hanno infatti attaccato i consolati iraniani nelle città sacre di Najaf e a Karbala, mete del pellegrinaggio annuale degli sciiti, inviando un chiaro segnale alla leadership iraniana, anche da parte degli sciiti iracheni: un ritorno allo status quo precedente le proteste non verrà accettato dalla popolazione.
La nomina di Allawi come Primo ministro ad interim, oltre a essere stata criticata dai manifestanti, aveva anche incontrato l’opposizione dei principali partiti politici iracheni, che avevano rigettato il suo esecutivo in sede parlamentare. Il fallimento di Allawi nell’individuare un esecutivo che ottenesse l’approvazione dei membri del Consiglio appariva tuttavia prevedibile, dal momento che l’ex ministro non appartiene ad alcun partito ed era quindi privo del peso politico necessario per imporre la propria agenda in sede parlamentare. Il contesto politico sfavorevole ha quindi da subito reso Allawi vulnerabile alle pressioni di un Parlamento fortemente eterogeneo e di partiti politici con richieste contrastanti, che hanno di fatto reso impossibile la nomina di un esecutivo che fosse formato da politici indipendenti.
L’attuale premiership di al-Zurfi rappresenta solo l’ultimo di una serie di tentativi politici di colmare il vuoto istituzionale iracheno, tutti terminati con un nulla di fatto. Se da un lato il nuovo Premier non ha alcun particolare rapporto con Teheran, dall’altro al-Zurfi appare molto vicino agli Stati Uniti (ha infatti la doppia cittadinanza, irachena e statunitense, e ha collaborato con l’Autorità provvisoria della coalizione, il governo ad interim istituito dagli Stati Uniti durante l’occupazione irachena) e, di conseguenza, la sua nomina ha suscitato le critiche di quelle fazioni politiche legate a doppio filo con la Repubblica islamica, come l’alleanza Fatah e il partito Asaib Ahl al-Haq, che promettono di votare contro il suo esecutivo in sede parlamentare.
Nell’ipotesi in cui al-Zurfi riuscisse a nominare un esecutivo gradito al Parlamento, sarebbero diverse le questioni che il nuovo Primo ministro dovrebbe risolvere. I fenomeni di corruzione hanno infatti creato disagi importanti nella quotidianità dei cittadini iracheni, problemi la cui risoluzione appare urgente e alquanto complessa. Ad oggi il paese soffre di inadeguate infrastrutture pubbliche, scarsi servizi sociali di base, come acqua ed elettricità. La situazione economica è inoltre precaria e caratterizzata da un’elevata inflazione e alti tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile (40% secondo le stime del Fondo monetario internazionale). Inoltre, Baghdad si configura, oggi più che mai, come terreno di contesa tra la potenza iraniana (e i suoi referenti locali) e quella statunitense, contesa che ha avuto una vera e propria escalation a seguito all’uccisione, proprio in Iraq, del generale iraniano Qassem Soleimani. Proprio nel giorno della nomina di al-Zurfi si è verificata l’ultima di una serie di rappresaglie che si susseguono ormai da inizio anno: due razzi hanno colpito la base irachena di Basmaya, 60 km a sud-est di Baghdad, sede, oltre che delle forze irachene, anche di un presidio NATO.
Il già deteriorato contesto politico, economico e sociale deve oggi fare i conti con il rapido declino dei prezzi del petrolio e l’emergenza coronavirus, che ha ulteriormente manifestato le disfunzioni del sistema sanitario iracheno, i cui standard, una volta tra i più alti nel panorama mediorientale, sono declinati significativamente a seguito di decenni di guerre, sanzioni, crisi politiche e corruzione. Molti iracheni, di conseguenza, hanno perso fiducia negli enti pubblici e sono restii a conformarsi alle direttive sanitarie nazionali, convinti che l’emergenza del virus venga utilizzata come scusa da parte del governo per convincere coloro che protestano a rimanere in casa e perché, in ogni caso, il bilancio delle vittime del virus (8) è molto più basso del numero di vittime uccise dalle milizie filo-iraniane negli ultimi cinque mesi (700).
Melania Malomo